Chiesa e Magistero

Sull’assemblea “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” del 15 settembre

rif. Dossier: Concilio Vaticano II

Aldo Maria Valli

Settembre 2012

Spesso parliamo del popolo di Dio ma fatichiamo a vederlo concretamente. Dove sta? Com’è composto? Che cosa spera? Che cosa teme? Altrettanto spesso all’immagine di popolo di Dio si sovrappone l’immagine della Chiesa istituzionale e gerarchica, che nasconde i volti delle persone con i volti del potere e i tratti dell’organizzazione burocratica. Sabato 15 settembre 2012 a Roma, all’auditorium dei gesuiti dell’Istituto Massimo, il popolo di Dio si è invece visto in tutta la sua consistenza. All’incontro Chiesa di tutti, Chiesa di poveri (dove erano attese circa quattrocento persone e ne sono arrivate il doppio, da ogni angolo d’Italia) non è avvenuto nulla di eccezionale: non ci sono state manifestazioni eclatanti, non sono risuonate parole d’ordine e nessun personaggio si è impadronito della platea. C’è stato, semplicemente, un confronto fraterno tra persone unite da una fede e da una passione. La fede nel Cristo dei poveri e degli oppressi, la passione per la giustizia e per la Chiesa del Concilio Vaticano II. Dalle dieci del mattino alle sei di sera il confronto è andato avanti sereno, serrato, sincero. E alla fine il popolo di Dio è tornato alle proprie case rinfrancato, non esaltato, non sovreccitato, ma semplicemente consolato da tanta partecipazione e da tanta condivisione. E ancor più determinato a proseguire nel cammino.

Sul palco non c’erano monsignori di curia, vescovi o cardinali. Non ce n’erano neppure nella prima fila dell’affollatissima platea, come di solito succede nei convegni organizzati dalle strutture ecclesiali. Né c’erano politici o altre autorità. Non si sono viste auto blu né tonache nere filettate di rosso. Qualcuno ha lamentato la mancanza di telecamere, ma in fondo è stato meglio così, perché il clima di familiarità ne ha guadagnato. Promosso da decine e decine di realtà cristiane che si spendono quotidianamente nel mondo, in mille forme diverse, nello spirito della Gaudium et spes, condividendo sogni e paure, speranze e angosce degli uomini e delle donne del nostro tempo, l’incontro ha preso ispirazione dal cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio, ma soprattutto è stato esso stesso un momento conciliare.

Le parole con le quali Giovanni XXIII aprì il Concilio, Gaudet Mater Ecclesia, sono risuonate più volte, specie nella relazione introduttiva della teologa Rosanna Virgili, e hanno fatto da sfondo all’intera giornata: anche nel momento della critica e della contestazione, l’orizzonte è rimasto quello della fiducia e della gioia. Nessuno ha parlato “contro”. Ogni parola è stata spesa “per”. Per una Chiesa veramente dei poveri e con i poveri. Per una Chiesa del Vangelo. Per una Chiesa “sciolta”, come amava dire il cardinale Martini. Per una comunità di fedeli adulti, obbedienti stando in piedi, come diceva Scoppola.

Grazie all’inquadramento storico di Giovanni Turbanti e all’analisi di Carlo Molari sulle diverse interpretazioni del Concilio, è stato possibile impostare il confronto su basi solide. La riflessione di Molari sull’idea di tradizione, in particolare, è stata efficace e piena di spunti bisognosi di ulteriori approfondimenti. L’idea di tradizione uscita dal Concilio, come realtà vivente e come processo (si veda la Dei Verbum, 8)  merita di essere meditata nel momento in cui dentro la Chiesa cattolica si assiste all’offensiva, non soltanto da parte dei cosiddetti tradizionalisti, di chi vede nella tradizione l’immobilità e l’immutabilità (Semper idem era il motto del cardinale Ottaviani, grande oppositore dello spirito conciliare). Ma l’incontro, soprattutto, ha evitato di cadere nella disquisizione accademica circa le diverse ermeneutiche (continuità o rottura?), preferendo dare come asserito che nel Concilio ci fu sia la continuità sia la rottura, sia la riaffermazione delle verità fondanti sia la necessità di proporle meglio, più genuinamente e più efficacemente, in relazione ai nuovi tempi. Nello studiare un Concilio che Giovanni XXIII volle pastorale e non dogmatico sarebbe veramente un controsenso alquanto bizzarro, mezzo secolo dopo, arenarsi attorno a una questione che rischia di cadere nel formalismo.

Il Concilio lo si capisce e lo si interpreta a partire dai mondi vitali, non dalle formule, e sono stati proprio i mondi vitali a fare irruzione nel convegno con tutta la loro carica di verità, spesso sofferta. Come quando è intervenuto il padre Felice Scalia, apprezzato da tutti per la sua sincerità nel delineare il dramma attraversato dalla Compagnia di Gesù, visto che per alcuni dei suoi membri la fedeltà al Concilio e lo schierarsi con i poveri ha voluto dire da un lato andare letteralmente  incontro al martirio e dall’altro affrontare la spaccatura con la gerarchia. E ugualmente appassionato è stato l’intervento del rappresentante di un gruppo che riunisce omosessuali cristiani.

Se dom Giovanni Franzoni è salito sul palco per ricordare il tempo in cui Paolo VI, spogliandosi del triregno, non fece soltanto un gesto all’insegna della povertà e dell’aiuto verso le Chiese più bisognose, ma volle dichiarare anche visivamente la rinuncia a ogni forma di potere temporale e di seduzione di quel tipo di potere sulla Chiesa, altri testimoni del Concilio, come Luigi Bettazzi e Arturo Paoli, hanno mandato messaggi.

Il nome del cardinale Martini è risuonato spesso, fin dai saluti introduttivi di Rosa Siciliano, direttrice di Mosaico di pace. E in generale la definizione di “piccolo gregge”, tanto cara a Martini, può essere utilizzata per esprimere lo spirito dell’assemblea, animata dalla volontà non di contarsi per contare, ma di spendersi nel mondo, ovunque ci sia da chinarsi su una ferita e su un’ingiustizia.

Nella sua semplicità, lo spirito del Concilio è stato rievocato con grande efficacia dal Paolo Ricca, che ha ricordato tutto lo stupore e la meraviglia dei protestanti quando si resero conto di essere passati dallo status di eretici a quello di “fratelli separati”, nella cui esperienza di fede i cattolici possono ritrovare elementi di verità utili per la salvezza. E piena di suggestioni per il futuro è stata la relazione di Cettina Militello sulle prospettive di un vero aggiornamento.

L’intervento finale di Raniero La Valle, giocata sulla necessità di uscire dalla contrapposizione tra le varie ermeneutiche del Concilio per fare piuttosto del Concilio l’ermeneutica alla luce della quale interpretare la stessa storia della Chiesa, è suonato non tanto come chiusura ma come premessa di altre tappe.

Il titolo dell’incontro è stato preso dal radiomessaggio di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962: “In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta qual è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”.

Ha scritto Bettazzi nel suo messaggio: “La sollecitazione per la piena attuazione del Concilio è affidata al popolo di Dio, del quale la gerarchia è al servizio. Che la vostra premura di popolo di Dio possa influire sul sinodo episcopale dell’ottobre e su tutto l’anno della fede”.

Recitando la preghiera composta da Marco Campedelli della Comunità San Nicolò di Verona, il popolo di Dio si è espresso così: “Continua a soffiare, vento dello Spirito, nuova Pentecoste sul mondo, continua a inventare lingue nuove, alfabeti inediti, capaci di tradurre le sorprese di Dio. Non è la Chiesa che vogliamo celebrare, ma lo Spirito di Dio che soffia in mezzo al mondo. Chiesa di tutti, Chiesa di poveri”.

Il popolo di Dio si è riunito. In libertà, senza ipocrisie. Si è confrontato con fiducia, senza calcoli dettati dall’opportunismo, senza prudenze innescate dalla paura, senza equilibrismi dovuti ai giochi di potere. Lo Spirito ha soffiato.

 

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Ernesto Balducci e David Maria Turoldo

due uomini a confronto

Firenze

Martedì, 25 settembre 2012 - ore 16:00

Via di San Vito 7


Giornata di Studio nell’ambito del ventennale della scomparsa di Ernesto Balducci e David Maria Turoldo - 1992 - 2012


Introduzione:

Maria Giuseppina Caramella

Andrea Cecconi

Interventi:

Alfredo Jacopozzi

Giorgio Luzzi

Marco Marchi

Carmelo Mezzasalma

Letture dei testi:

Maria Giuseppina Caramella

Massimo Tarducci

Coordina: Francesco Stella

Organizzato da:

Fondazione il Fiore

Fondazione Ernesto Balducci

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Vedi appuntamento

Volantino dell'iniziativa.

Uomo di Dio per il nostro tempo

E’ morto il cardinale Martini. Un amico caro, un maestro amato e venerato

da Città Nuova

Piero Coda

31-08-2012

Ho appreso la notizia, improvvisa, della morte del Cardinal Martini con particolarissima emozione, come una visita di Dio a tutti noi, credenti e non credenti o diversamente credenti. Come capita quando a partire è uno di casa o un amico caro o un maestro amato e venerato. Perché questo egli è e resta per tutti noi.

Lo dico per esperienza. Ricordo il primo incontro che ebbi con lui, mentre era Rettore dell’Università Gregoriana di Roma ed io uno studente di teologia alle prime armi. Era il 1989, nel tardo autunno, ed egli aveva portato la sua testimonianza ad un convegno sulla formazione dei giovani nei seminari che si teneva al Centro Mariapoli di Rocca di Papa.

Custodisco ancora viva in me una sua frase che molto mi colpì, tanto che non ha più lasciato la mia anima: «Ciò di cui c’è bisogno, oggi, è di rapporti di trasparenza personale». Per una felice coincidenza, ci trovammo seduti accanto sul trenino che da Frascati porta a Roma. Ero con alcuni amici, che avevano partecipato al convegno.

Ci chiese col suo fare confidente e alla mano, tutt’altro rispetto alla prima impressione che poteva lasciare la sua figura imponente e austera intravista di lontano, una preghiera per una faccenda che lo toccava da vicino. Poco tempo dopo giunse la notizia inaspettata della sua nomina, da parte di Giovanni Paolo II, ad Arcivescovo di Milano.

Iniziò così quell’avventura che fece di lui, riconosciuto uomo di studio, ma insieme – per chi lo conosceva più da vicino – uomo di penetrante spiritualità e di profonda ricerca interiore, sensibile alla vita di comunione, al servizio dei poveri e di chiunque versa in umana difficoltà, uno degli uomini che più e meglio hanno incarnato la Chiesa del Concilio Vaticano II.

Con umiltà, coraggio, perseveranza, profezia. Nella sua Milano e in Italia (fu uno dei protagonisti del Convegno ecclesiale di Loreto), in Europa (fu a lungo presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa) e nel mondo intero. Per tornare da ultimo a Gerusalemme, la sua vera patria. Sino a diventare un simbolo o, meglio, sino a stagliarsi a tutto tondo come un testimone vero, credibile e ascoltato di Gesù.

E’ raro che un uomo di Chiesa sia entrato come lui nel cuore di innumerevoli persone, vicine e lontane, gente semplice e intellettuali pensosi del destino dell’uomo. Sempre fedele a Gesù e alla sua Chiesa, ma proprio per questo con quella libertà e lungimiranza di spirito che sono segno tangibile della bellezza intramontabile e della freschezza sempre nuova del Vangelo.

Qualcuno non l’ha capito, c’è stato chi ha cercato di emarginarlo o strumentalizzarlo, come sempre accade. Ma la storia della sua testimonianza e del suo insegnamento, una volta messa in piena luce senza pregiudizi, ci riserverà non poche e non piccole sorprese.

L’ho incontrato poi diverse altre volte e in diverse altre occasioni, dopo quel primo incontro in treno. L’ultima fu a Gallarate, lo scorso anno, nella casa luminosa e serena che accoglie Gesuiti anziani e in precarie condizioni di salute. Questa volta ero io a dovergli chiedere un consiglio e una preghiera. Fu un incontro breve, tutto quello che gli era permesso dalla sua incalzante infermità, ma di un’intensità per me straordinaria.

I suoi occhi limpidi e bambini, la sua parola quasi impercettibile ma luminosa e calda, l’atmosfera semplice ma di cielo che ci avvolgeva… Mi lasciò con un abbraccio. Mi portai via la certezza d’aver toccato con mano la presenza discreta ma inconfondibile di Dio, che non lascia di far capolino nel chiaroscuro della nostra vita attraverso i suoi amici.

Sì, Martini è stato un uomo di Dio, un uomo di Dio del nostro tempo e per il nostro tempo. Un presagio del domani. Moltissimi, oggi, ringraziano nella preghiera per il dono di questo fratello e padre nella fede. Altrettanti, e forse più ancora, lo sentono più di ieri accanto a sé nel cammino sincero e rispettoso di chi cerca nel dialogo la verità, il bene, la giustizia e la pace.

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Padre Carlo che parlava al cuore

In memoria del cardinale Martini

Giovanni Bianchi

da Circoli Dossetti editoriale di settembre 2012

La chiusura della giornata terrena non interrompe il magistero martiniano.

La tradizione cristiana parla non a caso di cattedra episcopale. Ebbene, nel Martini membro della Compagnia di Gesù, la cattedra preesisteva al vescovo per una vocazione singolare, tale da non interrompere ancora adesso e a lungo il suo magistero.

Perché? Martini, quasi contraddicendo una naturale timidezza, non si è mai sottratto all'esigenza di confrontare in pubblico la radicalità della Parola di Dio con le occasioni e le difficoltà della vita, pensando che il dialogo fosse ogni volta possibile e addirittura doveroso.

Studioso finissimo e insaziabile, non ha mai fatto distinzione tra "vicini" e "lontani", convinto che in ognuno convivano il credente e l'agnostico –  "l'ateo che è in me" –  e che il messaggio del Nazareno ti raggiunge dove sei, anche in mancanza di un adeguato tirocinio.

Ecco perché Martini parlava e continuerà a parlare a tutti, non dai confini, ma in mezzo alla sua Chiesa, tenendo conto di chi va con passo spedito e di chi ha difficoltà di movimento.

Senza enfasi il medico che lo aveva in cura ha dichiarato che il Cardinale non ha mai cercato di nascondere la malattia (esibendola, anzi, fin dagli inizi con l'uso del bastone) e che prendeva parte a svariati convegni sul Parkinson durante i quali rispondeva alle domande dei malati. Senza omettere di osservare con umorismo che i progressi della scienza fanno sì che la medicina curi di più e guarisca di meno.

In tutto il magistero martiniano resta cruciale, per tutti, nel foro interno come nello spazio pubblico, il ruolo della coscienza, che non può e non deve essere mai bypassato da nessuna autorità e da nessuna convenienza politica. E chiosa: "Che cosa dire allora? La parola evangelica non cade su azioni che andrebbero bene anche da sole; cade su situazioni impossibili, umanamente disperate, su situazioni in cui un realismo sobrio si accontenterebbe di tenere in alto gli ideali lasciando poi a ciascuno di fare ciò che può".

È il paradosso cristiano.

Per queste e altre ragioni dovremo rileggere Martini.

Anche se rileggere Martini non dà riposo, dal momento che la sua produzione sembra gareggiare in chilometraggio con quella di Voltaire. Una volta glielo feci scherzosamente notare. La risposta fu immediata: "Non si preoccupi. Neppure io riesco a leggere tutto quello che scrivo".

 

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Un uomo della libertà

In memoria del cardinale Martini

da EUROPA

Franco Monaco

1 settembre 2012

Avendo avuto il dono e il privilegio di conoscere il cardinal Martini e di cooperare con lui, la notizia, per quanto attesa, del suo ritorno alla casa del Padre mi prende alla gola. Ci sarà tempo e modo di riflettere sulla sua figura e sulla sua lezione. In queste ore basti una piccola testimonianza personale sull’uomo e sullo stile cui egli improntava le umane relazioni. Anche perché quel tratto umano non è estraneo alla sua opera di biblista e di pastore. In certo modo, ne rappresenta la radice e lo sfondo. Martini aveva un naturale tratto aristocratico. Naturale, ripeto, non ricercato. Anzi, in certo modo, la cosa gli faceva problema, perché poteva accreditare l’idea di un suo freddo distacco da persone e comunità.

Non era così: rispondeva alla sua indole. Forse – azzardo – era il portato delle sue origini sociali e familiari, quelle della borghesia piemontese, e della severa disciplina ignaziana che seguono i gesuiti. Sulle prime egli incuteva una qualche soggezione ai suoi interlocutori, dava immediatamente l’idea di avere a che fare con un uomo di statura davvero straordinaria.

Dunque austero e riservato, con la fama di uomo di ricerca e dedito a studi severi, posto alla guida della diocesi di sant’Ambrogio e di san Carlo, ripeto, poteva sembrare inaccessibile. Ma chi ha avuto la ventura di una più diretta e assidua frequentazione, una volta varcata la soglia e vinta quella prima impressione, ha conosciuto e sperimentato la finezza d’animo, l’umanità di un uomo di Chiesa mai prigioniero del ruolo, delle convenzioni, delle forme. Comprese quelle ecclesiastiche. Un padre sollecito, un fratello maggiore, un signore amabile e accogliente (esordiva sempre interrogandoti sulla tua vita e sulla tua famiglia). Un uomo tra gli uomini, prima e più dell’eminente studioso e pastore di fama mondiale. Non mi sono sorpreso nell’apprendere dall’amico Aldo Maria Valli che lo scarno, significativo titolo (“un uomo”) del suo libro dedicato a Martini gli fosse stato suggerito da Martini stesso.

Una tensione a condividere la condizione comune degli uomini, la sua, che si riscontra un po’ su tutti i fronti della sua personalità e del suo ministero. A cominciare dalla causa cui egli ha dedicato la vita: lo studio, la meditazione, la predicazione della Parola. Tutto il suo magistero e la sua azione pastorale sono riconducibili a un solo fine: educare i cristiani alla familiarità con la Parola e mostrarne a i non credenti la portata e la risonanza universale. Mosso come egli era dal convincimento che la Bibbia sia il grande libro dell’umanità, che essa incrocia le attese e le inquietudini, le speranze e le angosce di ogni uomo in ogni tempo e in ogni sua fibra. Prendendo spunto dalla parabola del seminatore, Martini spiegava che il seme della Parola è nativamente orientato a fecondare il terreno rappresentato dalla nostra umanità, la quale a sua volta intimamente anela alla Parola. Si spiega così l’eco singolarmente vasta, davvero universale, del magistero di Martini – forse l’uomo di Chiesa del nostro tempo che ha goduto di più largo ascolto, varcando confini geografici, culturali e religiosi – e della quale abbiamo testimonianza in queste ore.

L’umanità condivisa senza riserve da Martini si rinviene pure nella sua interpretazione di un cristianesimo amico dell’intelligenza e della libertà: in assenza di una coscienza libera, asseriva, non si dà cristianesimo, il quale nasce e si sviluppa solo nella libertà. Di qui ancora la sua visione di una Chiesa povera, libera, sciolta (aggettivo ricorrente e inusuale a proposito della Chiesa), immune da ogni tentazione di potere e da propositi di costrizione. Una Chiesa cui egli additava il modello della originaria comunità apostolica, priva di un sovraccarico istituzionale che ne appesantisce il passo e ne appanna la testimonianza. Una Chiesa tutta concentrata nella proclamazione di una parola profetica, che illumina e giudica le parole dell’uomo, comprese le parole della politica, ma non si confonde mai con esse. Una Chiesa che accompagna con fiducia la ricerca dell’uomo, che apprezza il portato della scienza e della cultura moderna, anche in quei territori di confine che pongono interrogativi di natura etica. Una Chiesa infine che non si sottrae al dovere di riformare se stessa e di correggere, se del caso, talune sue posizioni tradizionali.

Chi si applicherà alla biografia di Martini si concentrerà sul suo contributo di studioso e di pastore offerto nella stagione della sua vita attiva. Ma non potrà ignorare l’ultimo tempo della sua vita, quello che è coinciso con la sua implacabile malattia. Compreso l’estremo scampolo di essa, segnato dal dramma forse per lui più doloroso: quello della privazione della parola, cioè della ragione stessa della sua esistenza. Anche allora, tuttavia, non ci ha fatto mancare la sua parola affidata agli scritti. Come se sentisse l’esigenza di consegnarci una ultima lezione. Quella di porre, all’attenzione della sua amata Chiesa, questioni delicate e controverse troppo a lungo esorcizzate. E di farlo con la libertà di giudizio che si conviene a chi è posto a fronte del giudizio finale. Quando non si può più tergiversare, quando si è soli davanti a Dio e al dovere della spietata onestà intellettuale prescritta dalla propria coscienza.

Quando si devono abbandonare anche le pur ragionevoli cautele dettate da senso di responsabilità e da umana prudenza. È l’ultima ma non la meno preziosa delle lezioni che ci lascia un uomo di Chiesa come ne abbiamo conosciuti pochi, che ha voluto essere uomo tra gli uomini. Perché in questo umile accondiscendere sta la vera grandezza. Ci mancherà, ma chi ha fede nella comunione dei santi può confidare che misteriosamente continuerà ad accompagnarci.

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Martini, un promemoria per il futuro

In memoria del cardinale Martini

Giovanni Bianchi

da Circoli Dossetti editoriale di ottobre 2012

La lunga veglia, il funerale e il dibattito non superficiale aperto dai media mi hanno confermato nella convinzione che la chiusura della giornata terrena non solo non interrompe il magistero martiniano, ma che con il magistero di Martini convivremo ancora a lungo. Non soltanto perché la tradizione cristiana parla non a caso di cattedra episcopale, ma perché Martini, quasi contraddicendo una naturale timidezza, non si è mai sottratto all'esigenza di confrontare in pubblico la radicalità della Parola di Dio con le occasioni e le difficoltà della vita, pensando che il dialogo fosse ogni volta possibile e addirittura doveroso.

Studioso finissimo e insaziabile dell'Antico e soprattutto del Nuovo Testamento, non si è limitato a proporre il dialogo tra le grandi culture – quello sul quale è impegnato da tempo e con successo (si pensi ai colloqui di Monaco di Baviera con il filosofo Habermas) papa Benedetto XVI- ma ha proposto la parola di Dio tra la gente, in mezzo alla quotidianità, non evitando le questioni più spinose e conflittuali, cercando le risposte insieme agli interlocutori e mettendosi alla pari con loro (che altro è la Cattedra dei non credenti?) e non tirandosi neppure indietro rispetto ai problemi per i quali sapeva non esistono ancora risposte.

Ecco perché non ha mai fatto distinzione tra "vicini" e "lontani", convinto che in ognuno convivano il credente e l'agnostico – "l'ateo che è in me" – e che il messaggio del Nazareno ti raggiunge dove sei, anche in mancanza di un adeguato tirocinio. Ecco perché Martini parlava e continuerà a parlare a tutti, non dai confini, ma in mezzo alla sua Chiesa, tenendo conto di chi va con passo spedito e di chi ha difficoltà di movimento.

Ricordo una bella conferenza del cardinale Giovanni Colombo nella mia città di ritorno dal Concilio. L'allora arcivescovo di Milano disegnò sulla lavagna una serie di centri concentrici che indicavano lo sviluppo del messaggio evangelico in un popolo di Dio i cui confini cessavano di essere sicuramente segnati tra chi è dentro e chi è fuori, non mettendo barriere e avendo fiducia nella disponibilità all'ascolto e all'accoglienza e soprattutto nella diffusività della parola. Un atteggiamento conciliare che in Martini appariva non soltanto abituale ma addirittura scontato.

Del rapporto con le Acli è già stato opportunamente scritto. Un rapporto che era cominciato in sede nazionale durante la presidenza di Domenico Rosati con una serie di seminari intorno al tema del potere sottoposto a discernimento biblico, e poi intensamente continuato nei lunghi anni milanesi.

È qui che incontriamo il Martini attento che interviene nello spazio pubblico. Come il suo confratello Pio Parisi, Martini ha pensato politica dal punto di vista del Vangelo. Non una spiritualità, perché le spiritualità, come New Age, si acconciano alle mode. Ma il Vangelo. Non facendo sconti e dando indicazioni scomode.
Ad amministratori e politici in visita durante i tempestosi inizi della transizione infinita ricordò che non si mettono toppe su abiti strappati e che il vino nuovo non può essere versato in otri vecchi.

In una meditazione svolta di fronte agli alunni delle scuole socio-politiche della diocesi di Milano si chiede senza mezzi termini “come combattere e superare il fenomeno della corruzione politica”. Corruzione che con anni di anticipo aveva additato ad un’opinione pubblica milanese allora disattenta e non certo presaga del clima giustizialista che vi avrebbe aleggiato anni dopo in piena tangentopoli. Basta rileggersi l’omelia per sant’Ambrogio del 1986. Un cardinale imprevedibile ed informatissimo parla di “camere oscure” dove politici non chiari si spartiscono affari e tangenti. Il discorso fece ovviamente scalpore, si disse che, sul modello di Ambrogio suo predecessore, il porporato gesuita aveva deciso di impugnare la frusta. Nessuna indagine fu però avviata. I grandi quotidiani milanesi, dopo i grandi titoli che esternavano lo stupore per la denuncia e per l’inabituale e autorevolissima cattedra da cui discendeva, non misero in cantiere nessuna inchiesta, anche se le cose che Martini spiattellava dalla cattedra si fa fatica a pensare che non fossero a conoscenza di una porzione non esigua della classe dirigente della città.

Le sue invettive nei confronti del moderatismo alla moda si accompagnano a quelle di Luigi Sturzo. Osserva che per quanto riguarda le proposte, le encicliche sociali vedono il cristiano come depositario di iniziative coraggiose e di avanguardia. "L'elogio della moderazione cattolica, se connesso con la pretesa che essa costituisca solo e sempre la gamba moderata degli schieramenti, diventa una delle adulazioni di cui parlava Ambrogio, mediante la quale coloro che sono interessati all'accidia e all'ignavia di un gruppo, lo spingono al sonno. C'è invece nella dottrina sociale della Chiesa la vocazione ad una società avanzata".

Martini non risparmia talvolta le armi efficaci dell’ironia: “Per essere credibili bisognerà porsi non tanto al di sopra delle parti quanto al di sotto delle parti, ossia nella profondità della coscienza civile del Paese”.

Sono noti il coraggio e il suo equilibrio nel trattare problemi di frontiera, quali i temi della fecondazione assistita, dell’aborto, delle cellule staminali, delle adozioni, della lotta all’Aids, della donazione degli organi, dell’eutanasia, dei confini della ricerca. Martini si mette in ricerca e chiede che la ricerca resti aperta: questo il messaggio di fondo per un discernimento che muove dalla centralità della coscienza e del dialogo su una delle frontiere più rischiose non soltanto per chi dice di credere. Che non si proceda deducendo soltanto dai principi. Che la politica dunque a sua volta non si ripari, ma elabori a partire dalla libertà di coscienza, e non rifugiandosi in essa, quasi in angolo, per evitare lacerazioni peggiori e rendendo i partiti inutili perché incapaci di cultura.

Non tralasciando un suggerimento: “Là dove c’è un conflitto di valori, mi parrebbe eticamente più significativo propendere per quella soluzione che permette a una vita di espandersi piuttosto che lasciarla morire. Ma comprendo che non tutti saranno di questo parere. Solamente vorrei evitare che ci si scontrasse sulla base di principi astratti e generali là dove invece siamo in una di quelle zone grigie dove è doveroso non entrare con giudizi apodittici”. Le “zone grigie”. La laicità del grigio… Il non sottovalutare e il non accorciare la fatica della ricerca.
Insomma, un Martini mai reticente e disponibile a occuparsi delle rughe dei giorni per proporre quel “discernimento” che è la parola più ricorrente nei suoi scritti. Per questo ritornare a Martini fa bene.

Non esistono soluzioni facili. Probabilmente non esistono "soluzioni". Martini non si nasconde la difficoltà. E chiosa: "Che cosa dire allora? La parola evangelica non cade su azioni che andrebbero bene anche da sole; cade su situazioni impossibili, umanamente disperate, su situazioni in cui un realismo sobrio si accontenterebbe di tenere in alto gli ideali lasciando poi a ciascuno di fare ciò che può". È il paradosso cristiano. Per cercare la soluzione ci sono le beatitudini evangeliche. E infatti “non c’è alcuna realtà umana che sia sottratta all’azione dello Spirito”, dal momento che lo Spirito è il grande suggeritore, colui che “suggerisce le parole giuste nelle circostanze in cui ci si gioca la vita per il Vangelo”.

Non era dunque quiete da persona anziana quel che Martini andava cercando a Gerusalemme, la città sul monte che lo affascinava, ma la continuità, sotto forme mutate, di un magistero e di una veglia. La sentinella era lui. E’ lui che, mantenendo un riserbo che non sapevi se considerare più piemontese o britannico, “non dava riposo a Dio”, anche perché “questa Parola non è risuonata solo per i credenti, ma per tutti gli uomini”.

Sono tornato a rileggere Martini spinto da un bisogno e da un cruccio. Il bisogno, probabilmente non soltanto mio personale, di trovare un qualche fondamento ad una politica che dà l’impressione di volere continuare senza prendersi il disturbo di pensare. Il cruccio, che ebbi modo di esternargli quando ancora sedeva sulla cattedra di Ambrogio, che Milano e la diocesi – la più grande diocesi del mondo – l’abbiano più ammirato che capito. Anche rileggere Martini non dà riposo, dal momento che la sua produzione sembra gareggiare in kilometraggio con quella di Voltaire. Eppure è fatica che ottiene la sua abbondante remunerazione.

Anche questo tratto bisognerà ricordare di Martini: il maestro in ascolto di tutto sollecitava a decisioni né facili né scontate. Il magistero milanese di Martini questo ha seminato per lunghi anni, in cui pure i "militanti" martiniani sembrarono talvolta dispersi. Probabilmente un popolo troppo vasto per essere delimitato da un qualche confine. E però si sono finalmente radunati, non nascondendo le loro diversità, perfino fisiche, perfino nell'abbigliamento, intorno alla bara.

Sono rimasto tre ore e mezza sotto le navate del Duomo durante il funerale. Accanto a me per tutto il tempo, confuso tra la folla, Antonio Pizzinato, tra le tante cose anche segretario generale della Cgil, e gli Hamadi, padre e figlio, di Homs, la città martire della Siria, islamici osservanti residenti a Sesto San Giovanni e che frequentano le messe di Natale e Pasqua in memoria della moglie e madre cristiana, recentemente scomparsa. Cosa martinianamente naturale per la parola di Dio, che interviene nelle situazioni impensate e ignora i confini.

E tutto, là dove sta, avrà provato Martini, tranne che stupore.

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Vedi dossier di articoli in memoria del card. Carlo Maria Martini