Economia

Carestia Corno d’Africa: vietato essere indifferenti

Comunicato n. 25 » Martedì 2 agosto 2011

Un pressante invito «a dividere il pane con i bisognosi». Così Benedetto XVI, commentando il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, ha richiamato di nuovo l’attenzione sui «tanti fratelli e sorelle che in questi giorni, nel Corno d’Africa, patiscono le drammatiche conseguenze della carestia, aggravate dalla guerra e dalla mancanza di solide istituzioni».

Un appello che fa eco alla richiesta di Ban ki-Moon del 25 luglio scorso di 1,6 miliardi di dollari entro la fine dell’anno «per salvare la vita di quanti sono a rischio – in gran parte donne e bambini». Il segretario generale dell’ONU ha sottolineato come i donatori internazionali hanno stanziato sino ad ora solo la metà di quanto necessario.

La richiesta è inferiore alla metà dei fondi che nel 2010 erano stati resi disponibili da governi e privati cittadini per rispondere al terremoto di Haiti e pari a meno dello 0,1% delle spese militari mondiali nel 2010. Unendosi alle parole del Santo Padre, la presidenza della CEI ha lanciato una colletta nazionale con una raccolta straordinaria per domenica 18 settembre 2011 al fine di sollecitare le comunità cristiane e tutti gli uomini di buona volontà ad esprimere fattivamente solidarietà alle popolazioni colpite dalla siccità attraverso gli interventi di Caritas Italiana in collaborazione con le Caritas locali che da mesi sono mobilitate per rispondere ai bisogni. Le stime delle persone colpite dalla terribile siccità che coinvolge la Somalia, l’Etiopia, il Kenya, Gibuti e mette a rischio l’Eritrea, il Sud Sudan, l’Uganda e la Tanzania hanno superato i 12 milioni e le notizie sono sempre più allarmanti.

S.E. Mons. Bertin, vescovo di Gibuti e presidente di Caritas Somalia, parla di situazione disperata e ha sottolineato come la doverosa e urgente solidarietà deve essere accompagnata dall’impegno per risolvere a monte le cause strutturali della crisi in Somalia, abbandonata da due decenni in una situazione di anarchia e conflitto.

Caritas Italiana, da anni impegnata in questi paesi, ha già stanziato 300.000 euro e, anche in vista della colletta del 18 settembre, rinnova l’invito alla solidarietà.

Inoltre, alla vigilia della conferenza sugli aiuti prevista per mercoledì 3 agosto a Nairobi, fa appello ai governi e agli organismi internazionali affinché rispondano con urgenza e in modo adeguato a questa emergenza e per il futuro avviino subito politiche volte alla prevenzione di queste tragedie, a partire dalla presa in considerazione della questione somala, senza ripetere i drammatici errori del passato.

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Per sostenere gli interventi in corso si possono inviare offerte a Caritas Italiana tramite C/C POSTALE N. 347013 specificando nella causale: “Carestia Corno d’Africa 2011”.

Offerte sono possibili anche tramite altri canali, tra cui:

  • UniCredit, via Taranto 49, Roma – Iban: IT 88 U 02008 05206 000011063119
  • Banca Prossima, via Aurelia 796, Roma – Iban: IT 06 A 03359 01600 100000012474
  • Intesa Sanpaolo, via Aurelia 396/A, Roma – Iban: IT 95 M 03069 05098 100000005384
  • Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma – Iban: IT 29 U 05018 03200 000000011113
  • CartaSi (VISA e MasterCard) telefonando al n. 06 66177001 (orario d’ufficio)

La sobrietà che ci fa crescere

Dal Seminario a Bose promosso da “Argomenti 2000” su «La crescita felice»

 

Enzo Bianchi

3 Luglio 2011

da La Stampa


 «Il PIL misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Può dirci tutto sul nostro Paese, ma non se possiamo essere orgogliosi di esserne cittadini».

Mi viene spontaneo tornare al discorso che Robert Kennedy pronunciò all’Università del Kansas nel marzo 1968 - solo tre mesi prima di essere assassinato - ogni volta che sento parlare di manovre fiscali, crescita economica, sviluppo sostenibile, deficit pubblico... Sì, perché credo che siano argomenti che non riguardano solo politici ed economisti.

Ma argomenti che dovrebbero aprire la riflessione alla qualità della nostra vita quotidiana e della convivenza nella società civile. E tematiche di questo genere dovrebbero essere affrontate con uno sguardo più ampio, non limitato a facili contrapposizioni tra economia di mercato e stato sociale o improbabili alternative secche tra crescita dei consumi e povertà incombente.

In particolare, varrebbe la pena di riscoprire la valenza di uno stile di vita e un atteggiamento nei confronti dei beni materiali e del loro uso che - come ha osservato il cardinale Tettamanzi - è «segno di giustizia prima ancora che di virtù»: la sobrietà. Ben più di un semplice accontentarsi di quanto si ha o della capacità di non sprecare, la sobrietà ha una dimensione interiore, abbraccia un modo di vedere la realtà circostante che discerne i bisogni autentici, evita gli eccessi, sa dare il giusto peso alle cose e alle persone.

Sobrietà a livello personale significa riconoscimento e accettazione del limite, consapevolezza che non tutto ciò che ho la possibilità tecnica o economica di ottenere deve forzatamente entrare in mio possesso: la capacità di rinuncia volontaria a qualcosa in nome dì un principio eticamente più alto obbliga a interrogarsi sulla scala di valori in base alla quale giudichiamo le nostre e le altrui azioni. La moderazione non è la tiepidezza di chi è indifferente a ogni cosa e si crogiola in un preteso «giusto mezzo», ma la forza d’annuo di chi sa subordinare alcuni desideri per valorizzarne altri, di chi sa riconoscere il valore di ogni cosa e non solo il suo prezzo, di chi orienta la propria esistenza verso prospettive non ossessionate da un incessante «di più», di chi sa dire con convinzione «non tutto, non subito, non sempre di più!». Sobrietà è la forza interiore di chi sa distogliere lo sguardo dal proprio interesse particolare e allarga il cuore e il respiro a una dimensione più ampia.

La «crisi» che viviamo dal 2008 in realtà era già operante da tempo: chi osservava la situazione ecologica, chi non era cieco di fronte alle crisi alimentari, poteva forse prevedere la crisi finanziaria, quindi monetaria ed economica. Ma chi aveva e ha occhi capaci di discernimento poteva però rilevare una «crisi» ben più profonda, una crisi spirituale, una crisi dell’umanizzazione, un avanzare della barbarie. Dopo la caduta del muro di Berlino c’è stato un abbaglio, una fiducia smisurata nel mercato che sembrava garantire quello stile di vita consumistico cui ci eravamo abituati da qualche decennio... Ora non si tratta di ritornare indietro, ma dì tornare al centro sì, all’asse che permette alla politica di rendere possibile ciò che è giusto, ciò che è doveroso, ciò che è necessario al «ben-essere» autentico, di tornare all’asse su cui economia di mercato e solidarietà, competitività e coesione sociale possono interagire ed essere coerenti con la ricerca della qualità della vita umana e della convivenza sociale. Solo tenendo conto di queste istanze si può uscire dall’attuale mancanza di visione sull’avvenire ed elaborare e realizzare un progetto di società a dimensione umana, altrimenti si continuerà a inoculare germi di sfiducia soprattutto nelle nuove generazioni, che intuiscono la necessità di non ridurre l’uomo a produttore-consumatore ma che tuttavia percepiscono la loro impotenza.

In questa ricerca, giustizia e solidarietà sono elementi che trovano nella sobrietà stimolo e sostegno. E questo, se era vero in una società rurale e dotata di scarsi mezzi, lo è paradossalmente ancora di più in un mondo e in un’economia globalizzati. Infatti, la sobrietà non è solo misura nei propri comportamenti ma anche consapevolezza del nostro legame profondo e ineliminabile con le generazioni che ci hanno preceduto, con quelle che verranno dopo di noi e con quanti, nostri contemporanei, abitano assieme a noi il pianeta. Nell’usare dei beni di cui dispongo e nell’ambire ad altri, non posso ignorare la necessità di un’equa distribuzione delle risorse: accaparrarsi beni, sfruttare il pianeta, disinteressarsi delle conseguenze immediate e future del proprio agire significa alimentare ingiustizie che, anche se non si ritorcessero contro chi le compie, sfigurano l’umanità e offendono il creato stesso.

Solo una sobrietà così concepita può tracciare un cammino sicuro per la solidarietà umana o, per usare una terminologia cristiana, per una «comunione universale». E questa solidarietà non è tanto il serrare le file da parte di un gruppo sociale per difendersi da un nemico comune o da un’avversità condivisa, non è solo la reazione spontanea e generosa davanti a una sciagura, ma è - a monte di queste cose - la percezione che nostri sodali nell’avventura umana sono quanti ci hanno preceduto e hanno lavorato e lottato per consegnarci condizioni di vita meno precarie, sono coloro che verranno dopo di noi e ai quali riconsegneremo un patrimonio eroso dallo sfruttamento e sono anche, ben più presenti ai nostri occhi, quanti oggi stesso vicini a noi o lontani, non dispongono di beni essenziali per una vita degna e anzi pagano sulla loro pelle i privilegi di cui noi godiamo e che pretendiamo di accrescere continuamente. Se non dimenticassimo questa solidarietà generazionale e mondiale, la sobrietà ci apparirebbe allora come l’unico stile di vita capace di restituire, a noi stessi per primi, dignità umana e senso dell’esistenza. In questo senso sobrietà e sviluppo non sono antitetici, se per sviluppo non intendiamo la crescita ininterrotta e l’accumulo incessante ma il pieno dispiegarsi delle potenzialità dell’essere umano, un fiorire delle risorse nascoste in ciascuno di noi che la stessa «decrescita» alimenta con la sua ricerca dell’essenziale. Davvero, la sobrietà ci fornisce gli strumenti per misurare noi stessi e il nostro rapporto con «ciò che rende la vita degna di essere vissuta».

Giovani disoccupati, ma il Pd che propone?

Dal Seminario a Bose promosso da “Argomenti 2000” su «La crescita felice»

 

Alessandro Rosina

Professore dl demografia alla Cattolica di Milano

 3 Luglio 2011

da il Fatto Quotidiano


 

La rivolta dei figli contro i padri

Esiste una questione generazionale, da affrontare in Italia? A questa domanda la politica continua a rispondere in modo vago e ondivago. Per esempio, secondo il Pd la questione del lavoro deve diventare centrale, ma non quella generazionale. Questo è almeno quanto si deduce leggendo il documento “Persone, lavoro, democrazia” che ha dettato la linea della “Conferenza per il lavoro” recentemente tenuto a Genova. Vi si legge testualmente: “Dobbiamo archiviare il paradigma sbagliato e subalterno del ‘meno ai padri, più ai figli’. E un’impostazione efficace ad allontanare dal centrosinistra i padri, senza riuscire ad avvicinare i figli. Non ha senso economico, prima che politico (...) il conflitto reale, infatti non è generazionale. È sociale. Un’affermazione quantomeno discutibile, visto che negli ultimi decenni si è invece —generazionalmente parlando — tolto ai figli per dare ai padri. Su queste pagine abbiamo recentemente ricordato un passaggio di Edmondo Berselli che definiva il debito pubblico una rapina generazionale. Ma questo è solo l’esempio più evidente di un patto generazionale tradito. E un dato di fatto, ad esempio, che con le trasformazioni del mercato del lavoro e del sistema pensionistico si sia lasciato alle vecchie generazioni ciò che avevano mentre quello che mancava sia stato assegnato in eredità alle nuove. Come se nella nota parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù avesse detto a chi ha già di tenersi il suo e agli altri di fare di necessità virtù.

Affinché, invece, il miracolo della crescita e della coesione sociale si compia serve il coraggio di rimettere in circolo tutte le risorse disponibili, In Italia l’arrocco difensivo delle generazioni prominenti ha impedito le riforme o le ha rese monche, facendo in modo che producessero effetti ma senza troppo intaccare propri diritti e risorse. Con conseguente aumento della vulnerabilità della generazione dei figli dato che la coperta era comunque stretta.

Rispetto ai coetanei degli altri paesi europei ora i nostri under 30 presentano tassi di attività notevolmente più bassi, a parità di titolo di studio. Ma più bassa tende a essere anche la qualità del lavoro e mediamente meno generose le remunerazioni rispetto ai lavoratori delle età centrali. Un aspetto, quest’ultimo, minimizzato nel documento di Genova. Gli studi della Banca d’Italia hanno messo in evidenza come il gap tra remunerazioni dei nuovi entranti e quello degli adulti si sia ampliato notevolmente negli ultimi vent’anni. Ma anche come il rischio di povertà si sia spostato dalle fasce più anziane a quelle più giovani della popolazione. La crisi, poi, ha inasprito, non ridotto come sembra far credere il documento, gli squilibri generazionali.

Secondo i dati Ocse, nei primi due anni della recessione la riduzione dell’occupazione è stata più accentuata per i giovani e meno per i lavoratori adulti rispetto a quanto si osserva in media negli altri paesi avanzati. Quello che hanno in comune la gran parte dei lavoratori precari e degli inoccupati è di essere schiacciati nella condizione di figli e di dipendere a lungo dalla famiglia di origine. La metà dei giovani italiani tra i 16 e i 30 anni vive a carico dei genitori, è il dato più elevato in Europa. I dati Istat ci dicono che la lunga permanenza nella casa paterna è sempre meno legata a fattori culturali e sempre di più a quelli economici. Le ridotte opportunità dei figli e la carenza di welfare pubblico producono costi particolarmente elevati per le famiglie di status sociale medio-basso, accentuando quindi anche le disuguaglianze sociali. Ne risulta compressa, inoltre, la mobilità sociale, forzando così i figli a non volare più in alto dei padri.

Il sistema va quindi scardinato, non aggiustato con singole misure più o meno condivisibili. Va smontato e rimontato con metodo, applicando l’equazione meno difesa dei padri e più promozione dei figli (e delle madri) ovunque serva per potenziare il ruolo delle nuove generazioni. Ma per farlo serve una politica che abbia coraggio e che non inseguo invece il consenso del crescente peso dell’elettorato più anziano, come avvenuto sinora. Un timore presente nel documento di Genova, ove si paventa il rischio di mettere in campo azioni che fanno allontanare i padri senza riuscire a far avvicinare i figli. E come porsi, per meri calcoli elettoralistici, un problema di massimo vincolato: prima tuteliamo padri e nonni e poi vediamo cosa si può fare per i giovani. Mentre le priorità dovrebbero essere invertite per un Paese che vuole crescere e rimanere competitivo sullo scenario globale. Continuando così il rischio del Pd è quello di non avvicinare i figli senza riuscire a tenersi i padri. Che il voto delle nuove generazioni possa fare la differenza è emerso in modo chiaro nelle recenti elezioni amministrative e nelle consultazioni referendarie. Il vento sta cambiando, ma attenzione a mettere le vele nella direzione giusta.

Consigli da Bose su come uscire dal liberismo

Dal Seminario a Bose promosso da “Argomenti 2000” su «La crescita felice»

 

Ernesto Preziosi

Presidente di “Argomenti 2000”

6 Luglio 2011

da Europa


È possibile lavorare per uno sviluppo economico che consenta un livello di welfare all’altezza delle necessità presenti? Su questa scommessa si è giocata la riflessione proposta nel seminario tenuto- si a Bose, su iniziativa dell’Associazione Argomenti 2000 (www. argomenti2000.it), nei giorni 2 e 3 luglio. Centocinquanta i partecipanti, con la presenza di un buon numero di parlamentari e amministratori locali provenienti dall’intera penisola; tra i relatori il banchiere Alessandro Profumo, gli economisti Luigi Pasinetti, Tito Boeri e Laura Pennacchi, il sindacalista oggi parlamentare Pierpaolo Baretta, Nerina Dirindin, già direttore generale del Ministero della Sanità, il giornalista Gad Lerner e Alessandro Rosina, demografo all’Università Cattolica. Le possibilità delineate dagli esperti hanno avuto anche un confronto con i politici: Rosy Bindi, Pierluigi Castagnetti, Mimmo Lucà, Giorgio Tonini. Da parte sua il priore di Bose, Enzo Bianchi, si è fermato a riflettere con i presenti sul tema della sobrietà come stile di vita, citando il discorso pronunciato da Robert Kennedy nel marzo 1968 all’ Università del Kansas: «Il PIL misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Può dirci tutto sul nostro paese, ma non se possiamo essere orgogliosi di esserne cittadini».

Viviamo una fase in cui la crisi economica ha reso evidente la crisi dell’“era liberista” e la necessità di un riallineamento politico e prima ancora culturale che coinvolge l’Italia e con essa l’intero mondo occidentale e con questo la stessa America. Un cambiamento culturale che la crisi economica rende necessario, e che deve rimettere al centro l’indispensabile protezione degli individui da parte di quella realtà complessa, ma tutt’oggi non superata, che è lo stato. Certo questa strada non elude la necessità di una libera intrapresa del mercato, in chiave di sussidiarietà e solidarietà. Ciò però non esclude il necessario intervento di riequilibrio distributivo da parte dello stato. C’è chi si auspica un ritorno a forme di embedded liberalism, ossia, appunto, ad un liberalismo economico che contempli l’attività ridistributiva dello stato. E questo non può che andare nella direzione dei più deboli, di quanti cioè vengono messi con le spalle al muro da una crisi economica che è tutt’altro che terminata. Il confronto è allora sulle ricette possibili in alcuni settori strategici: giovani, lavoro, sanità. Ci si misura sulla necessità di affrontare la situazione italiana in un quadro più vasto, recependo la domanda di stato e più ancora di regolazione statuale dell’economia, ma non rinunciando a forme equilibrate di collaborazione società-stato. D’al - tra palle Rosy Bindi ha affermato che l’obiettivo per la politica è quello di «convincere tutti che un mondo più sobrio non fa male a nessuno, nemmeno ai più ricchi».

Da decenni ormai è evidente come l’evoluzione dei sistemi di welfare state condizioni i destini delle democrazie contemporanee e gli stessi governi occidentali; è sotto gli occhi di tutti come il processo di integrazione europeo, mentre riesce, ad esempio, a suscitare un discreto dibattito sulle riforme istituzionali dell’Unione, segni invece il passo quando si tratta di confrontarsi nella realizzazione dell’Europa sociale e della nuova cittadinanza continentale. Contemporaneamente, però, appare evidente come l’unione economica esiga, sempre di più, anche un nuovo patto sociale tra tutti gli stati membri; è proprio da questo, e non solo dal mercato, che dipenderanno la possibilità di coesione e di integrazione tra gli Stati e le genti dell’ Unione.

Il tema dello sviluppo economico e della necessità di crescita è oggi più che mai sotto i nostri occhi. «Dovremo chiederci — ha detto Amartya Sen, economista indiano che ha ottenuto il premio Nobel — quale tipo di equilibrio dovremo perseguire tra stato e mercato. Non importa se va contro l’ideologia capitalista o socialista». Non è più infatti il confronto tra le ideologie a guidare la logica delle riforme. «Occorre riesaminare — ha notato ancora Sen la questione della libertà economica. E focalizzarsi sulle persone, sull’importanza della vita che viene condotta a e persone». La domanda che dobbiamo farci in defìnitiva ha a che fare con la ricchezza o la povertà delle condizioni di vita umana. È un tema particolarmente caro ai cattolici, un tema su cui si esprime la dottrina sociale della chiesa che, non a caso, al seminario di Bose è stata richiamata dal professore Luigi Pasinetti come interlocutrice utile delle dottrine economiche.

A Bose prove del "terzo polo". La strana “economia” del PD

Dal Seminario a Bose promosso da “Argomenti 2000” su «La crescita felice»

 

Giovanni Pedone Lauriel

 4 Luglio 2011

da dazebaonews.it


 Prove di “centro” al Monastero di Bose. Si è chiusa ieri la due giorni titolata “La crescita felice. Quale sviluppo economico per quale welfare”. Presenti al convegno, organizzato dall'associazione Argomenti 2000, Rosy Bindi, Pierluigi Castagnetti, Pierpaolo Barretta, Luigi Bobba, Mauro Marino, nell'indifferenza dell'informazione istituzionale del PD, forse per una eccessiva deriva al centro, ipotizzabile già prima dell'inizio dei lavori.

In apertura, l'intervento del Priore di Bose, Enzo Bianchi: la sobrietà è l'unico modo “per conciliare giustizia e solidarietà, curando i legami con le generazioni future nell'ottica di una equa distribuzione delle risorse”; in sintonia Rosy Bindi sull'obiettivo per la politica di “convincere tutti che un mondo più sobrio non fa male a nessuno, nemmeno ai più ricchi”.

Interventi di Alessandro Profumo ed economisti come Luigi Pasinetti e Laura Pennacchi sul maggior coinvolgimento dei privati nella realizzazione delle grandi opere, motivazione per i lavoratori e tassazione in base a criteri di equità in un mercato più libero.

Un ritorno al “centro”: per usare ancora le parole di Enzo Bianchi, “Ora non si tratta di ritornare indietro, ma di tornare al centro sì, all’asse che permette alla politica di rendere possibile ciò che è giusto, ciò che è doveroso, ciò che è necessario al “benessere” autentico, di tornare all’asse su cui economia di mercato e solidarietà, competitività e coesione sociale possono interagire ed essere coerenti con la ricerca della qualità della vita umana e della convivenza sociale”. Se questa è la nuova agenda politico-economica, non si vede altro che il già trito elenco della proposta programmatica di Varese del 2010. Il rilancio economico passa attraverso un nuovo welfare, le risorse pubbliche, ottenute, principalmente dalla tassazione generale, vanno indirizzate, per finanziare, non le agenzie di welfare, ma i soggetti fruitori dei servizi. Finanziando chi domanda i servizi si aumenta la loro responsabilità e il protagonismo della società.

 

ACQUA, NEL MONDO CATTOLICO TANTI «SI'»

9 giugno 2011

Il mondo cattolico riflette sui referendum e prende posizione, soprattutto per quanto riguarda i quesiti sull’acqua che «è e deve restare un bene comune». Questo ad esempio è l’invito di monsignor Giuseppe Fiorini Morosini, vescovo di Locri-Gerace: «L’acqua fra qualche anno sarà più preziosa del petrolio – ricorda il presule –. Non possiamo permettere che sia il privato a gestirla».

Anche il vescovo di Sessa Aurunca, monsignor Antonio Napoletano, sollecita i fedeli della sua diocesi «a considerare se non sia veramente il caso di sostenere la campagna referendaria di quanti invitano a votare sì».

In un documento della diocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, approvato dall’arcivescovo Giovan Battista Pichierri si fa notare che «l’acqua è un bene comune e va gestito - senza sprechi e inefficienze - dalla comunità». I rischi del nucleare, continua il testo, sono ancora maggiori dei benefici. E per il legittimo impedimento, esso «allunga i tempi per l’accertamento della responsabilità penale e per il risarcimento dei danni arrecati alle persone offese».

Anche per l’Azione cattolica di Cosenza-Bisignano «l’acqua non è una merce di scambio». Mentre don Aniello Tortora, direttore dell’Ufficio pastorale per i problemi sociali e lavoro di Nola sottolinea: «Andiamo a difendere un bene comune. L’acqua, elemento vitale, imprescindibile per la sopravvivenza».

La Chiesa di Nola, inoltre, «ritiene che sia necessario ripensare il problema dell’energia nucleare e perseguire la strada delle energie rinnovabili».

Un invito a votare per il sì ai quesiti riguardanti l’acqua giunge anche da don Alessandro Cirillo, responsabile della Commissione diocesana Giustizia e Pace di Nocera Inferiore-Sarno.

Mentre Unitalsi, Agesci e Modavi (Movimento delle associazioni di volontariato italiano) sollecitano gli iscritti a votare con consapevolezza.

Infine Francesco Zanotti, presidente della Fisc, riassume così la posizione dei Settimanali Cattolici: «Acqua: non è una merce qualsiasi e il suo uso deve essere razionale e solidale». Nucleare: «Si è posta, in particolare, la domanda su quale futuro intendiamo consegnare alle nuove generazioni». Legittimo impedimento: «Il dibattito è stato meno appassionato anche perché la gente si aspetta che su quesiti così complessi si esprima il legislatore».

Vedi dossier "Referendum 2011"