Cattolicesimo Democratico

Il bene comune e i “valori non negoziabili”

Lino Prenna

Coordinatore nazionale di Agire Politicamente

da Adista – Segni Nuovi - N. 70 - 1 Ottobre 2011

Mentre l’associazione di cattolici democratici Agire Politicamente concludeva la settimana di riflessione sulla «mediazione, virtù della politica», nell’annuale seminario estivo, a Sutrio (Ud), “presepe della Carnia”, il card. Angelo Bagnasco, lo scorso 4 settembre, apriva i lavori della Summer School, promossa dalle fondazioni Magna Carta di Gaetano Quagliariello e Italia Protagonista di Maurizio Gasparri, esponenti di prima fila del partito di Berlusconi [v. Adista n. 65/11].

Cosa c’entri un vescovo, anzi il presidente dei vescovi italiani, con una scuola di partito, per noi è difficile spiegare, tanto meno giustificare, anche se Bagnasco non è nuovo a tali frequentazioni. Ma non è di questo, almeno qui, che vogliamo parlare. Ce ne occupiamo, invece, per confrontarci con un passaggio della sua relazione, che vorrebbe avere una impegnativa autorevolezza, tanto da essersi proposta quale lectio magistralis.

Afferma Bagnasco: «Certi valori, anche se sono illuminati dalla fede, sono anzitutto bagaglio della buona ragione. Per questo sono detti “non negoziabili”. Si dice che la politica è l’arte della mediazione: è vero per molte cose, e speriamo che si raggiungano sempre le mediazioni migliori, ma vi sono dei principi primi che qualunque mediazione distrugge!».

Non è nuova questa affermazione, che ripropone l’ambiguità di una espressione infelice (“valori non negoziabili”) e include la diffidenza verso l’esercizio della mediazione culturale. Già alcuni anni fa, in un documento che presentammo a Roma, presso la Camera dei deputati, con il compianto Pietro Scoppola, parlavamo di «mediazione necessaria», intesa come «attività mediana di tradizione e di traduzione, declinazione e incarnazione dell’assoluto etico nel relativo politico». E ricordavamo che Giuseppe Lazzati aveva già notato che gli equivoci nati sul termine «mediazione» lo rendono sospetto, pur in presenza di motivi teologici, storici, esistenziali, che ne mostrano la validità sul piano culturale e dell’agire umano. Anzi, Lazzati ricordava che l’identità cristiana, proprio perché derivante da Cristo, il mediatore per eccellenza, consiste nell’essere mediazione.

Perciò, anche per queste ragioni fondative, consideriamo la politica, che impegna tanta parte dell’agire umano, il “luogo elettivo” di una paziente e tenace mediazione, finalizzata a tradurre i valori in beni concreti e strumenti fruibili da tutti, nella consapevolezza della parzialità di tale traduzione, che non è riduttiva, tanto meno distruttiva, del valore assoluto ma è l’esito che si può legittimamente perseguire, mediando il bene assoluto dell’intenzione con le limitate condizioni storiche dell’azione.

La riflessione del nostro seminario estivo, nel confrontare le identità proprie dei tanti versanti della mediazione (assoluto-relativo, spirito-materia, infinito-finito, Vangelo-cultura, fede-politica, Chiesa-Stato…) si è inoltrata a considerare la suggestiva affinità e perfino l’identificazione tra l’arte della mediazione e la virtù della temperanza, intesa come coscienza del limite e ricerca del possibile.

In questa prospettiva è risultata decisiva la funzione mediatrice del diritto, per cui la mediazione può proporsi come “temperatura” della politica, attività regolativa e orientativa, che promuove le attese e modera le pretese, mentre la legge, a sua volta, diventa lo strumento parziale ma necessario che regola le libertà e ne favorisce l’espressione, pone limiti al potere e ne rappresenta la condizione di esercizio, riconduce gli interessi particolari nell’orizzonte dell’interesse generale che, nel vocabolario del cattolicesimo politico, ormai ampiamente mutuato, prende l’impegnativo nome di “bene comune”.

A questo, cioè al bene di tutti e di ciascuno, tende l’esercizio politico della mediazione che, in quanto virtù, cioè habitus operativo del bene di tutti, distingue l’etica della laicità.

Un balzo indietro “clericomoderato”

Intervista a Franco Monaco

Luca Kocci

da Adista – Segni Nuovi - N. 70 - 1 Ottobre 2011

L’attivismo politico delle gerarchie ecclesiastiche – dal segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone, coadiuvato da mons. Mario Toso, fino al presidente della Cei Angelo Bagnasco (v. Adista nn. 51, 57, 60 e 65/11) – in vista del dopo-Berlusconi insospettisce Franco Monaco, deputato dell’Ulivo dal 1996 al 2006 e già presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana e di “Città dell’uomo”, associazione fondata da Giuseppe Lazzati. «Il carattere politicamente indefinito e la regia ecclesiastica – spiega ad Adista – lo fa assomigliare al vecchio “clerico-moderatismo”, quindi un balzo indietro anziché in avanti. Riscontro uno scarto tra l’ambizione alta di un nuovo protagonismo politico dei cattolici e l’assenza di un qualche pensiero e di un abbozzo di progetto. Così pure rilevo una certa contraddizione tra l’appello al protagonismo e all’iniziativa dei laici cristiani autonomi e responsabili e la loro convocazione da parte di rappresentanti della gerarchia».

Tuttavia molti – per lo più esponenti e associazioni dell’area cattolico-democratica – non hanno partecipato a queste iniziative, o perché non hanno voluto o perché non sono stati invitati.

Non so se essi siano stati invitati o no. Certo è significativa ed eloquente la loro esclusione o autoesclusione. Ed è sintomatico che a manifestare entusiasmo siano stati esponenti decisamente lontani dalla sensibilità e dai paradigmi propri del cattolicesimo liberale e democratico, come Buttiglione e Binetti. Ai quali porto rispetto, ma il cui profilo politico-culturale è oggettivamente altro. Non a caso essi sono stati già attori protagonisti di rotture (Buttiglione al tempo dei Popolari) o di congedi (Binetti dal Pd) dal troncone dei cattolici democratici. Differenze che non devono essere demonizzate ma neppure esorcizzate in nome di una unità politica dei cattolici innaturale e coatta.

Si parla di irrilevanza dei cattolici in politica…

Il problema è che si misuri la rilevanza del contributo cattolico alla politica con parametri vecchi, partendo dal presupposto che in passato i cattolici fossero più centrali o addirittura egemoni. In verità anche il mezzo secolo segnato dalla Dc ha conosciuto stagioni alte e basse sotto il profilo della qualità cristiana della politica.

Così pure nella cosiddetta Seconda Repubblica: Berlusconi, talvolta ricambiato, ha sempre sostenuto che la sua politica è stata conforme ai desiderata delle gerarchie cattoliche; Prodi non si è mai azzardato a rivendicare un’esemplare coerenza della sua azione con una visione cristiana della politica ma avrebbe qualche titolo per sostenerlo.

Quindi la questione è controversa.

Però trovo superficiale e ingenerosa la liquidazione dell'impegno di quanti, tra i cattolici, ci hanno provato in varie forme. Esprimo un punto di vista “di parte”: ora che il ciclo berlusconiano si sta chiudendo con un bilancio fallimentare, si dovrebbe dare atto a quanti, tra i cattolici, si sono opposti politicamente sempre e a viso aperto, applicandosi a cooperare a quel progetto cui abbiamo dato nome Ulivo-Pd. Sarebbe piuttosto da chiedere conto a quanti hanno disertato quel fronte praticando un comodo terzismo al cospetto di una deriva morale e politica visibilissima per chi non si fosse ostinato a non vedere.

E poi c’è Comunione e liberazione.

Che invece è stata tutt’altro che marginale e ha dato organico sostegno alla corrente del partito di Berlusconi, capeggiata da Formigoni. Perché c’è tanta reticenza nel formulare un giudizio critico sul bilancio di quell'investimento politico da parte di un movimento cattolico?

Quindi?

Chi auspica un rilancio deve prima operare un onesto bilancio.

Oggi, a fronte di uno sfacelo conclamato, dei cumuli di macerie morali e politiche, un nuovo e positivo protagonismo non può essere invocato e tantomeno esercitato senza prima tracciare un rendiconto delle responsabilità, attive e omissive. A che titolo possono proporsi come attori-protagonisti di una impresa ricostruttiva materiale e morale quanti sono stati complici o inerti nel tempo della devastazione? Qui non si tratta di semplici errori ma di vere e proprie gravi responsabilità. Colpe collettive, le definiva Dossetti, non limitate ad attori politici e sociali, ma alla comunità cristiana tutta, a cominciare da chi, in essa, porta le più alte responsabilità di guida, cui spettava un compito, largamente omesso, di discernimento, di illuminazione delle coscienze e di vigilanza cristiana.

All’associazionismo invece si riconosce dinamismo e vivacità.

È vero, ma io ho un’opinione opposta: l’associazionismo mi pare sfibrato da sotto e da sopra. Da sotto, dalla corrosione della scristianizzazione per nulla in via di regressione come alcuni uomini di Chiesa si sono raccontati in chiave autorassicurante. Dall’alto, da una verticalizzazione delle dinamiche interne alla Chiesa a discapito dell’autonomia e del protagonismo dei laici cristiani. Alla lievitazione dell'influenza delle gerarchie romane su Parlamento e governo ha corrisposto una mortificazione dell’autonomia responsabile del laicato. Dal Familiy Day al referendum sulla fecondazione assistita mi pare che l’associazionismo si sia attivato solo se convocato dall’alto. La sua ostentata ricomposizione unitaria è stata pagata al prezzo della sua eterodirezione e del depotenziamento di quell’associazionismo, Azione Cattolica in primo luogo, che aveva rappresentato il vivaio delle migliori vocazioni politiche. Per tacere delle storiche espressioni del cattolicesimo sociale, come Cisl e Acli, che non mi pare scoppino di salute se paragonate al loro glorioso patrimonio storico e ideale.

Il card. Bagnasco ha aperto la Summer school delle fondazioni Magna Carta (di Quagliariello) e Italia protagionista (di Gasparri), “organiche” al Pdl, con una lectio magistralis su Chiesa e politica. Non le è sembrato inopportuno?

Mi ha sorpreso sia perché in contrasto con la cura per una nitida distinzione tra Chiesa e parti politiche – distinzione che, almeno in punto di teologia e magistero, è patrimonio certo e consolidato – sia perché, in quella stessa sede, il presidente della Cei ha ribadito tale distinzione, sia infine perché mi pare che quella specifica formazione politica, per tacere del suo leader maximo, non brilli per affidabilità ed esemplarità morale. Un tempo, quand’anche si appannava la chiarezza delle distinzioni, quantomeno operava una misura di prudenza, il senso delle opportunità.

In quella lectio magistralis, Bagnasco ha bocciato le «mediazioni» e sottolineato di nuovo la centralità dei «principi non negoziabili», che come tali sono sottratti alla mediazione della politica. Non le sembra che così, da un lato, si diminuisca il ruolo dei laici impegnati in politica e dei cattolici-democratici in particolare, che della laicità e della mediazione hanno fatto sempre le loro bussole, e dall’altro si legittimi ulteriormente il centrodestra apparentemente più incline, perlomeno a parole, ad assecondare le gerarchie su questo fronte?

Il rapporto tra principi etici e mediazione politica è complesso. A mio avviso la mediazione, cosa diversa dal compromesso, è attività immanente all’azione politica. La politica è essenzialmente attività pratica, non è disputa intorno alle essenze. È vero tuttavia che, nel concreto delle mediazioni e delle scelte, si può dare un grado maggiore o minore di coinvolgimento dei principi etici. Non credo però che sia un semplice problema di oggetto, di materia. Come se alcune questioni fossero eticamente dense ed altre no. Troppo facile. Il bello e il difficile della politica e dell’etica specificamente politica è coniugare principi e prassi. In concreto fare i conti con il pluralismo delle concezioni etiche che abitano le nostre società, con la laicità delle istituzioni politiche, con la regola del consenso che presiede alle decisioni collettive nei regimi democratici. Il politico non può ridursi a predicatore che si contenta di proclamare i principi nella loro astratta purezza ma deve, per quanto possibile, insediarli nell’ethos della polis. A destra la si fa facile, si fa il verso alla Chiesa, ci si rapporta ad essa in termini strumentali, la si concepisce quale  instrumentum regni. A sinistra si deve ragionare e discutere con compagni di viaggio che, su certe questioni, la pensano diversamente. Ma mi pare approccio più serio, più onesto e, a consuntivo, più utile alla politica e alla stessa Chiesa, altrimenti tentata di concepire se stessa come potere tra i poteri e di illudersi che la società sia cristiana. Un’illusione fuorviante, che ne allenta la tensione evangelizzatrice.

I cattolici nel processo di unità nazionale

Il ruolo dei cattolici democratici 

(Udine, 27 agosto 2011 – Apertura del Seminario di Agire Politicamente svolto a Sutrio (UD) dal 27 al 31 agosto 2011)

Giorgio Campanini

Sutrio (UD)

27 Agosto 2011

Premessa

Un “luogo comune” a lungo ricorrente - ed ancora oggi presente in non piccola parte della storiografia - è stato quello relativo alla sostanziale estraneità (se non ad una viscerale opposizione) dei “cattolici” al processo unitario italiano. Tesi, questa, viziata da una astratta, ed inesatta, pregiudiziale, quella cioè relativa all’identificazione di fatto operata fra cattolici e papato (o gerarchie ecclesiastiche). Se è fuori discussione l’avversione di Pio IX, del suo entourage, dell’apparato ecclesiastico in generale al modo con il quale si realizzò in Italia l’Unità (sia pure dopo gli ambigui atteggiamenti di Pio IX nel breve periodo che va dalla sua elezione al pontificato alle esplosioni del 1848), non altrettanto può dirsi per i cattolici italiani nel loro complesso: fra essi non mancarono prestigiosi intellettuali, uomini e donne di ogni ceto sociale, ma anche preti e vescovi (spesso in disaccordo con la linea ufficiale della Chiesa e per que­sto, non di rado, colpiti da censure ecclesiastiche) che forte­mente vollero l’unità, parteciparono ai processi che la realizzaro­no, dettero la loro stessa vita per la causa nazionale.

In questa prospettiva l’attenzione, necessariamente, si spo­sta dall’ambito - ricorrentemente e spesso duramente conflittuale - dei rapporti fra Stato (pre-unitario e unitario, con specifico riferimento al Regno di Sardegna e poi al Regno d’Italia) e Chiesa ai rapporti fra nazione e società; è in questa ottica, metodologicamente la più corretta, che le problematiche cui si faceva prima riferimento assumono una connotazione profondamente diversa. È soprattutto su questo aspetto del Risorgimento che ci si soffer­merà in queste essenziali riflessioni.

L’Italia e il “fattore religioso”

La storia d’Europa è profondamente segnata dalla quasi bimillenaria presenza - e presenza egemone - in essa del Cristianesimo.

Non è in questione il problema della “fede” - essa è stata in non poche stagioni debole, incerta, opaca, deviata... - bensì quello del­la religione: la prima implica una forte e personale opzione per una Verità (nel caso specifico quella cristiana) che trascende l’uo­mo; la seconda fa riferimento alla cultura, ai valori etici condi­visi, alla vita quotidiana. Dal primo punto di vista vi è chi ha messo in discussione, del resto con forti argomenti, la definizio­ne dell’Italia come “paese cattolico” (quando mai, ci si potrebbe do­mandare, gli autentici credenti sono stati maggioranza?); ma, dal secondo punto di vista, come negare il profondo radicamento del Cri­stianesimo nella penisola? Evocano il Cristianesimo la maggior par­te dei nomi di persona, le espressioni dell’arte e della musica, il paesaggio e le stesse abitudini alimentari, e soprattutto quello specchio di una civiltà che è rappresentato dal linguaggio, pieno di espressioni, di detti, di concetti che non sarebbero comprensibili se non attraverso il riconoscimento di questa “eredità cristiana” ora segreta ora palese.

Questo profondo legame tra Cristianesimo e cultura ha inciso fortemente sulla vita politica e civile, con ripercussioni particolarmente incisive propria in ordine ai processi di aggregazione (o, al contrario, di smembramento) che hanno caratterizzato la storia europea. Il Belgio non sarebbe nato senza le divisioni fra cattolici e protestanti; la Germania ha conosciuto una sua tardiva unità po­litica (per altro non completa, se si pensa all’Austria e alla Svizzera) a causa delle tensioni fra cattolici e protestanti; ancora oggi la piccola Irlanda è divisa in due parti, a lungo fra loro conflittuali, per una serie di fattori complessi ma aventi alla ba­se una contrapposizione di carattere religioso... E gli esempi po­trebbero continuare.

Nel caso specifico dell’Italia - di una nazione che ha una sor­prendente e per certi aspetti unica omogeneità religiosa, dato che al tempo della realizzazione dell’unità le minoranze religiose era­no percentualmente pressoché inesistenti - il fattore religioso è stato un potente collante che univa fra loro popolazioni alquanto di­verse fra loro, ma unite da una cultura comune, della quale la re­ligione rappresentava un fondamentale collante. Un’ipotetica Ita­lia aderente al Nord al protestantesimo, al centro fedele al papato, al sud tornata all’antica comunione con le Chiese dell’oriente e dunque con l’ortodossia avrebbe molto più difficilmente e faticosa­mente la propria unità: le divisioni religiose avrebbero esercita­to un peso assai maggiore di quelle politiche e culturali. Non a ca­so, del resto, Alessandro Manzoni faceva riferimento ad un’Italia una anche di “altare”: un conflittuale pluralismo religioso avreb­be rappresentato un forte ostacolo anche all’unità politica.

 Considerazioni analoghe possono farsi anche per un’etica co­mune che risentiva direttamente essa stessa dell’influenza del cat­tolicesimo. L’Italia unita non mise mai in discussione il rispetto della vita, il valore della solidarietà, l’attenzione ai poveri e si guardò bene dal contestare l’indissolubilità del matrimonio e la fedeltà coniugale (è per uno strano gioco della storia che il divorzio fu introdotto in Italia non dalla laicista ed anticlericale classe po­litica liberale ma al tempo del governo di un “partito cattolico” ...).
II tema meriterebbe ben altri sviluppi. Riteniamo tuttavia si possa dare acquisito il punto di partenza di queste notazioni, e cioè che il fattore religioso – che, di fatto, nella tradizione italiana, si identifica con il cattolicesimo - ha svolto un ruolo essenziale nel processo unitario.
 

Gli intellettuali, il clero, il popolo

Se si dà per acquisito il rifiuto dell’identificazione tra cattolicesimo e gerarchie ecclesiastiche (e, specificamente, papato) appare con tutta evidenza il contributo dato al processo unitario dai cattolici italiani.

Particolarmente rilevante l’apporto degli intellettuali e de­gli uomini di cultura, da Manzoni a Pellico, da Rosmini a Gioberti. Sebbene essi non abbiano approvato alcuni aspetti del processo unita­rio, determinante è stato il loro apporto alla presa di coscienza nazionale, senza che vi fosse in loro alcuna incertezza sulla com­patibilità fra la loro appartenenza alla Chiese e le loro convinzio­ni politiche. Ma non mancarono i preti patrioti e conciliatoristi, né i vescovi che - anche dopo le scomuniche di Pio IX - seguirono la prassi di un riservato lealismo, esprimendo a varie riprese la loro lealtà alla monarchia ed esortando al rispetto delle leggi del nuovo Stato, anche quando esso colpiva pesantemente i beni della Chiesa e delle istituzioni religiose.

 

Occorre tuttavia riconoscere che, in questo ambito, si manife­starono profonde differenze fra il cattolicesimo del nord, apparso subito più disponibile ali’accettazione del fatto compiuto e alla soppressione dello Stato della Chiesa, e quello del sud, da una par­te ancora devoto all’antica monarchia, dall’altra più attaccato ai simboli esteriori della religione cattolica: soppressioni, spoglia­zioni, vere e proprie usurpazioni che i cattolici del Nord (del re­sto più vicini all’Europa) subirono con disagio e con rammarico, ma senza farsene un dramma, vennero invece avvertite al sud come intol­lerabili persecuzioni: è alla luce di questa diversa sensibilità che si spiegano le dure resistenze opposte dal Sud al nuovo ordine sociale, con fenomeni come le “insorgenze”, sulle quali è a lungo ca­lato il silenzio della storiografia ufficiale e che rappresentano una pagina oscura ed opaca della storia nazionale, sulla quale solo di recente si è fatta luce, anche se talvolta con qualche eccesso polemico.

 

Anche al Sud, tuttavia, non mancarono i vescovi ed i religiosi “conciliatoristi”, che guardavano con favore al superamento dell’ancien régime e scorgevano nella raggiunta unità la premessa indispensabile per la fuoriuscita del Sud dal suo endemico sottosviluppo.

 

Si manifestò tuttavia - in questo caso al Nord come al Sud - un forte disagio delle classi popolari nellaccettare il nuovo ordine sociale. Da una parte questi ceti erano fortemente legati all’istitu­zione ecclesiastica e specificamente al papato e non comprendevano le ragioni della sua spogliazione, alla quale temevano avrebbe fatto seguito un vero e proprio tentativo di rimuovere dal nuovo ordine sociale il fatto religioso (obiettivo che, in verità, fu esplicita­mente presente nella componente più duramente anticlericale della classe politica risorgimentale). Mancò, nella cultura cattolica di allora, la capacità di un’educazione realmente popolare, la quale implicasse anche la capacità di operare una distinzione fra strutture ecclesiastiche e vita religiosa: quando questa distinzio­ne fu operata (come nel caso del progetto educativo di don Bosco) il conflitto fra classe dirigente risorgimentale e coscienza popo­lare si rivelò meno violento e traumatico. Vi è d’altra parte da domandarsi se gli indubbi eccessi della legislazione risorgimentale - già anticipata, per altro, nello stesso Regno di Sardegna, dai provvedimenti eversivi di Rattazzi e di Siccardi - non abbiano contribuito per loro parte ad approfondire il solco fra quello che potrebbe essere definito il “cattolicesimo di base”, o popolare, e il nuovo Stato unitario. Ciò che gli intellettuali più lucidi perce­pivano come un inevitabile (seppur almeno in parte negativo) tributo da versare, anche da parte della Chiesa, alla modernizzazione del Paese, veniva invece avvertito come un inaccettabile sopruso da mas­se popolari che spesso vedevano nel clero e soprattutto nei religio­si, nonché nelle loro istituzioni benefiche ed assistenziali, il loro quasi unico sostegno, in assenza di uno “Stato sociale” che avrebbe cominciato a configurarsi soltanto un secolo più tardi.

 

Un duplice limite

 

II lungo ed aspro conflitto - al vertice fra Stato e papato, alla base fra classe politica liberale e cittadini cattolici - rivelava un duplice limite, che solo lentamente e progressivamente poté essere superato nei fatti ma che avrebbe avuto la sua definitiva rimozione soltanto nel 1929, dopo che una serie di antecedenti tentativi di soluzione di una questione ormai non più lacerante per la coscienza nazionale (anche dei cattolici) andarono incontro al fallimento, per i veti incrociati degli oltranzisti dell’una e dell’altra sponda del Tevere.

 

Vi fu, innanzitutto, il limite della Chiesa. Prevaleva ancora un’immagine di Chiesa non come “popolo di Dio” in cammino nella storia (come sarebbe stato messo in luce fra il 1962 e il 1965 dal Concilio Vaticano II), geloso della libertà religiosa ma nello stesso tempo attento al riconoscimento della legittima laicità dello Stato, bensì come “società perfetta”, di continuo minacciata dallo Stato laico e dunque bisognosa di un insieme di garanzie che avrebbero potuto essere offerte soltanto da una sua autonoma realtà territoriale, prevaleva, ancora, l’immagine dello “Stato cattolico”, con la conseguente sopravvalutazione della legislazione - e di una legislazione in tutto aderente ai principî dell’etica evangelica - ed una parallela sottovalutazione del ruo­lo formativo delle coscienze, in mancanza del quale il materiale ossequio reso alla legge sarebbe stato privo di significato. Persisteva ancora, infine, la convinzione che la religione, e spe­cificamente il cattolicesimo, avesse diritto al sostegno e alla protezione del potere politico, senza nello stesso tempo valutare adeguatamente i rischi che sarebbero derivati alla Chiesa da non disinteressati favori: soltanto più tardi, ad Ottocento ormai av­viato alla sua conclusione, si comprese quali spazi di libertà la Chiesa aveva acquisito dopo il processo di laicizzazione, allor­ché - finalmente, si ebbe a sottolineare da parte dei credenti più attenti e sensibili - finirono le interferenze del potere politico sulla nomina dei vescovi, sulla gestione dei seminari, sulle designa­zioni dei parroci, e così via: con le conseguenti pesanti interferenze della sfera politica in quella religiosa che avevano formato oggetto, già nel 1848, della dura condanna di Antonio Rosmini nelle vigorose pagine Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Pagine, queste, che avevano un drammatico e puntuale riscontro, dall’altra parte, negli evidenti limiti dello Stato; di uno Stato, quello unitario, che pretendeva di le­giferare in ambito religioso, si intrometteva negli affari ecclesia­stici, riteneva di poter stabilire quali ordini e congregazioni religiose potessero essere mantenuti in vita, perché “utili” alla società e quali invece dovessero essere soppressi perché, al contra­rio, “inutili”. Che si chiudessero con la forza i monasteri di clau­sura - perché la loro notturna preghiera non serviva a nessuno... - o si riducessero forzosamente allo stato laicale i membri di ordini religiosi, come i Gesuiti, ritenuti “pericolosi” per lo Stato: tut­to ciò appare oggi, alla stessa più matura coscienza laica, come un’inammissibile interferenza nella coscienza religiosa; non così, tuttavia, operò la classe risorgimentale. Anche al suo interno (come nella parte contrapposta) vi furono gli oltranzisti, coloro cioè che dalla contestazione del potere temporale passavano senza transi­zioni all’aggressione frontale al cattolicesimo, considerato come una sorta di palla di piombo sulla via del progresso e come un osta­colo alla modernizzazione, da superare, dunque, ad ogni costo.

Ben si comprende - alla luce di questo duplice limite - come il cammino in direzione della riconciliazione fra Stato e Chiesa - e soprattutto fra cattolici e Stato unitario - sia stato lungo, tormentato, complesso.

Un’utile memoria

II disincantato secolo XXI - che ha alle sue spalle un Novecento che è stato drammaticamente segnato, per un suo lungo tratto, dal tarlo roditore del totalitarismo -non ha più fede nell’antico ada­gio sulla storia magistra vitae, perché la storia non “insegna” proprio niente, a nessuno: puntualmente gli errori si ripetono, le guerre si rinnovano, i contrasti sociali si riaffacciano. E tut­tavia quella della storia è pur sempre una “lezione” che vale la pena di meditare, per cercare, in quanto possibile, di non ripetere gli errori del passato.

In questa prospettiva quello che fu forse il problema più acuto del Risorgimento - e cioè la lacerazione fra coscienza civile e coscienza religiosa - appare un evento esemplare di ciò da cui tanto la coscienza civile quanto quella religiosa devono rifuggire: per la coscienza civile il mancato riconoscimento del ruolo che il fattore religioso può svolgere per la umanizzazione della socie­tà, partendo dal presupposto, ormai acquisito dai più maturi Stati moderni, che la società civile ha bisogno di un quadro di valori ai quali fare riferimento e che danno alla Costituzione ed alle leggi quel fondamento che esse da sole non possono garantire; per la coscienza religiosa l’inadeguata consapevolezza della distinzione di ambiti fra Chiesa e Stato (pur limpidamente affermata dagli Evangeli già duemila anni or sono), con la conseguente tenta­zione di invadere, in nome di Dio, il campo di Cesare, magari nel­l’ingenua illusione che la causa della religione abbia tutto da guadagnare - e non, invece, tutto da perdere - dalle non disinte­ressate blandizie di chi gestisce il potere.

Le due libertà - quella della Chiesa e quella dello Stato - non sono dunque contrapposte, ma complementari: in questo senso, come affermava Rosmini in un passo delle Cinque piaghe, “la li­bertà della Chiesa è il vero aroma che impedisce agli Stati di corrompersi”, così come le “libertà civili” sono l’entroterra di cui la stessa coscienza religiosa ha bisogno per non ridursi a instrumentum regni.

Questo principio è stato a lungo disatteso: prima degli accordi del 1929 per il persistente conflitto fra Stato e Chiesa; dopo il 1929 per il carattere autoritario e, pro­gressivamente, sempre più marcatamente totalitario del fascismo. Soltanto dopo la Liberazione il principio della libertà religiosa divenne definitivamente acquisito.

Ciò non significa, tuttavia, che negli anni che vanno dal 1861 al 1948 la presenza dei cattolici in Italia sia stata marginale. Nonostante i limiti posti all’azione dei cattolici - e malgrado la stessa auto-esclusione da loro stessi teorizzata con il non expedit, i cattolici hanno continuato ad operare in profon­dità nella società civile. Le ricerche sul Movimento cattolico, ad esempio, hanno messo in evidenza quanto importante sia stata, soprattutto al centro-nord (ma non va dimenticata l’esperienza della Sicilia di Luigi Sturzo) l’azione dei cattolici in campo amministrativo: là dove spesso cadevano le preclusioni dei vertici ufficiali ed emergeva il profondo radicamento dei valori cattolici in popolazioni appena lambite dallo spiccato laicismo delle clas­si dirigenti.

Si può dunque affermare che, mentre dall’alto i cattolici sono stati sostanzialmente estranei alla vita dell’Italia unita, dal basso hanno operato per rafforzare un processo unitario nato con un’impostazione decisamente verticistica e solo a poco a poco diventato autenticamente “popolare”.

Se si considera nel suo complesso la vita dello Stato uni­tario nei decenni successivi all’unificazione, si deve constata­re che - estraniati al “centro” - i cattolici erano vivacemente operanti nel Paese: vi era una presenza cattolica vitale, di­namica, operosa nelle aule dei consigli comunali, nelle istitu­zioni benefiche ed assistenziali, nei sindacati e nelle cooperative. Essere fuori del Parlamento, dunque, non significava in alcun modo essere fuori dalla società. Fu nei municipî e, in generale, a livello locale che entrò di fatto in politica - sia pure nella peculiare forma dell’azione amministrativa - una nuova potenziale classe dirigente. I casi di Luigi Sturzo in Sicilia o di Luigi Meda in Lombardia sono sotto questo aspetto emblematici: in molte realtà locali i cattolici svolsero ruoli importanti, soprattutto allorché più forte diventò la forza rappresentativa delle varie espressioni del socialismo, ciò che spinse da un lato la classe dirigente liberale a cercare il sostegno dei cattolici come “uomini d’ordine” e dall’altro i cattolici a supe­rare progressivamente a livello locale il non expedit, proprio in vista della difesa di quei valori che sembravano minacciati dagli emergenti movimenti di sinistra.

Le ricerche condotte a più riprese sul piano locale dagli studiosi del Movimento cattolico hanno ormai corretto, e per certi aspetti rovesciato, l’immagine a lungo persistente della “esclusione”: il panorama delle realtà locali era ben diverso da quello degli organismi centrali dello Stato post-risorgimentale.

Forte e persistente fu, in gran parte d’Italia, l’apporto dei cattolici alle problematiche amministrative. Là dove essi conquistarono il potere locale furono spesso abili amministratori e co­raggiosi innovatori, operando con una forte sensibilità sociale che correggeva la spesso ingenua fede del vecchio liberalismo negli automatismi di mercato. Anche per le sollecitazioni provenienti dal magistero sociale della Chiesa universale, soprattutto dopo la “Rerum Novarum” di Leone XIII (1891, i cattolici furono antesignani di una coraggiosa politica sociale che li poneva in concor­renza - senza tuttavia escludere forme di intesa e di collabora­zione - con quanti, da diversa sponda, e cioè i socialisti, si fa­cevano essi pure interpreti delle istanze di masse popolari che lo Stato liberale aveva di fatto escluso dal potere e aveva tenuto in condizioni di permanente emarginazione.

In conclusione su questo punto, leggere la storia d’Italia assumendo non più l’ottica romana - quella di un Tevere che separava le “due Rome” - ma quella del “paese reale”, implica necessariamente la revisione del luogo comune dell’“estraneità” dei cattolici alla vita dell’Italia unita.

Il risveglio religioso dell’Ottocento

In una diversa prospettiva - ma senza sottovalutare l’incidenza di lungo periodo di questo fenomeno sulla stessa società civile - va segnalato il “risveglio religioso”, per certi aspetti sorprenden­te che accompagnò e seguì il processo unitario. Le serie di interven­ti avversi alle congregazioni e istituzioni religiose (le leggi Siccardi del 1850 e Rattazzi del 1855, progressivamente estese a tutto il territorio nazionale) tagliò in effetti una serie di “rami secchi” ed operò un sia pure impietoso “svecchiamento” delle congre­gazioni religiose. Al di là della miopia e talora della rozzezza di questi interventi di politica ecclesiastica (dall’incameramento dei beni delle istituzioni religiose alla soppressione delle facoltà di teologia), questa azione che a buon diritto può essere definita per­secutoria rappresentò, paradossalmente, l’occasione per la nascita, quasi a macchia d’olio, di nuove congregazioni religiose, maschili e soprattutto femminili, che incisero in profondità sulla vita della società italiana. Per la prima volta nella sua storia l’Italia vide una presenza religiosa femminile che sino ad allora era stata confinata nei monasteri e nei collegi e che ristabiliva il perduto contat­to fra vita quotidiana e vocazione religiosa. Una Chiesa troppo spesso legata, soprattutto in alcune sue istituzioni, alle classi agiate diventava autenticamente “popolare”. Proprio nell’Ottocento laicista ed anticlericale fiorivano nuove vocazioni al servizio agli ultimi e ai poveri come mai, dopo la stagione medievale, si era visto nella storia d’Italia: di questo nuovo volto della Chiesa - purificato di non poche sue incrostazioni “borghesi”- furono espressione le numerosissime organizzazioni religiose, maschili e femminili, che fiorirono in tutta Italia, dai Salesiani di don Bosco in Piemonte ai Rogazionisti di Annibale di Francia a Messina, dalle Missionarie del S. Cuore di Francesca Cabrini alle piccole congregazioni religiose sparse in tutto il Paese e che si posero a servizio delle classi popolari: uomini e donne che affrontarono con coraggio e lungimiranza i problemi lasciati aperti dalle carenze dello Stato liberale, oltre che dall’oggettiva arretratezza dell’economia e della società italiana. Fiorirono così le iniziative per l’accoglienza dei malformati o per l’istituzione di scuole professionali per i figli, un tempo analfabeti, degli operai e dei contadini, così come per l’assistenza agli emigrati e alle loro famiglie (milioni di persone coinvolte in quella sorta di vero e pro­prio esodo di massa che caratterizzò l’Italia della fine degl’Ottocento e del primo Novecento).

Senza esplicitamente volerlo, e senza saperlo, questi nuovi ordini e congregazioni religiose, maschili e femminili - della cui importanza i fitti studi sul Movimento cattolico hanno fornito ampia documentazione - davano così il loro contributo alla costruzione di una effettiva unità d’Italia, questa volta dell’“Italia reale”, quella delle classi emarginate del Nord e del Sud. Sotto questo aspetto, le varie congregazioni religiose si avvantaggiarono della raggiunta unità perché poterono operare, senza barriere, a livello nazionale, favorendo gli scambi religiosi - ed inevitabilmente anche culturali - fra Nord e Sud, regioni rimaste un tempo abissalmente lontane: per questa via la Chiesa italiana maturava progressivamente la propria identità.

Occorre del resto riconoscere che un’Italia formalmente lai­ca, e spesso suggestionata da un virulento anticlericalismo, non ostacolò, ma anzi in qualche caso appoggiò - come avvenne con i Salesiani grazie al loro stretto rapporto con la monarchia sabauda - questo fervore di iniziative e di opere. Se il malessere sociale presente in vaste zone del Paese non sboccò in tumultuosi eventi rivoluzionari lo si deve in gran parte a questa attiva presenza del­le organizzazioni cattoliche nella realtà sociale, tale da correg­gere almeno in parte le carenze dello Stato liberale.

Si può dunque affermare che - dopo due secoli sotto molti aspet­ti “oscuri”, anche sul piano religioso, il Seicento dominato da una spagnolesca religiosità di facciata e un Settecento fortemente influenzato da un illuminismo razionalistico - l’Otto­cento fu per l’Italia, dapprima col movimento romantico e poi con un forte risveglio religioso, il secolo della vigorosa ripresa di un Cristianesimo che nella penisola aveva profonde radici.

A motivazione di questo giudizio basterà ricordare alcuni fatti estremamente significativi.

In primo luogo l’unificazione nazionale pose fine alle inammissibili (ma spesso subìte) interferenze dei vari Stati preunitari nella nomina dei vescovi, nell’organizzazione delle diocesi, nella vita interna delle organizzazioni religiose. Accanto allo Stato italiano nacque la Chiesa italiana, e si crearono le premesse per un profondo rinnovamento in tutti i campi, a partire dalla formazione del clero: con la nuova organizzazione dei seminari, si può affermare che di fatto si realizzò, solo allora, l’insieme delle indica­zioni del Concilio di Trento in questo ambito.

In secondo luogo, l’ostracismo decretato nei confronti delle congregazioni religiose tradizionali aprì indirettamente il varco al fiorire di nuove congregazioni religiose, maschili e soprattutto femminili, che poterono beneficiare della libera circolazione nel paese favorita dalla raggiunta unità.

Infine - per limitarsi ai fatti più rilevanti - la fine del temporalismo, con le sue inevitabili compromissioni ed ambiguità, rese la Chiesa più umile, più povera, più evangelica, più decisamente posta a servizio della sua missione evangelizzatrice, favo­rendo il fiorire di nuove forme di pietà ed insieme di appassionato servizio agli ultimi, ai poveri, agli esclusi (tali rimasti, a lungo, anche dopo la raggiunta Unità).

Quello che, nell’ottica della breve durata, poteva apparire uno scacco si rivelò, alla fine, un’inattesa risorsa.

La “terza fase”

Se il Concordato del 1929 sembrò a prima vista porre fine all’emarginazione politica dei cattolici, in realtà già era cominciata a profilarsi dopo il 1922 - con la dura lotta condotta contro il Partito popolare di Sturzo e poi con la soppressione di questo, come di tutti gli altri partiti ad opera del fascismo - una nuova fase di conflittualità fra Chiesa e Stato. Per certi aspetti, un poco paradossalmente, i conflitti fra Stato e Chiesa furono, dopo il Concordato, più duri e più radicali di quelli verificatisi nei decenni successivi alla raggiunta Unità. Allora, all’indomani di Roma capitale, sembrarono centrali questioni come la “territoria­lità” della S. Sede o lo statuto dei beni ecclesiastici; ma dopo il 1929 quelle antiche dispute apparvero quasi “scaramucce di retro­guardia” rispetto ai durissimi conflitti che si aprirono nel decen­nio successivo al Concordato: l’aspra contesa per l’educazione della gioventù (la crisi intervenuta nel 1931 e continuata anche negli anni successivi, in ordine al problema dell’educazione della gioventù, che il fascismo pretendeva di monopolizzare); l’esalta­zione della guerra e della violenza in antitesi con il messaggio evangelico; la legislazione razziale, che non solo violava il principio dell’eguaglianza dei cittadini, ma si poneva al servizio di una vera e propria “ideologia della razza” e di una “idolatria del san­gue” antitetici ai valori evangelici.

Si può dunque affermare, in questa prospettiva, che la fine dell’antica conflittualità fra Stato e Chiesa si è realizzata, nel nostro Paese, soltanto il 1° gennaio 1948 con la entrata in vigore di quella Costituzione repubblicana, che recepiva in parte il Con­cordato e nello stesso tempo indicava le vie per il graduale supera­mento delle norme in esso contenute contrastanti con la nuova concezione della persona fatta propria dai Costituenti con il determinan­te apporto dei cattolici. La pietra tombale su quel lungo e doloroso conflitto fu dunque quel famoso art. 7: “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modifica­zioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedi­mento di revisione costituzionale”. Iniziava e proseguiva sino ai nostri giorni - dopo gli Accordi di revisione stipulati nel 1984 - quella convergenza che ha garantito al paese una sostanzia­le “pace religiosa”, mai messa in discussione né dalle asprezze polemiche dei residui anticlericali né dalle velleitarie aspira­zioni ad uno “Stato cattolico” degli ultimi eredi della destra conservatrice.

Quale sia stato l’apporto dei cattolici all’Italia repub­blicana è ormai messo ampiamente in evidenza dalla storiografia, di qualunque tendenza; né viene ormai messa in discussione l’altissima statura morale dei grandi leader di estrazione catto­lica, da Alcide De Gasperi ad Aldo Moro. Che il periodo della co­siddetta “egemonia dei cattolici” sia stato quello della grande modernizzazione del Paese, del superamento dei nazionalismi con l’avvio del processo di costruzione dell’Europa unita, della cre­scita economica e culturale del Paese non è in pratica messo in discussione da alcuno. Le stesse critiche che vengono ora rivolte - con un’asprezza che talora dimentica il particolare contesto di quegli anni - alla fase conclusiva della parabola del partito della Democrazia Cristiana risultano ora ridimensionate dalla constatazione che il “dopo” - la fase che si è aperta con l’avven­to al potere di Berlusconi - non è risultato poi più felice del “prima”: segno, questo, che la crisi del Paese era più profon­da di quanto avessero ritenuto, alquanto superficialmente, di addebitare alla sola Democrazia Cristiana e ai suoi uomini le ragioni delle difficoltà del Paese. Spazzata via quella classe dirigente e conclusa la parabola del­la Democrazia Cristiana, i problemi sono rimasti e sotto molti aspetti, anzi, si sono aggravati.

Analizzare i rapporti fra il Paese e i cattolici nel sessantennio che va dal 1948 ai nostri giorni è in questa sede impossibile. Siano tuttavia consentite alcune osservazioni estremamente sintetiche, ed in particolare due notazioni.

La prima osservazione riguarda il deciso spostamento che nel corso di questi decenni si è verificato nel rapporto fra Nazione Italia e cattolicesimo. In una abbastanza lunga fase, pur permanendo (soprattutto negli anni di Pio XII) un’autorevole e carismatica presenza del pontificato, i laici cattolici impegnati in po­litica hanno saputo guadagnare e mantenere uno spazio di sostanzia­le autonomia, venendo solo in parte condizionati dall’apparato ecclesiastico. In una seconda fase - quella sostanzialmente apertasi con la crisi della D.C. - al protagonismo laicale è succeduto un protagonismo episcopale, per certi aspetti necessariamente imposto dal corso degli avvenimenti ma per altri aspetti collegato ad una nuova coscienza di sé della Conferenza Episcopale Italiana, assurta al ruolo di potenziale guida morale del Paese. Si è, in altre parole, determinato un vuoto (laicale) che è stato inevitabilmente colmato da un soggetto diverso (episcopale). Sembra opportuno, ora, realizzare un diverso equilibrio, ciò che impone la crescita e la maturazione di un laicato adulto, capace di camminare con le proprie gambe (e impone, parallelamente, la fine del malvezzo laicistico - non è facile comprendere se voluto o inconsapevole - di identifi­care sistematicamente e semplicisticamente Chiesa e gerarchie ecclesiastiche, dimenticando del tutto la lezione del Vaticano II). La seconda notazione fa riferimento ad una necessaria nuova capacità progettuale dei cattolici italiani. Essa non mancò negli anni della crisi del fascismo - nella stagione che va dal “Codice di Camaldoli” del 1943 alla vivace stagione della Assemblea Costituente – ma sembra essere ora parzialmente venuta meno: con il rischio che i cattolici siano semplicemente i parziali e spesso maldestri correttori degli eccessi mercantilistici e liberistici della destra, o delle frenesie individualistiche e libertarie di questa sinistra: e dunque, da una parte e dall’altra, con la funzione di “pompieri”: quando invece i credenti non dovrebbero mai dimenticare l’accusa loro mossa alle origini della predicazione evangelica, quella cioè di essere dei sovvertitori dell’ordine stabilito, e cioè, appunto, degli “incendiari”. Gli incendiari - notava amaramente Mounier negli anni tragici della seconda guerra mondiale – erano ormai divenuti pompieri; e venti anni dopo Nicola Pistelli constatava che di quei lontani incendi restava nelle comunità cristiane solo uno stantìo odore di incenso ...

Hanno i cristiani ancora qualche cosa da dire a questa Italia che ha appena passato il giro di boa dei suoi 150 anni? Come e dove sapranno dirlo?

Si pone, a questo proposito - in qualche modo inevitabilmente - il problema del ruolo dei cattolici democratici, conti­nuatori di una tradizione ed eredi di una cultura che viene da lontano. In quale misura questa cultura, questa visione della politica, può essere riproposta ancora oggi? Rispondere a questa domanda sarà il momento conclusivo di questa relazione.

Minoritari, ma “vincenti”

Riflettere sul cattolicesimo democratico in un’ampia prospettiva storica - quale è appunto quella che fa riferimento al 150° dell’unita – significa partire da una semplice, ma non sempre ovvia, constatazione, e cioè che gli apparentemente perdenti sono risaltati alla fine vincenti. Con la riserva di dedicare più oltre uno speci­fico spazio al periodo successivo al 1945, che ha una storia tut­ta particolare, meritano di essere sottolineati tre momenti specifi­ci di questo “scacco” e poi di questo “successo”.

Il primo “scacco” fu quello del cattolicesimo liberale, impersonificato dalle grandi figure di Rosmini e di Manzoni (ma anche, per certi aspetti, di Ventura e di Gioberti). Fra il 1848 e il 1870 si consumò la fine del progetto di possibile conciliazione fra la Chiesa e il nascente stato unitario. La testarda opposizione del­la Chiesa di allora ad ogni ipotesi di rinunzia, o meglio di trasfor­mazione, della sovranità temporale determinò emarginazioni, censure, talora scomuniche. Si dovette poi constatare - come fece G. B. Montini in un memorabile discorso in Campidoglio - che quella che venne allora considerata (ma non dai cattolici liberali, o conciliatoristi) una iattura si era in realtà rivelata una fortuna,un’occasio­ne per la Chiesa di un profondo rinnovamento e di un felice ritorno alla sua vocazione originaria.

Il secondo “scacco” fu quello di uomini, come Geremia Bonomelli prima e Luigi Sturzo poi, che negli anni conclusivi dell’Ottocento ritennero maturi i tempi per il pieno reinserimento dei cattolici nella vita del Palese, “scavalcando” in qualche modo l’irrisolta “questione romana” e confidando che il trascorrere del tempo avreb­be consentito, alla fine, quel ralliement che quasi negli stessi anni - sia pure in un diverso contesto – si andava realizzando in Francia. Come noto, Bonomelli fu costretto ad un’umiliante ritrattazione nella Cattedrale della sua Cremona e Sturzo dovette tenere a lungo nel cassetto quel progetto di Partito popolare già definito nelle grandi linee nel “discorso di Caltagirone” del 1905.

Svanì - o meglio, fu accantonato - il sogno di una riconciliazione fra cattolicesimo e democrazia.

Venne poi il terzo “scacco” - forse il più drammatico, per le conseguenze di lungo periodo che ne derivarono e per il peso che esso ha avuto sulla storia d’Italia - quello subito dai cattolici democratici nel 1929 con la firma dei Patti Lateranensi e non già sotto il profilo della soluzione data alla questione romana - che tanto De Gasperi quanto Sturzo, esuli rispettivamente in Vaticano e a Londra, sostanzialmente approvarono - quanto per l’avallo che, almeno implicitamente, con il Concordato, veniva dato al regime fascista. Fu quella la stagione dell’illusione di potere “cri­stianizzare” il fascismo con una macroscopica sottovalu­tazione del suo carattere totalitario e alla fine radicalmente anticristiano. Gioirono, allora, i cattolici conservatori, soffrirono i cattolici democratici, come una serie di documenti pubblicati soltanto molti anni dopo sta ad attestare. Ma le leggi  razziali, l’alleanza con il nazismo, l’irresponsabile ingresso in una guerra non voluta dal popolo italiano mostraro­no ben presto i limiti degli accordi del 1929. Ancora una volta la storia dette ragione a quella minoranza di cattolici - in primis i già ricordati De Gasperi e Sturzo - che ritenevano salvaguardata la libertà della Chiesa soltanto all’interno di un generale quadro di libertà e di democrazia.

Venne poi, a partire dal 1943, la stagione del “ritorno”, o meglio della riemergenza, del cattolicesimo democratico, che nel­la sua migliore stagione, da De Gasperi a Moro, mostrò le sue migliori capacità riformatrici e conferì un nuovo e più moder­no - ma soprattutto più libero - volto all’Italia, resistendo alle reiterate pressioni di un mai domo cattolicesimo conservato­re, incline a fronteggiare l’alternativa comunista con le leggi speciali piuttosto che con le armi della democrazia. Questa volta, solo questa volta, fu il cattolicesimo democratico, non senza fatica e non senza resistenze, a definire il ruolo storico dei cattolici in Italia.

Se si considerano nel loro complesso questi 150 anni, la stagione del secondo dopoguerra fu una sorta di unicum: a poco a poco il cattolicesimo conservatore ha ripreso gli spazi che gli erano stati sottratti, sino a dare luogo alla degenerazione e poi alla fine della Democrazia Cristiana e al paesaggio di gran parte della classe politica e dell’elettorato di ispirazio­ne cattolica ad un blocco conservatore che - sia pure a di­stanza di un secolo con il determinante apporto di mezzi di comunicazione di massa usati con assoluta spregiudi­catezza - ha ereditato tutti i vizi e nessuna delle virtù del cattolicesimo moderato di fine Ottocento. Ancora una volta, dun­que, uno scacco: ma uno scacco definitivo?

Si è verificata nel frattempo un’importante e decisiva “va­riante”: quella rappresentata dal nuovo volto della Chiesa, con il passaggio dalla “Chiesa dell’intransigenza” (quella del Silla­bo) ad una “Chiesa del dialogo”, quella del Vaticano II. Né è elemento marginale il fatto che i cattolici di ieri, assumendo posizioni conservatrici, potessero tranquillamente appellarsi al magistero di allora; mentre i cattolici di oggi si trovano di fronte ad un magistero sociale incentrato sui valori della pace, della giustizia, dell’eguaglianza, della lotta alla povertà e all’emarginazione, della solidarietà fra i popoli, dell’accoglienza umana degli emigranti, e così via. È finito il tempo delle scomu­niche: gli “eretici” di ieri sono diventati gli “ortodossi” di oggi. Senza conferire ad alcuno patenti di eresia - perché il Concilio Vaticano ha imposto uno stile ben diverso da quello del passato - non si può non riconoscere che la fedeltà al messaggio del Vaticano II appare incompatibile con il sostegno offerto ad una visione edonistica, consumistica, antisolidaristi­ca della vita quale è sfacciatamente proposta - purtroppo grazie anche al voto di non pochi cattolici - da coloro che negli ulti­mi venti anni hanno in prevalenza detenuto il potere.

In questo senso il ritorno allo spirito del Concilio - e forse soltanto ad esso - può garantire ad un tempo il rinnovamento della Chiesa e il rinnovamento della politica. A differenza del cattolicesimo conservatore - nonostante i sostegni che esso continua ad avere anche in taluni ambienti ecclesiastici - il cattolicesimo democratico, quando prende in mano i testi del Concilio, si ritrova a casa sua.

Il grande problema - e la grande sofferenza di questi anni di gri­giore e di sconcerto - è quello di trasformare i grandi ideali conciliari di giustizia e di solidarietà in un concreto progetto politico. È e sarà questa, ormai a cinquant’anni dalla conclusio­ne dell’evento conciliare, la grande fatica del cattolicesimo democratico italiano, chiamato a rilegittimare, soprattutto agli occhi delle nuove generazioni, una presenza che troppo a lungo è stata offuscata ed emarginata. Occorre, per questo, essere uomini e donne aperti alla speranza, capaci di imprimere una svolta al corso della storia italiana: nella consapevolezza che, anche al di là delle specifiche appartenenze religiose, i grandi valori ai qua­li il cattolicesimo democratico si richiama sono largamente condivisi dalle nuove generazioni (anche se talora guardati con diffiden­za in certe sagrestie ...). È dunque venuto il tempo di aprire una nuova fase nella storia del cattolicesimo democratico.

Tuttavia essere stati storicamente “vincenti”, sotto molti aspetti, non precostituisce, in alcun modo, per i cattolici democra­tici, alcuna “primogenitura”. Come ieri, anche oggi quanti si richiamano alla tradizione del cattolicesimo democratico devono, per così dire, conquistarsi i galloni sul campo: dimostrare, cioè, di avere una più acuta visione della società, una più forte capacità progettuale, l’effettiva capacità di tradurre in prassi politica i valori nei quali ci riconoscono. Sarà questo, in futuro, il ban­co di prova di quanti, da credenti, rifiutano di integrarsi in un blocco conservatore apparententemente a-ideologico ma in realtà porta­tore di una concezione della vita basata sull’assoluto primato dell’economico. Cosi l’economicismo marxista - per fortuna storicamente corretto da altre, anche se incoerenti, idealità - ha lasciato il posto ad un ecomicismo assai più insidioso, quello che si fonda sull’idolatria del mercato.

Riaffermare il primato delle persone sulle cose, del­l’uomo vivente sull’uomo produttore/consumatore è il grande com­pito storico di un cattolicesimo democratico che non accetti la comoda omologazione agli stili di vita dominanti. Ma è un compi­to che può essere assolto solo a condizione di rendere in quanto possibile “popolare” - e cioè comprensibile ed appetibile da par­te degli uomini e delle donne comuni, e soprattutto dalle nuove generazioni - il messaggio umanistico di cui è ancora portatore. Si tratta, dunque, di elaborare una nuova progettualità e di riu­scire a renderla un sentire vasto e diffuso.

Conclusione

Sia consentito - a conclusione di una riflessione che ha voluto essere fondamentalmente “laica” - un richiamo essenzial­mente religioso, ispirato ad una pagina di un uomo, Giuseppe Dossetti, che forse più di ogni altro, nella sua stessa biografia, ha vissuto, e superato, l’apparente antinomia fra l’azione, e specificamente l’azione politica, e la contemplazione, grazie ad una vita monastica mai separata dalla vita della città. In un memorabile discorso del 1987, Eucaristia e città, Dossetti mostrava lucidamente questa connessione. L’amore per il prossimo, il servizio agli ultimi, la passione per la città – notava - sono costitutivamente connessi con l’Eucaristia, come “amore ... traboccante verso ogni fratello e verso ogni uomo” (p. 120). Quella dell’Eucaristia, notava ancora il politico divenuto monaco, è “una politicità sui generis, che non governa e non ha potere” ma è “amore oblativo indipendente da ogni condizione esterna mutevole”. Prendere sul serio l’Eucaristia è prendere sul serio anche la politica.

Che troppi cristiani abbiano dimenticato que­sta lezione è causa non ultima del diffuso disimpegno dalla poli­tica, di questa sorta di nuovo non expedit che priva il Paese di una diffusa e responsabile presenza dei cristiani nella società. Ma l’Italia di oggi, come quella di ieri, ha ancora bisogno dei cattolici, e di cattolici autenticamente democratici.


Vedi dossier: Agire Politicamente: i seminari

Il sogno popolare di Mino Martinazzoli

Giovanni Bianchi

Milano, Settembre 2011

La vicenda politica di Mino Martinazzoli iniziò sotto il magistero di Aldo Moro, e non poteva essere differentemente perché le due figure erano simili sotto il profilo umano ed intellettuale: due nature schive, animate da una fede profonda e da un’altrettanto profonda  curiosità intellettuale, un’attenzione alla politica come professione nel senso più alto della parola, una malinconia di fondo che gli derivava dalla laica presa d’atto della circostanza che la politica non è tutto, anche se è importante.

Questa lezione fu sempre presente a Martinazzoli, il quale aggiungeva alle doti mutuate dal suo maestro un vivissimo senso dell’umorismo che attingeva ad una cultura eccezionale e ad una visione disincantata della politica che però non era estranea alla suggestione delle idealità e dei “pensieri lunghi”. La sua carriera politica, iniziata nella peculiare realtà di Brescia, dove si è realizzata una delle poche esperienze di una borghesia cattolica di sentimenti liberali e democratici e pensosa del bene comune (quella dei Montini, dei Bazoli, dei Trebeschi …), per poi svilupparsi a livello nazionale con importanti incarichi senza che mai una macchia, o una voce di scandalo, infangasse il suo nome.

Proprio questo faceva aumentare fuori e dentro la Democrazia Cristiana la considerazione per questo personaggio tanto strano e diverso rispetto ad un ceto politico che andava sempre più ingaglioffendosi, e molti nel 1989, all’atto dell’uscita di scena di Ciriaco De Mita – con il quale non sempre andava d’accordo - dalla guida della DC deprecarono che egli avesse scelto di non candidarsi contro Arnaldo Forlani, esponente delle componenti più moderate. Tuttavia fu lui in quel Congresso, l’ultimo del partito scudocrociato, a svolgere l’intervento che riscosse il maggiore interesse dentro e fuori la platea, ricordando le ragioni fondative del partito e ricordando che la sua capacità di futuro stava nella sfida di reinventarsi su basi etiche più solide facendo fronte ad un cambiamento annunciato dallo sgretolarsi dei regimi comunisti dell’Europa orientale.

La dirigenza uscita dal congresso, basata sull’asse di ferro Forlani-Andreotti, preferì continuare come se nulla fosse crogiolandosi in un’illusione di eternità nel rapporto privilegiato con il PSI craxiano, e venne travolta dal rimettersi in movimento di un sistema politico bloccato attraverso la crescita impetuosa di nuovi soggetti politici come la Lega Nord e l’esplodere delle vicende di Tangentopoli. Fu così che nell’autunno del 1992 Martinazzoli venne chiamato alla guida del partito come extrema ratio: qualche tempo dopo Pierferdinando Casini – che pure era stato fra quelli che lo avevano invocato come salvatore della patria – lo definì in tono sprezzante il “curatore fallimentare” della DC, e Martinazzoli ricordò sommessamente che il curatore arriva quando i precedenti titolari hanno fatto fallimento.

Di fronte ad una crisi di sistema pensare di conservare intatto il ruolo della DC, che del sistema era l’architrave, era a dir poco aleatoria, e Martinazzoli se ne rese conto subito: da qui la scelta di tornare alle radici dell’impegno politico dei cattolici democratici attraverso la riscoperta del popolarismo, separandosi dall’idea del “partito – stato” per tornare a quella del “partito – programma” così cara a Sturzo. La rifondazione del PPI avvenne nel gennaio del 1994 parallelamente alla nascita di Forza Italia, e la progressiva scelta delle componenti clerico moderate della DC di raggiungere il campo berlusconiano segnava in qualche modo un confine che era nelle cose e che, dopo il ritiro di Martinazzoli, venne definito da coloro che lo seguirono. D’altro canto, lo stesso Martinazzoli, accettando la candidatura a Sindaco di Brescia offertagli da PPI e PDS sul finire di quello stesso 1994 segnò il cammino degli anni a venire.

Dopo la sfortunata campagna per le elezioni regionali lombarde del 2000 Martinazzoli si ritirò progressivamente dalla politica attiva per dedicarsi allo studio, riprendendo la parola quando lo riteneva necessario, come quando nel 2006 fece attiva propaganda per la bocciatura della riforma costituzionale voluta dal tandem Berlusconi – Bossi.

La sua memoria rimarrà viva fra coloro che ancora credono nella politica come esigente scelta di vita.

L’Italia di domani - Per il rigore, l’equità e lo sviluppo sostenibile.

Il decalogo alternativo del PD

Agosto 2011

La Manovra di Ferragosto è inadeguata, fortemente iniqua sul piano sociale e poco credibile rispetto alla sfida che il Paese ha di fronte: il riavvio dello sviluppo, la promozione del lavoro, l’abbattimento del debito pubblico. Per una corretta valutazione economica e politica, il Decreto del governo va collocato nella scia delle manovre precedenti, in particolare della manovra di metà luglio scorso e della manovra dell’autunno 2010. Solo così si può cogliere la portata insostenibile degli interventi sulle famiglie a reddito basso e medio (i pesanti tagli ai servizi forniti da Regioni, Province e Comuni e gli aumenti di tasse e tariffe locali; i ticket sanitari; la de-indicizzazione delle pensioni sopra i 1000 euro; l’azzeramento delle risorse per le politiche sociali; l’aumento delle accise sui carburanti; l’impoverimento della scuola pubblica e dell’università, ecc).

L’insieme degli interventi definiti dalla manovra di metà luglio e dall’intervento aggiuntivo del 12 Agosto viene stimato in 2,1 miliardi di euro per il 2011, 24 miliardi di euro per il 2012, 50 miliardi di euro per il 2013 e 55,4 miliardi di euro per il 2014. L’impatto annuo previsto a partire dal 2013 è nettamente superiore a quanto necessario a raggiungere i pareggio di bilancio (40 miliardi di euro nel 2014), almeno secondo l’ultimo documento ufficiale di finanza pubblica (DEF). La differenza equivale a circa un punto percentuale di Pil. Il Governo deve dunque spiegarne la ragione e presentare al Parlamento l’aggiornamento del DEF, del quadro macroeconomico e degli obiettivi di indebitamento.

Nonostante la necessità di rafforzare la credibilità degli interventi di metà luglio, ampia parte della correzione dei conti pubblici rimane affidata ad una delega assistenziale e fiscale vaga e molto preoccupante. Sono vaghi i principi di intervento sull’assistenza. Preoccupante è la clausola di salvaguardia finanziaria, poiché scarica sulle detrazioni Irpef e sugli aumenti di Iva ed accise i mancati effetti degli interventi assistenziali. Considerato che l’intera spesa per assistenza è circa 16 miliardi all’anno e che la delega dovrebbe dare, nel 2013, 16 miliardi e 20 “a regime” dal 2014, vuol dire che, se scattasse questa clausola, pagherebbero ancora una volta i lavoratori ed i pensionati a reddito più basso e medio.

L’atteggiamento del Governo sul tema delle pensioni resta in questo contesto ondivago e improntato all’irresponsabilità. Se il tema delle pensioni è collocato nell’ambito di una complessiva riforma del welfare finalizzata a migliorare le condizioni delle nuove generazioni, il Pd è pronto a discutere con le proprie proposte. Siamo contrari invece a interventi sulle pensioni finalizzati solo a coprire esigenze occasionali di spesa non legate al welfare.

L’intervento sugli enti territoriali è insufficiente e confuso sul piano del riordino istituzionale, ma fortemente incisivo sul livello dei servizi. Il “contributo di solidarietà”, poiché imposto con l’innalzamento delle aliquote Irpef sopra i 90. 000 euro colpisce quasi esclusivamente i redditi da lavoro dipendente e le pensioni da lavoro dipendente. In sostanza, si inasprisce la pressione fiscale su chi già paga. L’atteggiamento punitivo nei confronti dei dipendenti pubblici, attraverso il rinvio del pagamento del Tfr e il rinvio sine die delle tredicesime, non porta efficienza, ma solo un temporaneo effetto di cassa. La soppressione delle festività civili implica, oltre all’impatto sulla cultura nazionale, un effetto depressivo sui consumi, senza miglioramenti significativi sulla produttività. Gli interventi sulle relazioni industriali e sui rapporti di lavoro sono una intromissione nell’autonomia delle parti sociali. Infine, ancora una volta, si utilizza il Fas, il fondo per le aree sottoutilizzate, per fare cassa, ad ulteriore indebolimento delle prospettive del Mezzogiorno.

Il Partito Democratico intende correggere alla radice le iniquità della manovra ed introdurre interventi per lo sviluppo sostenibile. Come è sempre più chiaro, è la battaglia per la crescita e l’occupazione, in particolare giovanile e femminile, la vera sfida da vincere nel rispetto degli ineludibili vincoli di finanza pubblica. E’ una sfida che riguarda l’Italia e l’Europa.

Più Europa per affrontare la crisi. Soltanto un governo politico dell’area euro per lo sviluppo sostenibile e la gestione comune dei debiti sovrani, secondo le proposte elaborate dai partiti progressisti europei (Agenzia Europea per il Debito, Eurobonds per gli investimenti produttivi, tassa sulle transazioni finanziarie speculative, ecc) e secondo progetti sistemici come quello illustrato da Prodi e Quadrio Curzio su Il Sole 24 Ore del 23 agosto, può dare senso alle politiche di austerità.

Le principali proposte alternative del Pd alla manovra del governo per ottenere equità e sviluppo sostenibile:

1. Istituzioni più snelle e taglio ai costi della politica. Interventi per riorganizzare e ristrutturare l’assetto istituzionale centrale e territoriale e le pubbliche amministrazioni.In particolare: dimezzamento del numero dei parlamentari; interventi sistematici e coordinati su Regioni, Province, Comuni per lo snellimento degli organi di rappresentanza e di governo, per l’obbligo della gestione associata di tutte le funzioni nei comuni con meno di 5000 abitanti (e profonda revisione dell'articolo 16 del Decreto che limita la rappresentanza democratica e non produce reali risparmi di spesa), il dimezzamento delle Province o, in alternativa, la loro trasformazione in enti di secondo livello; accorpamento degli uffici periferici dello Stato, radicale riduzione delle società partecipate da Regioni, Province e Comuni ed eliminazione degli organi societari per le società “in house” (oltre 50 mila incarichi), soppressione di enti, agenzie ed organismi, intermedi e strumentali, (consorzi di bonifica, bacini imbriferi montani, enti parco regionali) con attribuzione delle funzioni a Regioni province e comuni, centrale unica per gli acquisti di beni e servizi per ogni articolazione delle pubbliche amministrazioni; riavvio della spending review, per realizzare, per ciascuna amministrazione, veri e propri piani industriali, introdurre best practices e costi standard; revisione delle norme sugli appalti, in particolare per una drastica riduzione del numero delle stazioni appaltanti.

2. Dismissioni immobili e frequenze. Un piano quinquennale di dismissione e valorizzazione di immobili demaniali in partenariato con gli enti locali per almeno 25 miliardi di euro e l’introduzione di un’asta competitiva per le frequenze televisive.

3. Liberalizzazioni. Un pacchetto di interventi per rafforzare e dare operatività immediata alle misure di liberalizzazione dei servizi professionali, della distribuzione dei farmaci, della filiera petrolifera, del RC auto, dei servizi bancari, delle reti energetiche, dei servizi pubblici locali. Interventi possibili senza rovinare l’art 41 della Costituzione.

4. Politiche industriali per lo sviluppo sostenibile, il lavoro, il Mezzogiorno. Tra l’altro: la stabilizzazione dell’agevolazione fiscale del 55% per l’efficienza energetica (in scadenza al 32/12/2011); progetti per l’innovazione tecnologica italiana e la ricerca, con attenzione prioritaria alle straordinarie risorse potenziali, a partire dalle donne, del Mezzogiorno; il finanziamento pluriennale del contratto di apprendistato recentemente riformato; revisione dell’intervento sull’Istituto per il Commercio Estero; revisione per la semplificazione e l’adattamento alle diverse dimensioni aziendali del Sistri.

5. Una politica vera contro l’evasione fiscale. Un pacchetto di misure efficaci contro l’evasione fiscale, per raccogliere risorse da utilizzare in via prioritaria: per la riduzione dei contributi sociali sui contratti a tempo indeterminato al fine di eliminare i vantaggi di costo dei contratti precari; alla riduzione dell’Irpef, in via prioritaria sulle mamme lavoratrici; alla graduale eliminazione del costo del lavoro a tempo indeterminato dalla base imponibile dell’Irap. Tra le altre misure il Pd propone: la tracciabilità, a fini anti- riciclaggio, dei pagamenti superiori a 1. 000 euro e, a fini anti-evasione, dei pagamenti superiori a 300 euro; la comunicazione da parte delle imprese dell’elenco clienti- fornitori; la parziale o totale deducibilità delle spese per la manutenzione della casa di abitazione.

6. L’imposta ordinaria sui grandi valori immobiliari. L’introduzione di una imposta erariale ordinaria sui grandi valori immobiliari, basata su criteri fortemente progressivi.

7. Il contributo di solidarietà dai capitali scudati. Un’imposta patrimoniale una tantum del 15% sull’ammontare dei capitali esportati illegalmente e condonati attraverso lo scudo fiscale del 2003 e del 2009 e, a titolo di saldo del debito fiscale, del 30% sui patrimoni “non scudati” detenuti nei paradisi fiscali, in modo da avvicinare l’intervento italiano alle medie delle analoghe misure prese nei principali paesi industrializzati e di reperire risorse da dedicare agli interventi per lo sviluppo sostenibile. Parte delle risorse così raccolte vanno utilizzate per finanziare il pagamento di una parte dei debiti delle Pubbliche Amministrazioni nei confronti delle piccole e medie imprese e per alleggerire il patto di stabilità interno, così da consentire immediati investimenti ai Comuni. Inoltre, si propone la rinegoziazione dei trattati bilaterali con i “paradisi fiscali” transitati dalla black alla white list dell’Ocse (in particolare Svizzera).

8. L’autonomia delle parti sociali. Il Decreto del governo viola il principio da tutti riconosciuto della non intrusività delle norme di legge nei rapporti tra le parti sociali. Di conseguenza, va soppresso l’articolo 8 o, in alternativa, va cambiato in modo da recepire i punti fondamentali dell’accordo raggiunto dalle parti sociali il 28 giugno scorso.

9. Contro il falso in bilancio, l’autoriciclaggio e il caporalato. La revisione delle norme sulle“false comunicazioni sociali” affinché il “falso in bilancio” torni ad essere reato punito severamente e vengano eliminate le clausole di non punibilità; revisione della normativa sull’autoriciclaggio ed irrobustimento delle norme contro il “caporalato”.

10. Giustizia. Interventi per l’efficienza della Giustizia, a cominciare dalla revisione delle circoscrizioni giudiziarie (razionalizzazione, gestione migliore del personale, più efficienza), dall’istituzione dell’ufficio per il processo (unità operativa in grado di svolgere tutti i compiti) e dalla semplificazione ed unificazione dei riti nella giustizia civile.

 

 

Vieni avanti, decretino!

(sulla “manovra”)

Vincenzo Ortolina
Coordinatore A.P. per la Lombardia
Milano, 15 Agosto 2011
Abbiamo dunque capito: Il presidente Napolitano ha approvato un decreto-legge che sarà, se non stravolto, profondamente modificato in aula dalla stessa maggioranza (che conferma così di avere tuttora idee confuse in materia), e sul quale, alla fine, in nome dell’”emergenza”, sarà comunque posto l’ennesimo voto di fiducia, che, alla faccia dell’impegno per un serio confronto con l’opposizione, strozzerà ogni dibattito. Il decreto, tra l’altro, contiene assurdamente anche disposizioni “ordinamentali”, la cui “urgenza” (che ne giustificherebbe il loro inserimento in un decreto-legge, appunto) non pare per niente dimostrata, se si considera, per fare un solo esempio, che la cancellazione di un certo numero di Province è prevista (inevitabilmente) alla scadenza della consiliatura in essere, non ora. Ma questo governo e questa maggioranza vivono di “propaganda”, e così, supportati dall’enfasi dei “media” fiancheggiatori, si gonfiano il petto dichiarando di aver fatto scomparire di colpo 54 mila “poltrone”. In realtà sono solo “poltroncine”, che, complessivamente, “costano” assai poco. Si pensi in particolare alle indennità degli amministratori dei piccoli Comuni, coinvolti, insieme alle Province, nel processo di “razionalizzazione”. Sia chiaro: la riduzione dei costi della politica è un’esigenza inderogabile, ma andrebbe realizzata nel quadro di un disegno organico, che riguardi tutte le istituzioni. Con un complesso di norme “costituzionali” e “ordinarie”, sulle quali dovrebbe essere possibile ottenere in breve tempo il vasto consenso di un Parlamento che non fosse preoccupato soltanto della propria sopravvivenza, si potrebbe ottenere che: sia dimezzato il numero di deputati e senatori, scelta ormai matura quarant’anni dopo aver costituito i parlamentini regionali; gli “stipendi” dei suddetti parlamentari vengano allineati alla media europea, e dunque ridotti corposamente (insieme, correlativamente, a quelli dei “regionali”); siano ridisegnate le competenze di ciascun’istituzione, impedendo tassativamente sovrapposizioni di funzioni. In tal senso, alle Regioni in particolare dovrebbe essere semplicemente impedito, diversamente da quanto accade di fatto ora, di occuparsi di attività “amministrative” di spettanza degli enti locali; vengano istituite obbligatoriamente, laddove esistono le condizioni, le “città metropolitane”, superando, in tali contesti, le Province. Magari partendo dall’area milanese, dove la costituzione della Provincia di Monza ha rappresentato un “nonsense”; venga razionalizzato profondamente il “sistema Province”, sulla base, però, di parametri non esclusivamente “quantitativi”. L’abolizione totale di questi enti intermedi, in ogni caso, è sbagliata. I Comuni piccoli siano poi obbligati, senza perdere necessariamente la propria identità storica, a gestire i servizi in partnership tra loro; sia stabilito, ulteriormente, un limite ai “mandati” a tutti i livelli: difficile capire, in argomento, perché un Sindaco non possa essere rieletto dopo due mandati, mentre … Formigoni (grande elargitore diretto di “bonus” e “voucher”) possa fare il Presidente della Regione “ad vitam”. E forse è bene, di questi tempi, che lo stesso mandato parlamentare venga ridimensionato temporalmente. Siano introdotte, ancora, norme incisive sulle incompatibilità, compreso il divieto assoluto di incarichi plurimi. Infine, venga abrogato il “porcellum”. Dicevamo, però, che il decreto in questione è destinato a essere pesantemente modificato, a quanto si legge dai giornali. Perciò, l’attuale apprezzamento dell’Unione europea non si capisce bene cosa significhi. Rimetteranno in discussione, sono pronto a scommettere, la stessa questione “Province” e “Comuni”, perché la destra difficilmente avrà la forza di “tagliare”, in proposito, ma non perché abbia intenzione di pensare davvero (e doverosamente) a un riassetto istituzionale più complessivo, bensì per ragioni “di bottega”. Genio Calderoli ha già detto che no, non intendono cancellare gli esecutivi delle piccole comunità: solo i consigli comunali. Torniamo al “podestà”, allora, suvvia!  Cambierà però anche il “superprelievo”, si dice, perché Berlusconi non vuole in alcun modo “mettere le mani nelle tasche dei cittadini” (già sentita, vero?). Per sostituirlo con che cosa, non si sa, e questo preoccupa molto. Resta il fatto che la “manovra”, così come ora concepita, è iniqua perché va contro i ceti medi (“ i forzati del fisco si sacrificheranno ancora per la patria e la patrimoniale, mentre gli evasori li deridono e quelli che vivono di rendita si sfregano le mani”, ha scritto l’Eco di Bergamo) e tocca principalmente i lavoratori “dipendenti”, meno gli “autonomi”, perseguendo poi scientificamente (è un classico della destra) l’obiettivo di far passare l’idea che quelli “pubblici” in particolare sono, come classe, dei “fannulloni”, e vanno dunque puniti.  Certo sarà però risolutiva, per le finanze pubbliche, la “sterilizzazione” delle feste (“di sinistra”) del 25 aprile e del 1° maggio (buon Dio!). In conclusione: questa manovra è comunque “invotabile”, come afferma persino Casini, quali che siano gli appelli, anche “elevati”, alla “responsabilità”. Non v’è dubbio, allora, che il momento presente esigerebbe primariamente che questo governo fosse sostituito celermente con uno davvero “di emergenza”, presieduto da personalità all’altezza, come dice Bersani. Questa sì sarebbe una scelta responsabile, per il paese. I rischi di spendere, allo scopo, un tempo troppo lungo rispetto alla drammaticità della situazione mi pare non siano superiori a quelli che corriamo con le decisioni di un governo e di una maggioranza che non ha più alcuna credibilità, né nazionale né internazionale.