Cattolicesimo Democratico

MANIFESTO per la Buona politica e per il Bene comune

Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel Mondo del Lavoro

Martedì 19 Luglio 2011

 


I Promotori del Forum delle Persone e delle Associazioni di ispirazione cattolica nel Mondo del Lavoro aderiscono con convinzione, e determinazione all’appello del Papa, ribadito dai Vescovi italiani, per un impegno fecondo dei cattolici rivolto al rinnovamento morale e civile della politica nazionale.

Per spirito di servizio, non per rivendicare primazie, ma con la finalità di contribuire alla costruzione del bene comune. Siamo orgogliosi di essere italiani, portatori di valori, di cultura, tradizioni, apprezzati nel mondo e consapevoli di avere un destino comune nel confrontarci con nuovi protagonisti della competizione internazionale, per avviare una nuova stagione di sviluppo e per dare risposte positive alle giovani generazioni, ai territori meno sviluppati, alle persone bisognose. La strada è quella di una grande, generosa, generale mobilitazione delle energie civili, sociali, imprenditoriali degli italiani che metta in moto le forze positive che si esprimono nella società al servizio del bene comune.

Per fare questo c’è bisogno di una buona politica e di classi dirigenti preparate, motivate, che sappiano suscitare emulazioni positive nelle nostre comunità, sappia renderle accoglienti verso le persone che vengono da altri Paesi, aperte alla prospettiva di portare a compimento la costruzione degli Stati Uniti d’Europa.
Vogliamo fare un  appello alla politica, al mondo intellettuale, ai protagonisti del mondo del lavoro e dell’associazionismo sociale, a partire da coloro che si richiamano e si riconoscono nei valori cristiani per condividere insieme analisi e proposte per impostare un’agenda politica che affronti,  con forza, costanza e visione di lungo periodo le questioni decisive.

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Nuova alleanza per l’emergenza antropologica

Paolo Sorbi, Pietro Barcellona, Mario Tronti e Giuseppe Vacca

16 Ottobre 2011

da Avvenire

Il documento che pubblichiamo è firmato da Paolo Sorbi, Pietro Barcellona, Mario Tronti e Giuseppe Vacca – illustri intellettuali e studiosi di formazione marxista che, in modo diverso e secondo percorsi diversi, condividono e dialogano con l’insegnamento di Benedetto XVI sulla insopprimibile dignità della vita umana e sul primato della persona «cercando di andare oltre tutti gli steccati». È una «lettera aperta», per dirla con le parole di Paolo Sorbi, «con una motivazione educativo–culturale» e rivolta principalmente – ma non esclusivamente – al Partito democratico e al suo attuale segretario pur nella consapevolezza della non adeguata comprensione ed elaborazione a sinistra della centralità della questione dei “valori non negoziabili”. «Il rischio incombente – annota, infatti, Sorbi – per un centrosinistra rassegnato a seguire derive radicali è di non si riuscire a elaborare una cultura di governo all’altezza delle gigantesche sfide del nostro tempo».

 

La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pone di fronte a una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e, al tempo stesso, la radice più profonda della crisi della democrazia. Germina sfide che esigono una nuova alleanza fra uomini e donne, credenti e non credenti, religioni e politica. Pertanto riteniamo degne di attenzione e meritevoli di speranza le novità che nel nostro Paese si annunciano in campo religioso e civile.

A noi pare che negli ultimi anni – un periodo storico cominciato con la crisi finanziaria del 2007 e in Italia con il crepuscolo della “Seconda Repubblica” – mentre la Chiesa italiana si impegnava sempre più a rimodulare la sua funzione nazionale, un interlocutore come il Partito democratico sia venuto definendo la sua fisionomia originale di “partito di credenti e non credenti”. Sono novità significative che ampliano il campo delle forze che, cooperando responsabilmente, possono concorrere a prospettare soluzioni efficaci della crisi attuale.

Il terreno comune è la definizione della nuova laicità, che nelle parole del segretario del Pd muove dal riconoscimento della rilevanza pubblica delle fedi religiose e nel magistero della Chiesa da una visione positiva della modernità, fondata sull’alleanza di fede e ragione. Nel suo libro–intervista Per una buona ragione, Pier Luigi Bersani afferma che il «confronto con la dottrina sociale della Chiesa» è un tratto distintivo della ispirazione riformistica del Pd e che la presenza in Italia «della massima autorità spirituale cattolica» può favorire il superamento del bipolarismo etico che in passaggi cruciali della vita del Paese ha condizionato negativamente la politica democratica.

Ribadendo, infine, la «responsabilità autonoma della politica», Bersani esprime una opzione decisa per una sua visione «che non volendo rinunciare a profonde e impegnative convinzioni etiche e religiose, affida alla responsabilità dei laici la mediazione della scelta concreta delle decisioni politiche».

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica vi sono due punti della relazione del cardinale Bagnasco alla riunione del Consiglio permanente dei vescovi del 26–29 settembre 2011 che meritano particolare attenzione. Il primo riguarda la critica della «cultura radicale»: essa è rivolta a quelle posizioni che, «muovendo da una concezione individualistica», rinchiudono «la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale». Il secondo è la proposta di nuove modalità dell’impegno comune dei cattolici per contrastare quella che in una precedente occasione aveva definito «la catastrofe antropologica»: «la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica». E non è meno significativa la sua giustificazione storica: «A dar coscienza ai cattolici oggi non è anzitutto un’appartenenza esterna, ma i valori dell’umanizzazione [che] sempre di più richiamano anche l’interesse di chi esplicitamente cattolico non si sente». In altre parole, la «possibilità» di questo nuovo soggetto origina dall’impegno sociale e culturale del laicato, nel quale i cattolici sono «più uniti di quanto taluno vorrebbe credere» grazie alla bussola che li guida: la costruzione di un umanesimo condiviso.

La definizione della nuova laicità e l’assunzione di una responsabilità più avvertita della Chiesa per le sorti dell’Italia esigono uno sviluppo dell’iniziativa politica e culturale volta non solo a interloquire con il mondo cattolico, ma anche a cercare forme nuove di collaborazione con la Chiesa, nell’interesse del Paese. A tal fine appare dirimente il confronto su due temi fondamentali del magistero di Benedetto XVI che nell’interpretazione prevalente hanno generato confusioni e distorsioni tuttora presenti nel discorso pubblico: il rifiuto del “relativismo etico” e il concetto di “valori non negoziabili”. Per chi dedichi la dovuta attenzione al pensiero di Benedetto XVI non dovrebbero sorgere equivoci in proposito. La condanna del “relativismo etico” non travolge il pluralismo culturale, ma riguarda solo le visioni nichilistiche della modernità che, seppur praticate da minoranze intellettuali significative, non si ritrovano a fondamento dell’agire democratico in nessun tipo di comunità: locale, nazionale e sovranazionale. Il “relativismo etico” permea, invece, profondamente, i processi di secolarizzazione, nella misura in cui siano dominati dalla mercificazione. Ma non è chi non veda come la lotta contro questa deriva della modernità costituisca l’assillo fondamentale della politica democratica, comunque se ne declinino i principii, da credenti o da non credenti.

D’altro canto, non dovrebbero esserci equivoci neppure sul concetto di “valori non negoziabili” se lo si considera nella sua precisa formulazione. Un concetto che non discrimina credenti e non credenti, e richiama alla responsabilità della coerenza fra i comportamenti e i principii ideali che li ispirano. Un concetto che attiene, appunto, alla sfera dei valori, cioè dei criteri che debbono ispirare l’agire personale e collettivo, ma non nega l’autonomia della mediazione politica. Non si può quindi far risalire a quel concetto la responsabilità di decisioni in cui, per fallimenti della mediazione laica, o per non nobili ragioni di opportunismo, vengano offese la libertà e la dignità della persona umana fin dal suo concepimento. Ad ogni modo, se nell’approccio alle sfide inedite della biopolitica ci sono stati e si verificano equivoci e cadute di tal genere non solo in scelte opportunistiche del centrodestra, ma anche nel determinismo scientistico del centrosinistra, la riaffermazione del valore della mediazione laica che sembra ispirare «la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica» rischiara il terreno del confronto fra credenti e non credenti. Quindi dipenderà dall’iniziativa culturale e politica delle forze in campo se quella “possibilità” acquisterà un segno progressivo o meno nella vicenda italiana.

A tal fine noi riteniamo che il Pd debba promuovere un confronto pubblico con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni religiose operanti in Italia oltre che sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”, su quelli che attengono in maniera più stringente ai rischi attuali della nazione italiana: la tenuta della sua unità, la “sostanza etica” del regime democratico. Tanto sull’uno, quanto sull’altro, la storia dell’Italia unita dimostra che la funzione nazionale assolta o mancata dal cattolicesimo politico è stata determinante e lo sarà anche in futuro.

 

Mino Martinazzoli: l’intelligenza degli avvenimenti, il carisma della parola

Paolo Corsini

12 Ottobre 2011

1. L’intelligenza degli avvenimenti, il carisma della parola, lo stigma dell’inquietudine che si incarna nella severità del patriarca: questa  l’identità che, d’istinto, sento di attribuire a Mino Martinazzoli, identità cui si accompagna – quasi un paradosso per lui che soltanto ultimamente si era appartato – una condizione di solitudine, quella solitudine che lo ha illimpidito per tutta una vita. Quasi un destino iscritto nel suo stesso cognome di origine camuna che, sono parole sue non esenti da una punta di civetteria, si può interpretare come “Martin solo. Era il lanzichenecco perdutosi in val Camonica. Un lanzichenecco solo. Ecco cosa sono”. Tornano alla mente i fotogrammi innumerevoli di una frequentazione che per due anni è stata particolarmente assidua, giornaliera, nel suo studio in Loggia – il palazzo municipale di Brescia – dove campeggia un’imponente Vittoria alata simbolo della città e dove, in un angolo, una statua quasi stilizzata di Giuseppe Zanardelli, dovuta allo Ximenes, evoca all’ospite o al visitatore un’alta tradizione politico-amministrativa. Mino aveva voluto il vicesindaco, da sempre al piano terra, al proprio fianco nello studio, impreziosito da una raffinata boiserie, attiguo al suo e con lui direttamente comunicante, quasi a smentire la diceria di un carattere ruvido e scontroso, persino scostante ed introverso, non incline al colloquio, all’incontro umano. In realtà chi lo ha conosciuto da vicino non ha potuto non riconoscere la sua connaturata timidezza ed insieme un’attitudine tutta riflessiva all’ascolto, una mai appagata curiosità intellettuale, disposizioni che lo portavano a superare un’istintuale ritrosia, una congenita riservatezza fatta di rispetto, non certo di distacco, men che meno di alterigia o di aristocratica supponenza. Il volto solcato da rughe, lo sguardo serioso e penetrante, indagatore, non tardava ad illuminarsi di un sorriso dolce e quasi fanciullesco e la conversazione, interminabile, alternava silenzi a parole, meditate pause a riflessioni sorrette da un argomentare mai asseverativo, sempre problematico, ansioso di verità. Questo l’uomo che ho conosciuto, il personaggio che mi ha intrigato, il leader politico che più di ogni altro, fra quanti ho direttamente frequentato, ha segnato la mia cultura politica, lasciandomi di sé un’impronta che continuerà ad accompagnarmi nel tempo, anche in quello, ormai prossimo, del ritorno allo studio e alla ricerca.
2. Non si può certamente eludere l’interrogativo sulla scaturigine della sua autorevolezza, sulla fascinazione del suo pensiero sempre affilato, sulle suggestioni di un linguaggio, talora persino scorticante, che è stato lo stile suo, inconfondibile - direbbe l’illuminista George Louis Leclerc conte di Buffon - metafora di un’etica ragionativa capace di una prosa - così ha annotato uno studioso del calibro di Pietro Gibellini – “agli antipodi dell’enfasi retorica quanto dello slogan elettorale - pubblicitario”, di una scrittura sorretta da una “sintassi complessa, intercisa da auto-obiezioni continue” che coniugano il “rifiuto delle idées reçues” alla “pratica del dubbio metodico imposto dalla ragion critica”. Ebbene la risposta all’interrogativo si può rinvenire nella libertà della ricerca intellettuale e nella dirittura della vita morale che ispira, anima, sorregge, orienta l’impegno politico di un “impolitico” come Martinazzoli convinto che, “più della moralità dei fini, conta la moralità dei mezzi”, perché è proprio qui “che deve disporsi la via. Poiché nella nostra storia – dico, da cattolico, nella nostra storia terrena – dobbiamo negarci la certezza dell’approdo; il senso del viaggio non è la meta, ma è la strada”. Ebbene in questa “impoliticità” si può cogliere il senso dell’itinerario compiuto da Martinazzoli come uomo di partito ed uomo delle istituzioni ed insieme il contributo più rilevante della sua concezione politica. Meglio non si potrebbe dire di come egli stesso dice a proposito del “suo” Manzoni - con Rosmini “duplice vertice sublime di una sola fiamma” – nei Pretesti per una requisitoria manzoniana:

“Impolitico non perché ignorasse Machiavelli, ma perché non gli riusciva di comprendere un potere disgiunto dalla ragione morale. Impolitico perché la convinzione cristiana e l’attitudine liberale lo opponevano alla pretesa ideologica. Impolitico perchè era certo che la politica ripiega nella demagogia e nella finzione, se le si pongono domande eccessive. Sapeva, al contrario, che tocca a ciascuno affinare e condividere il proprio talento in modo che sia appagato il bisogno di giustizia e risulti persuasiva la regola comune, perché sia più umana la società e più veritiera la politica”.

Dunque,  prima ancora che l’azione politica – comunque inevitabile per lui in quanto esito di una responsabilità, di una obbligazione -, la meditazione sulla politica, sulla sua grandezza e miseria, sulle sue ambizioni, sui suoi vincoli, soprattutto sul suo limite, alla ricerca delle “poche ragioni che possono giustificarla, nello scacco e nella speranza”. Da qui l’immagine falsa, del tutto fuorviante, di un Martinazzoli crepuscolare, “italo Amleto”, “Cassandra bresciana”, persino “cipressoso”, addirittura “uno degli uomini più oscuri del secolo”, come lo definisce un suo critico “sublime” vittima inconsapevole di una contraddittoria iperbole.

3. Da “impolitico” Martinazzoli ha attraversato stagioni cruciali della storia contemporanea del nostro Paese, autorevole testimone e protagonista di rilievo di decenni vissuti in ruoli di assoluta preminenza: più volte Ministro in dicasteri chiave per la vita della Repubblica, capogruppo alla Camera del partito a lungo detentore in Italia della supremazia politica, presidente della commissione inquirente al tempo dello scandalo “Lockeed”, ultimo segretario della Democrazia cristiana, promotore e fondatore del nuovo Partito popolare italiano. Una biografia  che prende le mosse dall’humus culturale, dalle idealità democratiche, dai valori cristiani della Brescia di Giovan Battista Montini, Giulio Bevilacqua, Carlo Manziana, valori che accendono le speranze, alimentano la passione di un giovane della Bassa bresciana, terra di gente paziente e laboriosa, riservata e sobria.

“Sarei tentato (…) di definire questa cifra lombarda come una sobrietà dell’intelligenza. Non un’angustia, un rifiutarsi alla passione e alla fantasia, ma la compiutezza, difficile e placata, di una conoscenza intera, di un’ostinata esperienza. Delle cose e degli uomini, dell’eccezione e della regola, della fatica e della festa, della lunghezza e della misura”.

Già all’origine, all’incipit di un lungo percorso, Martinazzoli esordisce da democristiano insolito, atipico più che “strano”, come titola il suggestivo racconto autobiografico, quasi preterintenzionale, raccolto recentemente da Annachiara Valle, giovane, valente giornalista di “Jesus” e direttrice di “Madre”. All’inizio è, infatti, amministratore locale “indipendente”, avido lettore di buoni libri – in primis quel don Primo Mazzolari che con la sua predicazione nella plaga ha lasciato semi fecondi –, animato non da spirito appetitivo di ruoli e di potere, ma dal sentimento di una testimonianza, dall’urgenza di un dovere, di un servizio da rendere nel nome della democrazia, insieme garanzia di libertà e tensione per la giustizia, pur consapevole che “fare politica, per un cristiano, vuol dire mettersi al centro di una contraddizione”. Martinazzoli, già direttore de “Il Cittadino”, l’organo di stampa fondato da Giorgio Montini deputato popolare e padre di Paolo VI,  approda alla Provincia di Brescia prima come consigliere, successivamente diventandone Presidente.

Dal 1972 è al Senato dove rimane sino al 1983, poi alla Camera, per ritornare al Senato dal ’92 al ’94. Quindi Sindaco di Brescia, poi capogruppo per il centrosinistra in Regione Lombardia a partire dal 2000. Nel 2004 l’ultima, in realtà effimera, quanto generosa ed improbabile, avventura come presidente di Alleanza popolare-Udeur nel tentativo estremo, quasi vissuto a contraggenio e senza entusiasmi, come per la percezione di un ingombro, più per  testimonianza, dunque, che per convinzione, di rendere ancora visibile la presenza sulla scena politica del Paese di una formazione di cattolici non immemori dell’eredità del popolarismo.

4. È soprattutto l’incontro con Aldo Moro, una conoscenza mediata da Franco Salvi, a segnare cultura politica, orientamenti, scelte che contraddistinguono il profilo di Mino Martinazzoli, di lui che legge, interpreta ed agisce la politica alla luce di un fondamento umanistico – il valore inestinguibile della vita, la sua promozione, il riscatto, la speranza della redenzione, l’”ostinazione della speranza cristiana” -, che la pratica come risultanza di un pensiero, come risposta e soluzione ad un problema, infine sforzandosi di redimerla per il tramite di una “rivelazione” che per lui, cristiano di matrice montiniana, conciliare, oltre a fondarla, la misura e la giudica. Come scrive in Il cielo di Austerlitz:

“Occorre il senso di una rivelazione. Come quella che, in un attimo di spessore esistenziale, sorprende il principe Andrey di Guerra e Pace sul campo devastato dalla battaglia di Austerlitz. Ferito e dolente, steso immobile sulla terra si volge con chiari occhi a un cielo ‘alto e infinito’ solcato da placide nubi bianche. E così inappellabile gli appare quella indifferenza, e così profonda l’impassibile verità di quel cielo, da convincerlo che nulla è vero fuorché quella visione, che tutto è ‘vuoto ed inganno’ se non si paragona su quella irraggiungibile lontananza. Certo, evocare l’assoluta metafora di Tolstoi, per dire il malessere e la crisi della politica, significa proporre una perentoria e persino sgradevole soluzione. Ma io credo che la grande letteratura non soffre mortificazioni anche quando si piega all’ufficio più umile. Essa può contenere tutto della vita e delle vite, proprie perché il suo ‘disinteresse’ la rende umanamente intera. E se la politica non ha cielo, conosce, tuttavia, una tensione che supera e trasvaluta la prigionia del potere e l’angustia delle ambizioni per assumere e intravedere un nitido traguardo umano di libertà e solidarietà”.

Appunto un traguardo umano di libertà e solidarietà: questo il senso di una presenza parlamentare, di tangibili segni lasciati da Martinazzoli nella sua attività di produzione della norma. Così la battaglia di civiltà per l’approvazione della legge “Valpreda” sui termini della carcerazione preventiva in nome della convinzione che “là dove vi è un processo garantito, (….) di parità tra le parti e di garanzia per la libertà personale, là vi è anche una risposta punitiva rapida, efficiente, tempestiva”, così nel caso del confronto parlamentare – un passaggio di straordinario spessore umano e culturale – in tema di riforma del diritto di famiglia, un appuntamento che dimostra come “in quegli anni era ancora possibile pensare che il diritto  mantenga in sé un’autonomia morale, una capacità pedagogica nei confronti dei comportamenti”. Così nell’occasione della legge sul nuovo processo del lavoro secondo un impianto teso a guadagnare speditezza al giudizio, impianto poi assurto anche a modello per altre procedure del contenzioso civile. Così, infine, nelle preveggenti, lungimiranti proposte avanzate in tema di utilizzazione delle intercettazioni come strumento di prova cui ricorrere con avvedutezza e nel quadro di irrinunciabili, ineludibili garanzie. Del resto è proprio sul terreno della giustizia che Mino Martinazzoli, uomo di governo, lascia l’impronta più significativa e riconoscibile di un’ispirazione, al di là della frequente autoironia, di un’aneddotica persino stucchevole (il risparmio ottenuto con la riduzione del formato delle buste in dotazione al ministero). Esemplare di una disposizione, sintomatica di una sensibilità volta al recupero del diritto, al superamento della legislazione emergenziale prodotta negli anni del terrorismo, l’introduzione di misure tese alla graduale riduzione di un’afflittività frutto di una distorsione delle regole. Sarà la legge sulla “dissociazione”, nota come “legge Gozzini”, esito di un sapiente, quanto paziente, assemblaggio di iniziative di governo e parlamentari. Per Martinazzoli l’inveramento di una posizione ideale, di quell’orizzonte senza tempo che è la permanenza metastorica del valore, pur raffrontato agli accadimenti della storia, agli sviluppi talora tumultuosi, spesso disordinati della convivenza sociale. Insomma il recupero di quella regola che vuole esaltare, sulla scia del prediletto Rosmini, la persona come “diritto” – la persona che non solo  ha il diritto, ma è il diritto – e lo Stato come “lo Stato del valore umano”. Ed insieme nella memoria mai dimessa della predicazione mazzolariana in quelle chiese di campagna frequentate da umile gente, “ch’erbose hanno le soglie” – “occorre un ritorno alla pietà. Pietà per me. Pietà per voi. Per i morti e per i vivi. Pietà per tutti” -, la restituzione alla politica della sua dignità, di un’amorevole intelligenza della condizione umana, di una volontà davvero convinta del suo volere, della sua vocazione civile. Perché – come ha lasciato scritto -, “se vale il soccorso della poesia, conviene ricordare Elliot: Per noi non c’è che tentare. Il resto non ci riguarda“. Qui anche l’inveramento, la redenzione dell’agire politico, di una politica che si trova a doversi misurare col tempo della società frammentata e degli interessi molecolari. Quasi un annuncio oracolare, più che una profezia:

“La politica riconquisterà invece la sua persuasione e la sua necessità per una calma intelligenza degli avvenimenti, per una pacata attitudine ordinatrice, per una tempestiva sensibilità agli annunci lontani, per una sagace intuizione dei nessi e delle relazioni, per la pazienza di un’attesa, per una volitiva percezione dell’occasione e del consenso”.

5. Diceva, Martinazzoli, di una pacata attitudine ordinatrice. È un tema che evoca snodi centrali di chi, forse come nessun altro leader nei tempi recenti, ha saputo pensare la politica in Italia. Evidente il rimando a categorie in lui ripetutamente visitate quali regola, ordine, mitezza, limite. Sullo sfondo lo Stato, i partiti ed i cittadini che Martinazzoli talvolta chiama “gente” non perché ceda alla retorica corriva di una indistinzione – la gente in realtà è solo moltitudine anonima e spersonalizzata, neppure folla solitaria, spesso piazza vociante –, ma perché il suo ascolto è indirizzato a La Pira, al civis christianus divenuto Sindaco interprete delle attese della “povera gente”. Ed infatti:

mentre “la parola popolo allude ad un che di organico, di paziente, evoca una durata e una memoria”, al contrario la “parola gente adombra un’anomia, un’inconsapevolezza della sorte comune, dice un’addizione di solitudini piuttosto che un sentimento comunitario”.

Molteplici gli interventi gli scritti, le relazioni in sede di partito, i contributi per le occasioni più disparate – persino premi letterari – cui si può fare riferimento. Due soprattutto: l’introduzione, assai impegnativa, del 1989 ai Discorsi parlamentari di Aldo Moro, nonché la raccolta miscellanea pubblicata nel volume edito dalla Morcelliana nel 1986 titolata Il limite della politica. Qui Martinazzoli si muove tra disincanto weberiano ed ethos democratico, qui, più che altrove forse, si pone all’apice di quella traiettoria tesa a coniugare  cattolicesimo liberale della tradizione transigente-conciliatorista e cattolicesimo democratico - l’orizzonte della laicità dello Stato come valore positivo della fede e la valorizzazione della democrazia dei moderni come luogo di affermazione dell’uguaglianza dei diritti – secondo la sintesi operata dal magistero sturziano. Dalla consapevolezza delle tensioni irrisolte della politica, del “tragico” che la politica incontra e spesso produce, il suo rovello, persino quell’immagine di lui tormentata che osservatori superficiali e critici poco avveduti gli hanno appiccicato come una sorta di indelebile clichè, come ritornello degli “stenterelli” e dei “saltimbanchi” i quali possono credere che la riflessività sia indecisione. Qui sta invece la valenza più propriamente paradigmatica di un’intera biografia a maggior ragione paragone probante in un tempo di finzione, di metamorfosi della politica, in cui essa più che rappresentanza è rappresentazione e nel quale il potere resta opaco, mentre sovrabbondante, persino osceno, è il rito esibitorio di personaggi senza qualità che, in quanto frutto di invenzione, ostentano il nulla di sé, sino al compimento della parabola “dal troppo della politica al suo tendenziale niente”, come Martinazzoli spesso è andato denunciando. Di contro invece il recupero e la valorizzazione della continuità di una tradizione – da Sturzo a De Gasperi a Moro – comparata ai tempi nuovi della “cristianità perduta” come direbbe Pietro Scoppola, un maestro insigne di vita e di pensiero, con cui Martinazzoli ha avuto molteplici dissonanze, soprattutto in relazione alla prospettiva bipolare, riproponendo  valorizzazione del “centro”, non come luogo geometrico equidistante da Destra e da Sinistra, ma come cultura della moderazione degli interessi- una moderazione non certamente innata, ma frutto di paziente educazione - in antitesi al moderatismo, alla neutralità, allo spirito conservatore,  ed affermazione di valori personalistico-comunitari – in primo luogo una correlazione virtuosa tra politica e vita in un mondo “non tanto secolarizzato, come spesso si dice, ma più esattamente profanato”. In un mondo ove, caduti per fallimento i regimi totalitari, vengono imponendosi ragione calcolistico-strumentale e “pensiero unico” come forme di nuova totalizzazione olistica. In effetti

“C’è – ammonisce Martinazzoli - una grave ambiguità nella speranza che la politica pretende di elargire agli uomini. E questa ambiguità consiste nel dissimulare la circostanza della singolarità e irripetibilità del rapporto che ogni uomo contrae con la sua vita e con la solitudine della sua morte. Ora l’unico modo di illimpidire questa opacità consiste nell’intendere che il compito della politica deve essere prima di tutto rivolto piuttosto che alla congettura di un bene troppo alto, alla riduzione di un male, di una brutalità (….). La politica conta, ma la vita conta più della politica. Questa posizione anti ideologica, questo rifiuto di sottomettere alla plasticità della politica tutto il sentimento, tutta la libertà, tutte le tribolazioni e tutta la ricchezza irripetibile della vita, costituisce (…) il grumo di verità sul quale possiamo contare alla fine di un secolo che ha conosciuto le devastazione di una pretesa politica illimitata. Ma la questione di adesso è se il tramonto delle ideologie non coinvolga il tramonto della politica”.

Una politica che rischia di diventare – questa la preconizzazione – “un’intollerabile mistica senza religione”. Si percepisce qui netta l’eco della critica ad opera della tradizione cattolico-liberale dei miti del perfettismo  -  da Antonio Rosmini a Giuseppe Capograssi –, nonché il recupero, aggiornato criticamente agli sviluppi recenti delle ideologie oggi imperanti dell’anomia individualistico-appropriativa, della polemica anti totalitaria propria delle correnti cattoliche democratiche e liberal-socialiste della prima metà del secolo. Un recupero cui si accompagna, sulla scia di grandi maestri quali Norberto Bobbio e Isaiah Berlin, un’insistita sottolineatura della funzione civilizzatrice delle istituzioni pubbliche a partire – parallelamente ad uno svolgimento teorico-politico non sempre rettilineo da parte cattolica – dallo Stato moderno. Non senza una preliminare avvertenza che prende le mosse da uno scambio epistolare con il filosofo torinese, scambio attraverso il quale Bobbio, inviando a Martinazzoli il suo libro Elogio della mitezza ed altri scritti morali, esprime la propria convinzione secondo la quale “la mitezza non (è) un elemento della politica”. Ebbene nel leggere quelle pagine Martinazzoli, constatando “che Bobbio spiega come la mitezza è il contrario dell’abuso”, si rafforza nella propria idea “che sarà rara, ma occorrerebbe aumentarla la presenza della mitezza perché la politica ha a che fare con la capacità di impedire l’abuso del potere”. Torna dunque insistito il tema del limite della politica, di una pratica mite non perché arrendevole o inconsapevole della dimensione machiavellica del potere, della forza, persino della coercizione, ma perché riconosce il proprio limite che non le consente di esser invasiva, di occupare sfere che non le appartengono nè le competono, tanto del vivere quanto del morire, dunque inabilitata ad esprimere, a dare rappresentanza alla totalità della coscienza di ciascuno. Limite della politica da un lato, dall’altro riconoscimento, a partire dalla lezione morotea, della fluidità sociale – una realtà, dunque, in continuo movimento, non riconducibile a schematismi, sempre aperta a nuovi sviluppi – e insieme della necessità di definire, da parte della politica, un ordine, non come restaurazione nostalgica di un equilibrio perduto, ma come disegno, progetto, impegno a stabilire, in una società sempre più intersecata, mossa ed esigente, un equilibrio nuovo capace di comprendere piuttosto che di escludere. È dalla confluenza di queste polarità – soggettività politica e oggettività del sociale – che Martinazzoli tematizza la questione del potere e dello Stato. Vale a dire del potere o della libertà, dello Stato o della regola. La riflessione procede dalla dissociazione propria della modernità tra diritti della libertà e poteri della libertà.

“Oggi – più che mai - è cruciale il tema della libertà. Della libertà della persona. Per la ragione che nella società moderna all’individuo competono tutti i diritti della libertà, ma tutti i poteri della libertà tendono ad appartenere sempre più al gruppo, all’ organizzazione, alla corporazione, alla burocrazia ed io credo che solo qui – in questa sorta di liberazione della libertà – si può dispiegare il recupero della responsabilità e del dovere e dunque la possibilità stessa di ulteriore sviluppo dello Stato sociale”.

La politica ha, dunque,  senso se reca in sé l’ambizione di una liberazione umana, ma deve riconoscere che non c’è liberazione senza libertà, senza una regola di libertà. La seconda anta della riflessione di Martinazzoli, quella più dilemmatica, che tocca il nocciolo duro costituito dall’interpretazione dello Stato, di nuovo s’incontra con la lezione di Moro e con i suoi evolutivi sviluppi. A proposito dello Stato  infatti  Moro ha teorizzato che “sembrerebbe giusto che il cristiano debba partire in lotta”, in quanto “il dominio necessario della forza, e sia pure della forza del diritto, sembra condurre almeno ad una esteriorità minacciosa della più profonda intimità umana”.  Pur tuttavia lo statista democristiano assassinato dalle Brigate rosse,  nelle sue Lezioni di filosofia del diritto teorizza pure il “farsi umano dello Stato”. Qui Martinazzoli – il riferimento è alla Relazione tenuta al convegno di S. Pellegrino del 6 settembre 1984 -  procede dall’assunto che “lo Stato democratico non è lo Stato che avvilisce; è lo Stato che arricchisce la qualità umana della società. Lo Stato non è altro dalla società. È la sua regola”. Alla base sta l’esigenza di un’ integrazione reale, non puramente simbolica, nonché l’attribuzione allo Stato di un dovere di “inesausta comprensione”,  di autentica e dinamica capacità rappresentativa “in un ancoraggio non revocabile al metodo democratico – parlamentare che lascia tutto il resto perennemente in gioco”.   Ancora: agisce in Martinazzoli un ulteriore richiamo a Moro, al Moro di un editoriale di “Studium” del 1947, secondo il quale “c’è un valore che lo Stato ha in se stesso, una straordinaria efficacia del vincolo di solidarietà che in esso e per esso si stabilisce”. È questo il viatico per una sorta di rovesciamento delle teorizzazioni  volte a perseguire la liberazione dallo Stato, teorizzazioni cui lo stesso Moro sembra aderire in un  notissimo  discorso alla Costituente nel quale richiama, fissando un punto centrale dell’elaborazione cattolico-democratica, la precedenza della società rispetto allo Stato. Un viatico che porta Martinazzoli a sostenere come “per questa strada diventerà sempre più salda e transitiva la visione del  rapporto società-Stato e si chiarirà che lo Stato non modifica, ma arricchisce la società” e che infine – questa la conclusione perentoria, persino  apodittica –“ non può esistere società senza Stato”. Restano a questo punto da chiarire ancora due svolgimenti, il primo compiuto, il secondo soltanto ipotizzato. Come ha avuto modo di sottolineare acutamente Ilario Bertoletti, in Martinazzoli perspicua era la consapevolezza del carattere artificiale dell’agire politico, consapevolezza ereditata da una tradizione di pessimismo antropologico di lontana ascendenza, largamente interiorizzata dal leader bresciano, secondo la quale non per natura l’uomo sa convivere pacificamente e virtuosamente. Questa artificialità mette in tensione perenne, sempre irrisolta, forse irresolvibile, una nozione tutta procedurale della democrazia ed una visione che, pur riconoscendo l’esigenza ineludibile della regola, raccorda la democrazia a valori e fini di libertà e di progresso, non essendo sufficiente a delineare, cogliere la natura del principio   democratico, una pura descrizione storica del suo sviluppo, come esito di un costante processo di separazione della politica dalla religione, dello Stato dalla Chiesa, del mercato dal potere statuale, della legislazione dall’amministrazione, dell’attività giudiziaria dal comando dell’esecutivo. L’attenzione dell’ultimo Martinazzoli - per lui non solo un rompicapo intellettuale, ma un rovello etico -, attenzione che nel suo proposito avrebbe dovuto tradursi in un libro dedicato al noto paradosso di Ernst Wolfgang Böckenförde secondo il quale “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire”, si volge all’interrogativo circa le risorse morali della democrazia e i fondamenti antropologici della politica. Sullo sfondo la consapevolezza che nella contemporaneità ideologia, etica, antropologia sono venute via via costituendo l’impalcatura sulla quale regge la politica. Come ha testimoniato lo stesso Bertoletti: in che modo garantire le libertà plurali dei singoli quando la libertà viene sempre più univocamente intesa come arbitrio, privilegio, licenza, immunitas non come garanzia liberale, ma come prerogativa riservata a pochi, come coltivazione, senza limiti o responsabilità verso l’altro del proprio personale interesse, come negazione della prossimità, come libertà dei pochi che si ribalta in illibertà dei molti? Questo l’enigma teorico, politico-sociale che Martinazzoli avrebbe dovuto districare in un saggio dal titolo, emblematico per lui, Malinconia della democrazia, quasi a simbolizzare problematicità e caducità dell’odierna democrazia alle prese con ecatombe della politica, volontà di potenza dell’economia,  della finanza e dominio della tecnica. Per l’“impolitico” Martinazzoli il problema di sempre e di una vita – il rapporto verità, etica, politica – reso ancor più complesso, carico di tensioni dalla circostanza che “oggi tiene il centro della scena e sembra dominarla un impotente crepuscolo” per cui – ed è questo l’approdo di un’autentica fede cristiana– non resta che aleggiare, contra spem, una, per quanto tenue, speranza, “la speranza umana cui il nostro stigma cristiano dà amore e valore”.


6. Va riconosciuta un’indubbia continuità nel segno della coerenza tra il Martinazzoli “impolitico” che pensa la politica e il Martinazzoli leader di partito che la agisce, pur mantenendo con essa un rapporto controverso, sino alla fase conclusiva della sua parabola, compresa – già si è detto – tra la candidatura vincente a Sindaco di Brescia del 1994 e la sconfitta alle elezioni a presidente della Regione Lombardia  nel 2000, allorquando affronta “l’ultima curva”, in una sorta di “corsa contro la morte politica”, come egli stesso rievoca ad Annachiara Valle, il suo ultimo impegno quando da tempo, per altro, si sente una specie di “apolide” della seconda repubblica, quasi una sorta di sopravvissuto della schiera innumerabile dei “sommersi”. Se si esclude la parentesi amministrativa che segna il passaggio di una scelta coraggiosa e lungimirante – l’anticipazione dell’intuizione prodiana dell’”Ulivo” da un lato, dall’altro la riconferma di Brescia come laboratorio politico nazionale, così com’era stato nell’occasione del varo, nella prima metà degli anni ’60, di maggioranze di centro-sinistra e della sperimentazione di convergenze programmatiche aperte al contributo degli esponenti del Pci alla metà degli anni ’70 – sono indubbiamente per lui le stagioni di una sconfitta politica, di cocenti smentite. Resistenza al bipolarismo dopo l’epoca del pluripartitismo polarizzato; ipostatizzazione della categoria del centro politico non solo come fatto culturale teso a definire la politica come soggetto titolato alla composizione mediatoria, alla moderazione pattizia, al temperamento degli interessi, ma come leva aggregante di umori, di propensioni, di attitudini, di costumi, oltre che di formazioni politiche; critica ai partiti post-identitari e culturalmente plurali; permanente perorazione, più che rimpianto o nostalgia, di un partito prevalente di riferimento per i cattolici italiani, pur sempre nel quadro di una rigorosa laicità: sono questi i tratti caratteristici che definiscono l’ispirazione, lo spettro culturale che anima l’iniziativa politica di Mino Martinazzoli nella stagione post democristiana. La laicità resta comunque un perno obbligato. Da qui la contrarietà ad accettare un rapporto tra fede e politica inteso come obbligo a calare meccanicamente, attraverso l’uso del potere, le persuasioni etico – religiose nella definizione normativa delle regole della convivenza civile. Ancor più: la laicità diventa una misura non solo della democrazia e dello Stato pluralista, ma dello stesso giudizio espresso a proposito della presenza dei cattolici nella vita del Paese.

“L’aggettivo cattolico non è un aggettivo del politico. È più importante, è un aggettivo dell’impolitico. In politica il mondo cattolico non c’è. In politica ci sono i cattolici che scelgono di occuparsene, quelli che scelgono di non occuparsene e ci sono quelli che se occupano in un modo e altri in un modo diverso. E si qualificano così non perché sono cattolici”.

Insomma sul piano storico la convinzione che nella vicenda italiana abbiano avuto un ruolo e un peso, siano stati per lunghe fasi determinanti non i cattolici impegnati in politica in nome dell’Italia cattolica, ma coloro che hanno assunto responsabilità in quanto cattolici in Italia. Una valutazione che sul piano politico assume conseguentemente il valore di una prescrizione. Ma vediamo pure da vicino, per quanto in rapida sintesi, gli snodi più significativi, dall’assunzione della segreteria democristiana allorchè “più che per acclamazione”, viene eletto per “disperazione”, alla fondazione del Ppi sino all’ultima battaglia sostenuta in Lombardia. È ancora Moro ad essere periodizzante per Martinazzoli: la sua fine rappresenta la cesura di un intero tracciato, pone termine alla fase in cui è ancora data la possibilità di giungere al riconoscimento reciproco da parte dei grandi partiti popolari, della legittimazione a governare, inaugurando per la Dc anni di pura sopravvivenza prima e poi di progressiva decadenza, privandola di una politica all’altezza di una visione, di un disegno, di una durata. Ancora: diventa sì possibile l’alternanza, ma senza partecipazione, senza prospettiva strategica, quell’alternanza che è pienezza democratica, ma che viene raggiunta – ed è fenomeno di non breve periodo – attraverso l’antipolitica. Questa la diagnosi di Martinazzoli :  “Volevamo un cambiamento che desse più spazio alla società, più equità ai cittadini, che ridefinisse le regole, la moralità, l’autorevolezza dello Stato democratico”, di contro ad una Dc che, nella fase del “preambolo”,  si è ridotta ad un partito che “passa sempre più le giornate a contare le tessere e la sera a commentare le encicliche”, riducendosi “quasi ad un cimitero”. Questa, in definitiva la proposta per la Dc nella fase del suo epilogo, la possibilità, anzi il dovere “di essere più democristiani di prima”, “meno il nostro potere più il nostro progetto”, un partito che, liberato dalla damnatio gubernandi potesse finalmente autenticare la propria missione sulla base di una durata veritiera e permanente dell’ispirazione cristiana. Dunque un’idea rinnovata di partito retto sul volontariato degli iscritti, su di un alto grado di mobilitazione e responsabilità personale di militanti e dirigenti, in rapporto ad una competizione politica collocata sul terreno della appetibilità della proposta programmatica, anziché su quello delle pratiche di lottizzazione, di tessitura di compromessi e transazioni. In definitiva un “partito programma”, “progetto vivente”, d’ impronta neosturziana, anziché un “partito sistema”. “Io sono un democristiano – dichiara- interessato al superamento del cosiddetto sistema democristiano”. La nascita del Ppi rappresenta, dunque, non solo la testimonianza comprovata che “non siamo scomparsi e non siamo dissolti”, ma anche “un punto di resistenza”, un “fatto nuovo” il cui fulcro dovrebbe consistere “nel pensiero di una libertà solidale”. Secondo un’idea del tutto originale, quanto autentica, dell’essere solidali.

“La solidarietà umana – già aveva sostenuto all’indomani della sua investitura a segretario Dc – sarà sempre di più non tanto una disponibilità a dare, magari il superfluo, ma dovrà divenire sempre di più una disponibilità ad essere. Essere questa sensibilità, questa idea di storia umana, di obbligazione, di appartenenza ad un rosario infinito di creature”, un’obbligazione “che ciascuno di noi contrae e non solo con i viventi, ma con quelli che hanno camminato e con quelli che cammineranno sullo splendore e sul dolore della terra”.

Un partito all’opposizione che, dopo la vittoria riportata dal Polo della libertà e del buon governo, intende distinguersi dalle altre opposizioni, nè confondersi o illanguidirsi nel polo progressista perché, “allo stato delle cose la Destra si può sconfiggere solo con un’opposizione di centro”. Di fronte a Berlusconi e al suo partito, “una simil democrazia cristiana più dorotea che cristiana, un partito di massa più d’ordine che liberale (…) con gli ammodernamenti del caso, comprese le nuove radici delle antenne televisive e l’irresistibile narcisismo della leadership”, Martinazzoli ribadisce che “solo il popolarismo è l’antidoto per costruire una democrazia moderna dove il cittadino non si senta solo, ma in solidarietà con gli altri”. Come siano andate le cose è a tutti noto: il 30 marzo del 1994, con un fax, un gesto certamente impolitico, rassegna le proprie dimissioni, non una fuga, un abbandono, tantomeno una diserzione, piuttosto, come scrive su “Il Popolo” il giorno dopo, “poiché gli insuccessi elettorali portano inevitabilmente all’indugio sui processi delle responsabilità è bene che queste siano riconosciute e rispettate. Così è serenamente avvenuto, Per fedeltà.” Al di là della lezione di stile del tutto inusuale nel panorama politico, gioca nella scelta di Martinazzoli la consapevolezza di divaricanti, contrastanti valutazioni all’interno del Ppi, e nella stessa area cattolica, circa il significato da attribuire all’esito delle consultazioni – per taluni il preannuncio di una fine, per lui il cominciamento di un nuovo inizio –, nonché al ruolo da assegnare alla forza elettorale che il partito ed il “Patto per l’Italia” hanno riportato alle consultazioni.

“Quando mi resi conto (…) che le voci, non tutte per fortuna, ma troppe, delle persone che da me erano state avvalorate nella gestione del partito, si levavano per interpretare il risultato elettorale in termini di sconfitta o addirittura di disfatta, io ho percepito che se fossi rimasto là non sarei stato comunque in grado di dare una mano”.

Dirimente resta comunque la questione delle alleanze come risultanza dell’interpretazione da annettere alla vocazione centrista del Ppi. Martinazzoli non condivide l’ineluttabilità dell’evoluzione in senso bipolare del sistema politico;  c’è, a suo giudizio, un fraintendimento di fondo in questa prospettiva di cui, da parte cattolica sul piano politico-culturale, si fa corifeo Pietro Scoppola. La polemica si arroventa lungo le linee di una contesa non certo attestata esclusivamente sul piano del giudizio  storico.

“Mi sembra di capire che questo è vero nella tradizione anglosassone, ma non è per niente vero per le grandi democrazie continentali europee (…) e se Scoppola spiega che dobbiamo accettare di fronte all’elettorato un ruolo di parte nella dialettica democratica, dico che in questa esortazione vi è una vecchia idea del centro che non è la mia”.

L’impostazione martinazzoliana, certamente non equidistante da Destra e da Sinistra secondo la lezione degasperiana della Dc “partito di centro che cammina verso sinistra”, come documenta per altro lo schieramento che lo sorregge di lì a poco nella candidatura a Sindaco di Brescia, vale sia nei confronti del Pds, verso il quale comunque “non potremo far rivivere una preclusione di principio che significherebbe la sopravvivenza di una storia oltre se stessa”, al di là del fatto che gli ex comunisti pretendono “di aver ragione di aver avuto torto”, e sostengono che “non sono più quelli che sono stati in passato, ma non sono in grado di dire ciò che sono oggi”, sia verso Forza Italia, un partito di “scassinatori del consenso” i quali si avvalgono di “alcune denominazioni ripetute ossessivamente (….) ed utilizzate come talismani”,  nonché del “potere più forte che è quello della menzogna”. Nè più indulgente è il giudizio nei confronti della Lega di Umberto Bossi, definito agli inizi della sua carriera politica, un “Paneroni della politica” vale a dire, per chi non conosce la vicenda di questo bresciano, “geografo” ciarlatano e visionario, un venditore di chiacchiere e di fumo.

“Quando sento un autorevole esponente della Lega spiegare che allo stesso modo come hanno fatto un’alleanza di là, potevano farla di qua, allora mi dico: questa è la borsa, non è la politica, è il linguaggio del Mibtel, del chi ha comprato chi, del chi ha venduto cosa.” E ancora: “non possiamo incontrarci con la provocazione della Lega che rappresenta esattamente la presunzione della nostra sconfitta politica e la pretesa del nostro fallimento ideale”.

Su questo centrismo non statico, ma dinamico, attivo, dialogante a sinistra,  pur nella permanenza di riserve  critiche  - un centro inteso come luogo di sintesi politica tra costituzionalismo liberale e riformismo sociale -  tenacemente sostenuto  anche nel tempo successivo al ritiro dalla politica militante, Martinazzoli si attesta senza deflettere, convinto che la sua più,  che un’ impossibile scommessa, sia “una verità”, tutt’al più “forse prematura”, adducendo motivazioni del tutto coerenti con il percorso compiuto. In proposito potrei addurre più di una testimonianza personale. Valgano comunque le sue ragioni. Così, ad esempio, motiva la sua candidatura a Brescia:

“Gli amici del Pds non sono venuti a chiederci dei voti. Erano infatti in grado di presentarsi da soli con una candidatura autorevole. Sono venuti invece a dire che assegnavano al Ppi un ruolo maggiore dei consensi che esprime. Questo è un riconoscimento del centro (….), di una polarità dei popolari”.

Una valutazione che anni dopo viene ribadita e confermata di fronte all’ipotesi di un “partito dell’Ulivo” cui Martinazzoli nega un fondamento comune ed una cultura unificante poiché la forza dell’”Ulivo” in quanto “alleanza politica di governo” sta, invece, a suo giudizio, “nella ricchezza delle sue diversità, non in un appiattimento conformistico destinato ad essere egemonizzato da una Sinistra che rifiuta il suo passato senza disporre di una idea precisa del proprio futuro”. Espressioni che per altro, al di là della retorica, della stessa leggenda diffusa ed alimentata da taluni all’indomani della scomparsa di Martinazzoli, fanno giustizia di una strumentale quanto del tutto improbabile attribuzione a lui di una sorta di demiurgico ruolo di “precursore” o addirittura – sino a questo punto qualcuno si è inoltrato – di “uno tra gli artefici del Partito democratico”. Partito nei cui confronti Martinazzoli mai è stato tenero od omissivo di critiche anche perentorie e assai dubitative di una probante plausibilità.

7. Inattuale Mino Martinazzoli e da archiviare il suo pensiero, la sua presenza politica, tutt’al più da consegnare alla futura ricerca degli storici? L’interrogativo potrebbe apparire retorico. In realtà sopite le emozioni e consumato il cordoglio per la morte – un cordoglio vissuto in termini di corale partecipazione e contrassegnato da diffusa stima, a partire da Giorgio Napolitano, un cordoglio per altro non esente da camaleontiche mimetizzazioni -, resta l’impegno di un bilancio in grado di esorcizzare la disposizione alla smemoratezza e l’attitudine alla rimozione che contrassegnano il discorso pubblico nel nostro Paese. In gioco non sono naturalmente il rigore del personaggio, la statura intellettuale e morale, lo sguardo lucido e originale sulla realtà, la mitezza della sua fede, le indefettibili passioni culturali,  la stessa dignità del  silenzio  nel tempo doloroso della malattia, la preziosa lezione di stile nell’esercizio di un potere dal quale non si è lasciato certamente soggiogare, lezione che ha trasmesso ad un’opinione pubblica sottoposta a reiterati messaggi di distrazione, quasi naturaliter portata all’amnesia politica. Tutte le virtù di Martinazzoli, in effetti, segnano una distanza stellare dal costume ormai invalso, soprattutto in tempi di “velinizzazione” della politica – uno studioso ha addirittura scritto di “pornificazione” della politica che tracima nella vita quotidiana –, di deriva senza fine, di incivile regressione. Quel che oggi in realtà è in gioco è l’eredità politica, la preservazione del seme di una storia che, alle prese con onerosi ingombri e paralizzanti detriti, è del tutto in pregiudicato se potrà tornare, in un tempo meno inclemente, ad alimentare passioni ed impegno di una democrazia declinante, stressata, alle prese con la propria inesorabile stanchezza.
Oltre le apparenze ci sono comunque ragioni che durano - come diceva Martinazzoli – “ragioni che consentiranno al Paese di ritrovare il senno trasferito sulla luna”. Ciò vale anzitutto per l’eredità che il fondatore del Ppi lascia sul piano etico-politico, al di là del fatto che, al contrario di Aldo Moro il quale in lui ha trovato la prosecuzione ideale di un proficuo lascito, non sembrano profilarsi oggi personalità in grado di dare continuità al magistero e all’opera del leader bresciano. Questo per dire delle difficoltà di un’impresa. A ben guardare la scommessa è rappresentata dalla risposta all’interrogativo che investe l’attualità del cattolicesimo democratico di cui Martinazzoli è stato il volto più espressivo nell’ultimo ventennio. Vale a dire, per sintetizzare  la cifra di una tradizione, l’attualità  di quella coniugazione tra laicità e solidarismo che deve misurarsi con la portata delle rivoluzioni contemporanee, contro ogni integrismo antimoderno ed ogni forma di sacralizzazione delle religioni secolari, della nazione, della classe, dello Stato, compresa quella, oggi in voga, delle “libertà”.
Ebbene di contro alle teorizzazioni di esponenti politici e studiosi – ad esempio è il caso del forzista Gaetano Quagliariello e del democratico Aldo Schiavone che prospettano la fine ormai consumata di un’intera storia culturale e politica – compete a quanti alla tradizione cattolico-democratica si rifanno, testimoniarne e comprovarne il valore, per altro in un contesto fortemente problematico e in rapida evoluzione. Comprovarne cioè, nel segno ad un tempo della fedeltà e dell’innovazione, la capacità di contrastare – come suggerisce Guido Formigoni – una devastante mentalità tesa a promuovere identità esibite e a volte gridate, a consolidare una cultura individualistico-spiritualista senza attenzione per le dinamiche sociali, propensa, altresì, a sostenere “una logica antipolitica che svaluta la mediazione e la militanza ritenuta segno di semplice ambizione al potere, personale, per pochi professionisti”. Su questo piano forse Martinazzoli potrebbe finalmente incontrare il Pietro Scoppola de La democrazia dei cristiani, nella possibilità cioè che, al di là di improbabili riti di salvataggio ideologico e di tutele organizzative garantite, emerga non tanto una posizione ufficialmente cattolica in politica quanto l’opportunità per la fede cristiana di animare esperienze assunte in piena, consapevole, coerente responsabilità. Ed ancora, a livello più strettamente politico, non della battaglia ideale, ma della definizione delle forze in campo, degli schieramenti: si è detto della sconfitta di Martinazzoli nel ’94, della sua contrarietà alla bipolarizzazione, del tentativo non portato a compimento di alimentare la presenza di un Centro in grado di essere gravitazionale ed attrattivo anche in una stagione in cui – come ha opportunamente osservato Giuseppe Vacca -, ormai venuta meno era la funzione nazionale del cattolicesimo politico,  ed il tentativo di “inalveare il passaggio alla democrazia dell’alternanza in un rinnovato sistema di partiti di stampo più schiettamente europeo”  non si era realizzato, sino  ad un’accentuazione esasperata del disconoscimento reciproco fra i poli dello schieramento politico.
Certamente alla luce di un giudizio spassionato ed equanime, anche ripensando all’evoluzione di questi anni, va obiettivamente sottolineata la gracilità dell’interlocuzione pidiessina di allora, l’immaturità, fin quasi all’improvvisazione- “la gioiosa macchina da guerra”-, del gruppo dirigente post comunista che, perseguendo una strategia di bipolarizzazione tendenzialmente bipartitica, finiva col marginalizzare, secondo un disegno di malcelata ispirazione egemonica, la stessa presenza sulla scena di una formazione, come quella voluta da Martinazzoli, di un partito a radicamento popolare di ispirazione cristiana e democratica. Considerando altresì gli sviluppi successivi e gli altalenanti posizionamenti della strategia di Pier Ferdinando Casini, è possibile oggi, sine ira ac studio, riconoscere finalmente che la “resistenza” del Ppi e dei suoi alleati ha contribuito a rendere possibile la stagione dell’”Ulivo”, come ha onestamente sottolineato lo stesso Romano Prodi.  Così come in quel passaggio cruciale, che denunciava l’esistenza di un problema in seguito puntualmente riaffiorato e oggi ancora praticamente irrisolto – la presenza in Italia di componenti centriste prevalentemente cattolico-moderate, anche se non solo cattoliche –, può essere individuata l’erezione di una sorta di vallo di contenimento che, fissando argini al confine sulla Destra, ha impedito a Berlusconi, pur uscito vincitore dalle consultazioni elettorali di estendere la propria supremazia, il suo controllo egemonico sull’intera area moderata. Questo per dire che riserve ed obiezioni sollevate da Martinazzoli sullo sviluppo del sistema politico italiano, nonché gli interrogativi posti sulla presenza politica dei cattolici nel nostro Paese, non appartengono al passato di un’illusione, nè rimandano ad una pura evocazione nostalgica; che fare i conti con la sua vicenda ed esperienza significa, né più né meno, che misurarsi con la transizione del presente, con il futuro che si intende assegnare all’Italia. Certo non è immotivata la percezione di una sorta di “inattualità” di Mino Martinazzoli purché - vale per lui quanto egli stesso ha scritto a proposito di Aldo Moro – si riesca a “cogliere in questa ‘assenza’ il suono di una domanda che comunque tornerà ad essere pronunciata”.  In effetti, dopo tutto, possiamo giudicare come ognuno di noi ritiene, il percorso di Martinazzoli, ma non si può non riconoscere l’afflato di una perlustrazione, la lungimiranza di un’intelligenza, la limpidezza di una fede, la testimonianza resa lungo un’intera biografia. Sino alla fine, sino alla conclusiva, accorata e dolente perorazione:

“Parole senza pudore e senza qualità intasano la chiacchiera dei partiti. Le fattucchiere del politichese riempiono di nulla questa infelice stagione politica. Forse non vale la pena di entrare nel fuoco della controversia, che è un fuoco fatuo. Conviene chiedere soccorso alle risorse dell’ironia e della pietà. Ci aiutano a ritrovare la misura umana della politica e risarcire la sua incompetenza della vita”.

Appunto la vita – come a dire che il metro di misura della politica non si riduce al suo successo –, quella vita che l’”impolitico” Martinazzoli si è sforzato di ricondurre all’orizzonte senza confini della Verità.

La malafede di Formigoni e gli onorevoli del partito cattolico

Raniero La Valle

10 Ottobre 2011

Ha detto mons. Crociata, segretario generale della CEI, che “la Chiesa non fa i governi né li manda a casa”. Non è sempre stato così, ma è giustissimo oggi affermarlo. Tuttavia quando la Chiesa vuol mandare un messaggio forte dovrebbe evitare di farlo in modo che ciascuno ci possa vedere quello che vuole. Ad esempio è stato evidente a tutti che quando nella sua prolusione al Comitato permanente dei vescovi il cardinale Bagnasco ha denunciato i comportamenti contrari al pubblico decoro e intrinsecamente tristi e vacui su cui “si rincorrono” doviziosi racconti, quando ha lamentato la mancanza di misura, sobrietà, disciplina ed onore e i comportamenti licenziosi e le relazioni improprie di “attori della scena pubblica” che la collettività guarda con sgomento e che fiaccano pericolosamente l’immagine del Paese all’esterno, si riferiva al presidente del Consiglio: perché, per quanto ci siano peccatori, non ci sono oggi altri “attori della scena pubblica” che sono guardati con sgomento dalla collettività, che sono capaci di umiliare l’immagine del Paese all’estero, e sui quali “si rincorrono racconti” che rivelano “stili di vita difficilmente compatibili con la dignità delle persone e il decoro delle istituzioni e della vita pubblica”; né c’è altri che, per rimediare a tutto ciò, potrebbe essere “chiamato a comportamenti responsabili e nobili”, ossia ad andarsene, ciò di cui la storia stessa prenderebbe atto.

Naturalmente in questo identikit mancava il nome di Berlusconi, ma tanto è bastato ai patiti del premier per dire che l’accusa del cardinal Bagnasco riguardava tutti, e non poteva essere usata contro il presidente del Consiglio. C’è stata anche una citazione infedele – questa sì strumentale – delle parole del cardinale da parte di alti esponenti cattolici del PDL, da Formigoni a Lupi a Quagliarello, che in una lettera all’Avvenire attribuiscono a Bagnasco una critica ai giudici per un’eccessiva attività investigativa “nei confronti di un’unica persona quando altri restano indisturbati”, mentre il riferimento personale nel discorso del cardinale non c’era ed egli non aveva parlato di singoli imputati, ma dei diversi “versanti” su cui non ugualmente si eserciterebbe l’azione punitiva della magistratura.

La vicenda è incresciosa, perché troppo alta era la posta (rispondere all’ “attonito sbigottimento del Paese, all’ “oscuramento della speranza collettiva”, al “cinismo” rassegnato di “un Paese disamorato, quasi in attesa dell’ineluttabile”) per lasciare spazio alle ambiguità e al gioco interessato degli equivoci. Meglio sarebbe stato il “sì sì, no no” dell’ evangelo e dire che l’innominato coincideva con la presidenza del Consiglio. Del resto non si capisce perché la Chiesa ha il coraggio di dire nome e cognome dei preti pedofili, e ha perfino deposto vescovi dai comportamenti censurabili, ma poi non osa sollevare il velo che nasconde l’impuro sacrario del potere politico.

Un’altra cosa importante ha detto il cardinale Bagnasco in quel consiglio della CEI: che ai fini di una presenza riconoscibile ed “efficacemente organizzata” dei cattolici nella società, si sta lavorando a un nuovo “soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica”: cioè, se non si tratta di una Fondazione come quella di D’Alema, un partito.

Ma quale partito? Nei partiti i cattolici ci sono già, a destra e a sinistra, e sono riconoscibilissimi (basta guardare la Televisione); se poi si tratta di fare un partito tra destra e sinistra, di fattura quasi esclusivamente cattolica, questo partito c’è già, ed è inutile che i vescovi ci lavorino: è il partito di Casini e forse, se riesce a portarsi dietro un po’ di parlamentari del PDL, di Pisanu. Se la CEI vuole ora un altro partito (o un’altra “interlocuzione” con la politica) di marca cattolica, non può trattarsi che di un partito confessionale; i suoi membri sarebbero infatti lì riuniti in forza della loro confessione, e non delle loro idee politiche, e i suoi contenuti sarebbero anzitutto quelli che la Chiesa presenta loro come “non negoziabili”, che però un partito o dovrebbe negoziare o dovrebbe imporre, scordandosi democrazia e laicità. Ma questo non va troppo d’accordo con il monito che negli stessi giorni Benedetto XVI rivolgeva ai cattolici tedeschi, quando diceva loro che il vero problema della Chiesa è di “distaccarsi dalla mondanità del mondo” e che questo riguarda anche i discepoli di una Chiesa “demondanizzata” e “liberata dal suo fardello materiale e politico”.

Ciò vuol dire che il problema di una efficace presenza dei cattolici “per rendere politicamente più operante la propria fede”, si pone in tutt’altro modo. Prima di tutto nel pluralismo, perché pluralistica è la società e molteplici sono le percezioni del bene comune e le vie per conseguirlo. Poi con responsabilità propria e senza rinvii ad autorità superiori; ma tutto questo è già spiegato nella Gaudium et Spes.

C’è però un problema specifico per l’Italia: questo pluralismo, e perciò anche quello dei cattolici, non è possibile nell’attuale sistema bipolare. Se tale sistema dovesse perpetuarsi, la Chiesa mal sopporterebbe che i cattolici non stiano tutti dalla stessa parte; e quelli che non ci stanno, nella riaffiorante tentazione dell’unità politica dei cattolici, soffrirebbero di una emarginazione come cristiani. Ci vuole invece pluralismo, sistema rappresentativo e proporzionale; allora i cattolici ci potrebbero essere, in vari modi, perfino con una “Sinistra cristiana”.

Una voce unitaria per i cattolici

La sfida dopo il seminario di Todi

Natale Forlani

da Corriere della sera Idee & Opinioni - 3 Novembre 2011

Caro direttore, le aspettative mediatiche suscitate intorno al tema della possibile rinascita di un partito cattolico hanno sviato l' attenzione rispetto alle vere novità emerse nel seminario promosso dall' associazionismo di ispirazione cattolica che si è tenuto a Todi. Era dall' inizio degli Anni 70 che non si teneva, per iniziativa dei laici, un incontro di questa portata: 16 tra associazioni nazionali del lavoro e dell' impresa, movimenti religiosi, reti ecclesiali, 8 fondazioni culturali o di origine bancaria, 40 esponenti di rilievo del mondo accademico. Un lungo periodo che ha registrato fratture, anche di orientamento politico nell' associazionismo sociale, un rifiorire di movimenti religiosi e di organizzazione del volontariato, non di rado distanti, o diffidenti, verso la politica. La voglia di ritrovarsi è stata il frutto di molte concause: i ripetuti appelli delle gerarchie ecclesiali all' impegno politico dei cattolici, la crescente insoddisfazione verso il degrado della politica e, soprattutto, la convinzione di vivere un tempo di cambiamenti straordinari, che sollecitano i credenti non solo alla testimonianza sui valori irrinunciabili, ma al dovere di declinarli più compiutamente, anche nel campo sociale e politico. Questa evoluzione, auspicata dal Manifesto ispiratore di Todi «La buona politica per il bene comune» ha portato i protagonisti a condividere una comune visione della politica prossima ventura, ispirata alla dottrina sociale della Chiesa e centrata, in particolare, sull' esigenza di riorganizzare i rapporti tra Stato, economia capitalistica, società civile. Il vincolo della riduzione del debito pubblico pone seriamente il problema di come rigenerare nuovi motori di sviluppo e di coesione sociale, abbandonando l' idea che il conflitto sociale sia, di per sè, fonte di progresso. E rafforzando, in alternativa, la cooperazione tra finanza, imprese, lavoro, come condizione per favorire investimenti e occupazione. Rende necessario accelerare il passaggio dal Welfare State alla Welfare Society per mettere in condizione le persone e le famiglie di affrontare la mobilità lavorativa, la cura dei figli e dei non autosufficienti, e di sostenere, come attori primari, una domanda di beni e servizi, anche relazionali, riscontrata da un' offerta di qualità prodotta da organizzazioni efficienti, ma non necessariamente aventi scopo di lucro. Reddito, occupazione, benessere dipenderanno dalla nostra capacità di ripensare le istituzioni, l' economia capitalistica, e quella civile, nell' ambito di una sussidiarietà circolare che incentivi le iniziative, personali e collettive, che generano benefici pubblici. La politica che abbiamo conosciuto in questi anni: facili promesse, accompagnate dall' idea che lo Stato, e la spesa pubblica, fossero in grado di soddisfare le aspettative più disparate, e che ha favorito l' azione dei gruppi organizzati a danno dei soggetti più deboli, non è in grado di guidare questi cambiamenti. Il Manifesto di Todi propone un cambiamento nel modo di interpretare la politica: aprire lo spazio alla partecipazione democratica che esprima valori, ideali, ricerca di nuovi modelli, responsabilità diffuse, classi dirigenti competenti ed esemplari. Non delimitato alle istituzioni pubbliche, chiamate, in questo contesto, a produrre visione, a recuperare autorevolezza nelle relazioni internazionali. Come costruire questa nuova offerta politica? Lo stereotipo della ricostruzione velleitaria di una nuova Democrazia cristiana è stato utilizzato anche per screditare l' iniziativa di Todi. Ma è una discussione rimasta al di fuori delle porte del seminario. Le rappresentanze sociali e dei movimenti religiosi sono un potente bacino di persone, idee, passioni, reti sociali fiere della loro autonomia. Ma non rappresentano, neppure in embrione, un potenziale contenitore politico che si avvicini al loro rilevantissimo peso associativo. Possono essere portatrici, nel contempo, di una domanda di cambiamento, e di capacità di tradurla in opera, in moltissimi ambiti della vita economica e sociale, a patto di sapersi rinnovare anche nelle loro specifiche missioni. Per influenzare i processi politici, i programmi, la formazione delle rappresentanze, è necessario avviare un produzione culturale e politica, inventare nuovi linguaggi, essere in grado di rispondere ai bisogni e alle aspettative diffuse. Solo questo percorso può consentire di rielaborare il radicamento sociale in consenso politico e renderlo disponibile per alleanze più ampie. Questo lavoro richiede l' organizzazione di un soggetto unitario di interlocuzione con la politica in grado di influenzare i mutamenti della rappresentanza. Senza l' ambizione di costruire un partito, ma non indifferente rispetto alle posizioni assunte dalle forze politiche. L' arroccamento in atto sulle rendite di posizione della Seconda Repubblica non durerà a lungo, perché condizionato dai ben noti ed operanti vincoli esterni. I vuoti di potere, che possono produrre disaffezione e ribellioni, andranno riempiti con una nuova offerta politica. Allora si comprenderà l' importanza del lavoro intrapreso a Todi. E saranno molti, tra coloro che adesso lo criticano, difendendo le rendite del bipolarismo inconcludente, a cercare questi interlocutori, per recuperare il terreno perduto. Portavoce delle associazioni di ispirazione cattolica del mondo del lavoro.

Tresere

Temi sociali

Faenza

27 Gennaio - 24 Febbraio 2012

 

Ore 20:45 - Sala S. Carlo
Piazza Xl febbraio (cortile interno)

 

 

 

  • Venerdì 27 gennaio
Impegnarsi da cristiani per il bene comune della città: motivazioni, sfide, proposte...
Relatore: don Antonio Sciortino - Direttore del settimanale «Famiglia Cristiana»
  • Venerdì 10 febbraio
Una responsabilità in esercizio per il bene comune
Relatore: Beatrice Draghetti - Presidente della Provincia di Bologna
  • Venerdì 24 febbraio
Lo straniero tra noi: tra diffidenza e accoglienza
Relatore: don Daniele Simonazzi - Parroco di Pratofontana, cappellano dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Reggio Emilia
 

Organizzata da

Azione Cattolica Italiana

Centro di Pastorale Sociale

Diocesi di Faenza-Modigliana

Fondazione Giovanni Dalle Fabbriche

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