Economia

PER UN’ALTRA ECONOMIA, PER UNA SVOLTA IN EUROPA

Documento di 70 economisti promosso dal Forum CGIL per l’economia [1]

marzo 2012

Nel quinto anno della crisi globale più grave da quella del 1929, una drammatica prospettiva di recessione incombe sull'Europa mettendone a rischio non solo l'Euro ma anche il modello sociale e l'ideale della “piena e buona occupazione”, pur sancito in tutte le strategie europee, a partire dall'Agenda di Lisbona. È proprio nel Vecchio Continente infatti che si stanno ostinatamente portando avanti politiche economiche fortemente depressive che minacciano un aumento della disoccupazione, specialmente giovanile e femminile. Non a caso il Fondo Monetario Internazionale afferma che, anche a causa di ciò, il mondo corre il rischio di una nuova “grande depressione” stile anni '30.

L’attuale politica di risanamento non funziona

Eppure, si è scelta la linea dell'austerità, del rigore di bilancio - a cominciare dal Patto di Stabilità e Crescita, passando per il Patto Euro Plus, per arrivare all'attuale “Fiscal Compact” - con l'idea di contrarre il perimetro statale continuando a sperare che i privati aumentino investimenti e consumi, sulla base della fiducia indotta dalle immissioni di liquidità nel circuito bancario, a sua volta “sollecitato” ad acquistare titoli di stato europei. Si è, dunque, deliberatamente optato per la non-correzione delle distorsioni strutturali di un modello di sviluppo economico basato sui consumi individuali, sull'ipertrofia della finanza, sul sovrautilizzo delle risorse naturali e sull'indebitamento, in contraddizione con il modello sociale europeo. Si è nuovamente scelta una politica monetarista e liberista. Si è pensato di contrarre i deficit pubblici - e con essi spesa e investimenti pubblici - per ridurre il ricorso all'indebitamento, nel tentativo di arginare gli attacchi speculativi sui debiti sovrani, sperando così di salvare l'Euro e i precari equilibri economici tra gli Stati Membri. Ma non sta funzionando, perché non può funzionare.

Non basta scommettere sulle aspettative dei mercati finanziari, degli investitori privati, delle banche, dei consumatori. Non è sufficiente puntare sulla “credibilità” dei governi, anche se governi tecnici sostenuti da larghe maggioranze. La “crisi dei governi nazionali” è solo una delle tre crisi che si sovrappongono: restano da affrontare la “crisi delle economie nazionali” e la “crisi dell'economia sovranazionale”. Solo così, peraltro, si possono risolvere le debolezze strutturali delle democrazie nazionali piegate dagli interessi economico-finanziari costituiti. L’attuale quadro europeo rappresenta il frutto di una serie impressionante di errori: il mancato salvataggio iniziale della Grecia, che ha portato al dramma odierno di quel Paese, a cui è seguito il contagio degli altri debiti sovrani, con l’aggravante delle politiche deflattive imposte indiscriminatamente a tutti i Paesi dell’Unione monetaria.

Le principali fonti statistiche istituzionali prefigurano per il 2012 un’Europa divisa fra Paesi in stagnazione e Paesi in recessione, senza alcuna ripresa dell'occupazione. Tutto questo si sommerà alla prosecuzione delle tensioni sugli interessi dei titoli di lungo periodo della maggioranza degli Stati che inevitabilmente proseguirà. La disoccupazione ha assunto carattere strutturale. Il commercio internazionale registra un'imponente flessione e aumentano le misure protezionistiche. I Paesi emergenti rallentano vistosamente la crescita. Aumentano i poveri e le disuguaglianze sociali. Crollano le produzioni, i consumi, i risparmi e gli investimenti. Eppure, è evidente che tutte le linee di politica economica e di finanza pubblica adottate sinora non sono altro che una risposta alle sole conseguenze della crisi globale scoppiata nel 2008, ma non alle cause alla radice della stessa, in questo modo acuendone e persino moltiplicandone gli effetti. Il double dip [1] e il fendente speculativo sui debiti sovrani europei rappresentano un continuum della crisi scoppiata nel 2008 dovuto anche alla sottovalutazione scientifica della natura strutturale della recessione globale. È ormai noto che la crisi finanziaria è scaturita dal debito privato e che l’attuale stress dei bilanci pubblici è solo conseguenza e non causa della stessa crisi, anche se ciò sta ora creando un rischio di default per alcuni Paesi. La crisi finanziaria ha avuto inizio nella seconda metà del 2007 e la sequenza è stata: scoppio della bolla immobiliare, crisi finanziaria, credit crunch[2] , recessione, aumento dei disavanzi e dei debiti (per stabilizzatori automatici, manovre di sostegno all’economia reale e soprattutto salvataggi delle banche), attacco ai debiti sovrani, risposte sbagliate delle politiche economiche a partire dal 2009. Le cause della crisi - identificate anche dal FMI, dalla Commissione europea, dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro e da molte altre istituzioni internazionali - sono riscontrabili nell'aumento delle disuguaglianze, nel formarsi di squilibri strutturali nei rapporti commerciali tra i diversi Paesi e nella degenerazione della finanza.

Una crisi di modello

Questa è una crisi di modello e occorre una riforma del modello per ritrovare la ripresa. Bisogna assumere uno sguardo più vasto, una prospettiva di lungo periodo. Nemmeno i Paesi europei in avanzo commerciale, nei prossimi anni, potranno contare su una “locomotiva” americana o cinese, tanto meno sulla capacità di assorbimento degli altri Paesi europei. Anzi, proprio la divergenza competitiva dei Paesi dell'Area Euro impedisce la risoluzione della crisi. Inutile spostare la svalutazione competitiva dalla moneta ai costi della produzione e, più precisamente, al costo del lavoro. Inutile ridurre le pensioni, i beni collettivi e lo stato sociale. Questa è una crisi di domanda. La lezione che viene dalla crisi è chiara.

Il nodo che oggi si pone in Europa sta nel decidere se il riequilibrio inevitabile avverrà attraverso la “depressione” (con una ricaduta regressiva e democraticamente pericolosa) oppure con lungimiranti scelte di cooperazione, rilanciando l'originaria “spinta” europeista, evitando che i Paesi in disavanzo non intervengano sui propri squilibri e, allo stesso tempo, che i Paesi che hanno approfittato dell’Euro (come la Germania) accumulino surplus invece di svolgere la funzione di locomotiva a cui sono tenuti in un contesto di moneta unica. La partita non è ancora chiusa ma la risorsa tempo è drammaticamente scarsa. Occorre un salto di qualità nel promuovere e organizzare una proposta alternativa.

In questo quadro, le iniziative dei governi nazionali, comprese quelle del governo dei tecnici in Italia, non sono in grado di scongiurare il rischio di default finanziario di alcuni Paesi, rischio aggravato dall’effetto depressivo delle politiche europee e delle conseguenti politiche degli stessi governi. Abbiamo bisogno di nuova crescita economica ma questa non può che essere una crescita “nuova”, anche in direzione di un’economia della conoscenza e di un’economia sostenibile in termini ambientali, distributivi e sociali. Oggi più che mai “cosa produrre” è importante almeno quanto “come produrre”. Ci vuole un nuovo modello in cui lo Stato e le istituzioni sovranazionali orientino i risparmi, gli investimenti e lo sviluppo. È necessario dunque un programma di riforme appoggiato sui lineamenti di una nuova politica economica, ispirata da una nuova idea di sostenibilità di lungo periodo, economica, sociale, ambientale e intergenerazionale, fondata, in primo luogo, su investimenti e consumi collettivi.

Ridurre le diseguaglianze tra le persone ed i popoli

L'equità è la frontiera su cui orientare le scelte politiche nazionali e internazionali. Ridurre le disuguaglianze vuol dire crescere e crescere bene. Ridurle fra popoli, fra nazioni e all'interno degli Stati. Non a caso i Paesi europei con minori diseguaglianze - e quindi con gli indici di concentrazione del reddito e della ricchezza più bassi - sono anche quelli che stanno soffrendo meno la crisi e che si sono sviluppati meglio, con più PIL pro-capite e benessere diffuso (per limitarci all’Europa: Danimarca, Francia, Germania, Finlandia, Olanda, Svezia, Norvegia). Per questo, all’interno di un progetto di armonizzazione fiscale europea, ci vuole un riequilibrio dei singoli sistemi fiscali nazionali per aumentare la tassazione sulle grandi concentrazioni di reddito e di rendita, tassare le grandi ricchezze parassitarie e liberare le risorse private tenute imprigionate, aumentare la spesa e gli investimenti pubblici.

In sintesi, bisogna ripartire dal lavoro. Bisogna realizzare piani di spesa pubblica diretta per il lavoro e per gli investimenti - a partire da quelli verdi, infrastrutturali, ad alta intensità tecnologica e di conoscenza - finanziati con una tassazione ad hoc e anche in disavanzo, se necessario, tenendo insieme domanda e offerta. In altre parole: “socializzare gli investimenti e l’occupazione” per riqualificare l’offerta e aumentarne la produttività, sostenendo la domanda e, al tempo stesso, contenendo l'inflazione e il rapporto debito/PIL nel medio-lungo periodo. La capacità dello Stato di elaborare strategie d’investimento per realizzare questi obbiettivi può essere una leva anche per la mobilitazione del risparmio privato. L’imprescindibile disciplina di bilancio, in ragione del consolidamento strutturale nel lungo periodo, va realizzata in modo lungimirante ma coerente con la scelta della via alta della competitività, della ricerca della piena occupazione e della qualità delle produzioni, con l'aiuto e lo stimolo dell’intervento pubblico, coordinato a livello europeo.

Europeizzare il debito, immettere moneta

È proprio l'inadeguata architettura dell'Euro che offre l'opportunità alla speculazione di agire. Il disegno istituzionale dell'Euro priva i singoli Paesi della possibilità di emettere moneta e di svalutare. Ma non garantisce il debito pubblico. Qualunque Paese può essere aggredito, con successo, in queste condizioni. Chi specula, infatti, non dovrà temere né la svalutazione, né l'acquisto di titoli da parte della Banca Centrale. L'attuale configurazione della BCE mette gli stati dell'Euro in soggezione dei mercati. Condizione necessaria alla realizzazione di politiche alternative diventa il rafforzamento della governance democratica europea, attraverso innanzitutto l’europeizzazione del debito dei Paesi dell'Unione monetaria e la modifica dei trattati europei affinché la BCE possa emettere moneta a garanzia dei debiti pubblici e diventare a tutti gli effetti “prestatore di ultima istanza”. Numerose le proposte in tal senso; come quella presentata dai “cinque saggi” tedeschi che pensano ad un fondo che smaltisca nel lunghissimo periodo la parte di debiti pubblici europei che eccede il 60%. Basterebbe prendere le proposte in considerazione e non derubricarle ideologicamente.

L’Europa non è stabile e non cresce. Il Patto di Stabilità e Crescita è certamente fallito, non perché non sia stato ben applicato, semplicemente perché non poteva funzionare. Il Patto di stabilità andrebbe non rafforzato, ma cambiato. Invece del solo indebitamento pubblico, i parametri vincolanti di riferimento dovrebbero comprendere il debito totale - somma del debito pubblico e privato -, il debito sull’estero e il saldo della bilancia dei pagamenti di ciascun Paese. È necessario inoltre includere tra i parametri un obiettivo di crescita e un obiettivo occupazionale perché l'Europa deve tornare a porsi la finalità della piena occupazione. Bisognerebbe, appunto, partire dalla crescita e non dalla stabilità, per regolare su di essa la politica macroeconomica, definendo poi il tasso di inflazione e il livello dei deficit pubblici accettabili in una determinata fase, articolando il tutto tra i vari Paesi dell’Unione anche con l’obiettivo di ridurne le divergenze di competitività. Occorre recuperare una politica industriale, europea e dei singoli Stati, in grado di sostenere e riorganizzare i fattori per una “nuova crescita”, anche imponendo un modello redistributivo funzionale alla sua implementazione ed alla sua qualità. D’altra parte, la crisi può essere scongiurata solo se il peso del riequilibrio commerciale e finanziario graverà oltre che sulle spalle dei Paesi debitori anche su quelle dei Paesi creditori, attraverso un’espansione della domanda da parte di questi ultimi. In questa prospettiva è necessaria una politica dei redditi europea fondata sulla leva fiscale, sul welfare e, soprattutto, su uno “standard retributivo europeo” che garantisca, a livello di area e con le differenze coerenti con l'obbiettivo della convergenza dei livelli di competitività, una crescita delle retribuzioni reali almeno uguale alla crescita della produttività. Tutto ciò significa avere una strategia di crescita a livello europeo e far compiere sia pure gradualmente un salto all’unità politica.

Queste sono le prerogative per l'avvio di una vera unificazione fiscale, distinguendo il “debito buono” dal “debito cattivo” come condizione per politiche di sviluppo di dimensione europea, stimolando la definanziarizzazione delle economie avanzate e il controllo dei movimenti di capitale (cominciando con la separazione delle banche commerciali da quelle di investimento e con l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie internazionali che può servire a limitare la libertà di movimento speculativo dei capitali) in funzione delle prospettive dell'economia reale, riaprendo così una prospettiva di futuro per le nuove generazioni. Le istituzioni europee vanno, per questo, democratizzate rafforzando il Parlamento europeo e introducendo il voto a maggioranza qualificata ed il peso dei diversi Stati secondo la loro popolazione.

Ultimo avviso ai naviganti

Il presente appello vuole proporre un ultimo “avviso ai naviganti”.

  • Pur consapevoli delle difficoltà e delle spinte diverse che portano le istituzioni europee e i governi nazionali ad adottare politiche di corto respiro strategico e riformatore, crediamo che la visione dei conservatori europei non possa costituire una soluzione alla crisi. Le politiche europee attuali insistono su un approccio sbagliato.
  • A tutti coloro che - in buona fede - continuano a credere nei presupposti scientifici in base ai quali si ritiene che attraverso le politiche in atto si possa migliorare la situazione economica e finanziaria globale, europea e nazionale (compresa quella italiana), suggeriamo di “dubitare” delle loro posizioni. A tutti coloro, invece, più consapevoli dell'impatto economico e sociale che la politica delle diseguaglianze e dell'austerità incentrata sul mantra “meno Stato, più mercato” sta generando sull'umanità, chiediamo di assumere un atto di denuncia e di responsabilità per correggere una traiettoria altrimenti irrimediabilmente segnata. Occorrono il coraggio e la visione per imporre una nuova politica economica.
  • A tutti coloro che dispongono di questo coraggio e di questa visione, chiediamo di usarli per cambiare la storia.

Adesioni


Acocella Nicola Università di Roma "La Sapienza", Amato Massimo Università Bocconi, Andriani Silvano Presidente CESPI, Antonelli Cristiano Università di Torino, Arachi Giampaolo Università del Salento, Artoni Roberto Università Bocconi, Baranes Andrea Economista, Biasco Salvatore Università “La Sapienza” Roma, Bosi Paolo Università di Modena , Brancaccio Emiliano Università del Sannio, Cacace Nicola Presidente Onesis di Roma, Canale Rosaria Rita Università di Napoli "Parthenope", Carlo Giannone Università del Sannio, Carra Aldo Economista, Caselli Gian Paolo Università di Modena e Reggio E., Cesaratto Sergio Università di Siena, Clericetti Carlo   Giornalista Economico, De Marzo Giuseppe Portavoce Associazione A Sud, De Vivo Giancarlo Università di Napoli "Federico II", Devillanova Carlo Università Bocconi, Di Maio Amedeo Università di Napoli “L'Orientale”, Eboli Maria Giuseppina Università “La Sapienza” Roma, Fantacci Luca Università Bocconi, Ferrari Sergio già Direttore Generale ENEA, Franzini Maurizio Università' di Roma "La Sapienza", Gianni Alfonso già Sottosegretario di Stato Tesoro e Bilancio, Ginzburg Andrea Università di Modena e Reggio E., Gnesutta Claudio Università “La Sapienza” Roma, Gottardi Donata Università di Verona, Granaglia Elena Università Roma Tre, Grillo Michele Università Cattolica di Milano, Leon Paolo Università Roma Tre, Leoni Riccardo Università di Bergamo, Lettieri Antonio Presidente Centro Internazionale di Studi Sociali, Lucarelli Stefano Università di Bergamo, Macciotta Giorgio già Sottosegretario di Stato Tesoro e Bilancio, Marcon Giulio Portavoce della campagna Sbilanciamoci, Masina Pietro Università di Napoli “L'Orientale”, Merletto Gerardo Università di Sassari, Militello Giacintogià componente Comm. Antitrust, Montebugnoli Alessandro Università' di Roma "La Sapienza", Paladini Ruggero Università' di Roma "La Sapienza", Palma Daniela ENEA, Pennacchi Laura Fondazione Basso, Petri Fabio Università di Siena, Pini Paolo Università di Ferrara, Pizzuti Felice Roberto Università “La Sapienza” Roma, Pochini Silvia Università di Pisa, Raitano Michele Università di Roma "La Sapienza", Ramazzotti Paolo Università di Macerata, Ricci Andrea Economista ISFOL, Ricci Gilberto Economista, Ricottilli Massimo Università di Bologna, Romano Roberto Economista, Ruffolo Giorgio Presidente Centro Europa Ricerche, Russo Vincenzo            Università “La Sapienza” Roma, Scacciati Francesco Università di Torino, Sdogati Fabio Politecnico di Milano, Solari Stefano Università di Padova, Stirati Antonella Università Roma Tre, Stroffolini Francesca Università di Napoli "Federico II", Sylos Labini Stefano Ricercatore ENEA, Tamborini Roberto Università di Trento, Tiberi Mario Università “La Sapienza” Roma, Tomassi Federico Università' di Roma "La Sapienza", Travaglini Giuseppe Università di Urbino “Carlo Bo”, Visco Vincenzo Presidente NENS, già Ministro delle Finanze.



[1] Double dip: Recessione a forma di “w”, espressione con cui si indica un particolare tipo di crisi recessiva: dopo un iniziale picco negativo l’economia torna a crescere per un periodo, per poi crollare nuovamente; l’andamento della recessione economica iniziata nel 2008 sembra seguire questo schema.

[2] Credit crunch: Stretta creditizia.

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[1] Notizia segnalata da: Economia Democratica

5a Lettera da "Economia Democratica"

Roma, 17 luglio 2012

Cari Amici,

1) cominciamo da due notizie, che sono a tutti note, ma che citiamo qui da due fonti recenti.

La prima la prendiamo da una nota di Alfiero Grandi pubblicata il 27 giugno scorso nel sito dell’Associazione per il Rinnovamento della Sinistra (di cui è Presidente), e dice che la finanza internazionale in poco più di due decenni è passata dall’essere inferiore al PIL mondiale fino a diventare oggi almeno dieci volte tanto. In un successivo articolo del 16 luglio lo stesso autore spiega come la mostruosa mole del capitale finanziario (pari a 600.000 miliardi di dollari) che gira per il mondo, senza alcun rapporto con l’economia reale e unicamente proteso alla produzione di capitale finanziario mediante il capitale finanziario, ha effetti pervasivi e totalizzanti. Esso invade e assoggetta ormai anche la sfera dei consumi, nonché quella “delle abitudini, perfino dei valori e dell’etica. Soprattutto rappresenta un poderoso vincolo sull’esercizio della democrazia moderna ed in particolare sulla possibilità di esercitare, nel suo ambito, le scelte politiche.

La seconda notizia la riprendiamo da una recensione del cardinale Gianfranco Ravasi a un libro di Craig L. Blomberg (“Né povertà né ricchezza”, edizioni Gbu, Chieti) uscita su “Il sole 24 ore” del 15 luglio scorso; egli denuncia lo “scandalo” del “dato statistico di base”per il quale “il 2 per cento della popolazione adulta del nostro pianeta possiede più della metà della ricchezza mondiale”.

Queste due notizie dicono una cosa sola: che all’origine della crisi economica che aggredisce la vita e la pace del mondo, c’è una spaventosa diseguaglianza che rovescia la ricchezza in povertà. Esse dicono altresì che, negli ultimi decenni, all’origine del precipitare delle vecchie e nuove disuguaglianze e quindi quale vera causa della crisi, c’è una rinunzia della sfera pubblica a governare l’economia, e c’è una rinunzia dell’economia, consegnata alla sfera privata, a perseguire il proprio fine di soddisfare i bisogni umani, per consegnarsi invece all’economia monetaria e mettersi al servizio della speculazione finanziaria.

Ciò non è avvenuto per caso ma è il frutto di scelte ideologiche e politiche che sono state compiute negli anni da tutte le classi dirigenti dell’Occidente (ma ormai egemoni anche in Oriente) con risultati che rivelano clamorosamente la fallacia di tutte le loro promesse elettorali.

Se questa è la dimensione reale della crisi, ciò significa che la sua soluzione non può essere trovata nell’ambito dei singoli Stati e nemmeno, per quanto ci riguarda, nel pur imprescindibile spazio europeo, ma va perseguita e costruita sul piano mondiale, a livello dell’economia globale, come si cominciò a fare dopo la seconda guerra mondiale, col tentativo keynesiano degli accordi di Bretton Woods, una delle “rivoluzioni interrotte” del Novecento.

Promuovere un’“economia democratica” vuol dire riprendere questo cammino nelle nuove condizioni della comunità mondiale. I due binari sui quali instradarsi sono di fare dell’eguaglianza la bussola dell’economia e di fare della democrazia internazionale la casa (oikós) di un’economia al servizio dei bisogni umani.

 

2) Il Senato in quattro e quattr’otto, nel silenzio mediatico e nel disinteresse generale, ha votato il 12 luglio a favore della ratifica del Fiscal Compact. Hanno votato a favore tutti e tre i partiti della coalizione di governo (tranne il senatore Vito del PD), contro la Lega, astenuta l’IDV: 216 sì, 24 no, 21 astenuti, una maggioranza schiacciante. Il Fiscal Compact è il patto europeo di stabilità che ci obbliga a dimezzare il nostro debito pubblico in venti anni e a mettere in Costituzione i vincoli decisi in sede europea. E’ stato calcolato che ciò comporterà un aggravio per l’erario di 40-50 miliardi all’anno per venti anni, che aggiunti a crescenti interessi per il debito, immobilizzeranno ingenti risorse, drenando denaro, riducendo la domanda e provocando recessione e deflazione, con altissimi costi sociali. Ciò però non sembra far parte del dibattito pubblico. Il significato del Fiscal Compact (accusato di essere recessivo dallo stesso relatore di maggioranza sen. Morando) è di rendere irreversibile l’attuale linea di politica economica e finanziaria che prevale in Europa, che è sostenuta dalla Germania ed è gestita dai tecnici di Bruxelles. Porre in essere scelte definitive e fatti compiuti è funzionale alla perpetuazione della linea Monti e probabilmente della stessa formula politica che la rappresenta, anche dopo le elezioni politiche del 2013, secondo la tesi sostenuta dai “continuisti”. Ciò che appunto deve essere discusso.

 

3) Mentre al Senato si decide in questi giorni delle riforme costituzionali, sono in corso le trattative, sollecitate dallo stesso Presidente della Repubblica, per la nuova legge elettorale. Nella circostanza i Comitati Dossetti per la Costituzione hanno riproposto, e inviato a tutti i parlamentari, un appello lanciato già nel novembre scorso, contro l’esibizione di un nome di persona nei simboli elettorali: ciò per scoraggiare il culto della personalità ed evitare il protagonismo dei leader di turno i cui amari frutti si sono manifestati negli ultimi venti anni. “Economia Democratica” fa proprio questo appello dei Comitati Dossetti e aggiunge che nella nuova legge elettorale dovrebbe essere proibita qualsiasi compensazione finanziaria e qualsiasi forma di contrattualizzazione del rapporto tra i singoli candidati e i partiti che li mettono in lista: norma che dovrebbe essere superflua ma che purtroppo è suggerita da molti casi occorsi in questi anni, in aperta violazione dell’art. 67 della Costituzione che vieta ogni vincolo di mandato.

 

Con i più cordiali saluti.

 

Economia Democratica

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Vedi Dossier: Economia Democratica

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P.S.: vi mandiamo in allegato un documento lanciato nel marzo scorso dal Forum CGIL dell’economia e firmato da settanta autorevoli economisti (tra i primi firmatari Acocella, Amato e Andriani) in cui sono contenute molte valutazioni e proposte che potranno entrare nel nostro dibattito e formare oggetto di riflessione e di scelte politiche nei prossimi mesi e l'appello promosso dai Comitati Dossetti "Contro il culto della personalità nei simboli elettorali".

4a Lettera da "Economia Democratica"

Roma, 9 luglio 2012

A tutti gli iscritti a Economia Democratica

Cari Amici,

il rimprovero rivolto dal Presidente Monti al Presidente della Confindustria, che a proposito del decreto del governo sulla spesa aveva detto che “dobbiamo evitare la macelleria sociale”, rende manifesto come l’attuale forma economica sia incompatibile con la democrazia. Secondo il presidente del consiglio infatti tali giudizi farebbero “salire lo Spread”. In realtà sarebbe difficile non discutere provvedimenti che tagliano i fondi anche per il vestiario nelle carceri, come se le condizioni dei detenuti in Italia fossero già troppo felici. Ma al di là del fatto specifico, il bisogno di silenzio del governo  dimostra che questa economia non solo contravviene all’obbligo costituzionale che la vorrebbe indirizzata a fini sociali e non in contrasto con la sicurezza, la libertà e la dignità umana, ma richiede anche la rinuncia al diritto civile e politico alla libera manifestazione del pensiero tutelato dall’art. 21 della Costituzione. Il presidente Monti ha anche adombrato l’idea che il prossimo “ritorno a un normale processo elettorale” possa risolversi in un danno per l’Italia rispetto all’Europa e ai mercati. Tutto ciò significa che l’attuale forma economica non può svolgersi in un vero quadro democratico, sia quanto ai contenuti sostanziali della democrazia, sia quanto ai postulati della democrazia politica e dei diritti umani universali.

Con questa osservazione si può collegare l’altra che deriva dall’iniziativa dell’ex presidente del Senato Pera, che ha proposto, senza adeguate reazioni del mondo politico, l’elezione di una assemblea costituente di 75 membri per cambiare in dodici mesi la forma dello Stato e sostituire la Costituzione vigente con una nuova Costituzione. Dunque non una revisione costituzionale, ma un sovvertimento del Patto del 47. Quest’ultima iniziativa rivela la verità nascosta anche degli altri tentativi in atto di modifica costituzionale: dalla “piccola riforma” che aveva trovato in Senato un accordo di tutte e tre le forze di maggioranza (oltre i due terzi del Parlamento), alla riforma presidenzialistica di Berlusconi, alla riforma federalistica della Lega, alla proposta di un referendum di scelta tra presidenzialismo e premierato forte presentata dai sen. Chiti e Ceccanti, e caldeggiata da autorevoli esponenti del gruppo senatoriale del PD. Tutte le proposte hanno di fatto in comune il ridimensionamento del Parlamento e il passaggio dalla Repubblica parlamentare ad altre forme,  verticistiche, personalistiche e più incondizionate, di governo. Anche contro l’intenzione di qualcuno dei proponenti il senso è chiaro: se l’economia è incompatibile con la democrazia, raffreddiamo o spegniamo la democrazia.

Da tutto ciò deriva la vitale importanza di un movimento come Economia Democratica, la cui missione è di concorrere a creare una coscienza popolare e a indurre tutti i protagonisti della legislazione e della politica a promuovere invece la conversione dell’economia, interna e internazionale, per renderla compatibile e protesa alla difesa e a una piena attuazione della democrazia.

Perciò Economia Democratica continua a sollecitare adesioni per poter giungere a convocare l’assemblea costitutiva dell’associazione e del movimento. Preghiamo tutti gli iscritti di contribuire a questo risultato.

A quanti non hanno inviato la liberatoria per la pubblicazione del loro nome tra gli aderenti, e a quanti non hanno ancora inviato il proprio personale “Chi è”, ossia una breve nota biografica da pubblicare sul sito, preghiamo di farlo al più presto.

Con i più cordiali saluti

Economia Democratica

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Vedi Dossier: Economia Democratica

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Allegati:

1) Un articolo del prof. Mario Pianta sui risultati del vertice di Bruxelles del 28 – 29 giugno 2012.

2) Un articolo di Rossana Rossanda, “L’Europa difficile” sul vertice di Bruxelles e sul Forum “Un’altra strada per l’Europa”.

3) Una relazione del prof. Umberto Romagnoli, già ordinario del diritto del lavoro all’Università di Bologna, sul diritto del lavoro nel momento in cui l’emergenza economica diventa “emergenza democratica”.

 

Europa, la politica che manca

Il Consiglio europeo di Bruxelles

Mario Pianta

da Il Manifesto - 1 luglio 2012

 

In un’Europa abituata dallo scoppio della crisi a piegarsi ai voleri di Berlino, l’esito del Consiglio europeo di venerdì è stato presentato – a seconda dei paesi –  come una resa di Angela Merkel o una vittoria di Monti, Rajoy o Hollande. La politica è fatta (anche) di queste immagini, e – come ha detto Giuliano Amato al Sole 24 Ore - “Monti è riuscito a trovare uno spiraglio”. Ad aprirlo è stato l’arrivo del presidente socialista in Francia che ha alleggerito (ma non rotto) l’asse Berlino-Parigi e consentito l’irrigidimento di Roma e Madrid sulle misure per ridurre i tassi d’interesse. La lezione politica che viene da Bruxelles è che l’alleanza tra i paesi della periferia e la Francia potrebbe dettare i termini delle politiche europee non meno di quanto abbia fatto finora la Germania.  Toccherebbe ora a Monti occupare lo spazio ottenuto convocando a Roma un vertice dei paesi più colpiti dalla speculazione per definire i termini di un “patto sul debito” che introduca eurobond, responsabilità comune del debito, riduzione degli squilibri creati dalla Germania. Tutti temi nemmeno nominati a Bruxelles: il New York Times, maligno, suggerisce che Angela Merkel abbia acconsentito all’azione “antispread” in modo da evitare ogni dibattito su queste misure ben più impegnative.

Veniamo all’Italia. Per il nostro paese ritrovare un ruolo diplomatico internazionale – dopo il vuoto assoluto di Berlusconi – è un ritorno alla normalità che appare come un imprevisto successo. A Roma Monti è più forte, ma la direzione in cui si muove non cambia: in cima all’agenda ha il taglio della spesa pubblica e la riduzione degli statali. Nulla cambia anche sulla finanza: a Bruxelles non si è parlato di tassare le transazioni finanziarie e a Monti va bene così; lo stesso sui soldi per salvare le banche; l’unica preoccupazione del governo è non dover pagare un conto troppo salato per i tassi d’interesse sul debito pubblico. Ma lo strumento scelto è “rassicurare” i mercati, non limitarne le attività speculative.

Ovvia l’euforia della finanza di venerdì, ma quanto potrà durare? Facciamoci due conti in tasca. Quest’anno il Pil italiano potrebbe cadere del 2% (fonte Fondo monetario) e con tassi d’interesse intorno al 6% il rapporto debito/Pil potrebbe  arrivare a fine anno intorno al 125%, anche con pareggio di bilancio e politiche di austerità. Non esattamente un risultato capace di eliminare gli spazi per la speculazione contro i titoli di stato. Il conto sarà salato: ai tassi attuali, nel 2012 l’Italia potrebbe pagare circa 95 miliardi di interessi sul debito (erano 80 l’anno scorso), il 12% della spesa pubblica totale, soldi sottratti a scuola e sanità e consegnati alla rendita finanziaria.

Vediamo ora i conti del Meccanismo europeo di stabilità, che dovrebbe essere il protagonista degli interventi decisi al vertice europeo. Dovrebbe avere 500 miliardi di euro dai paesi membri e non potrà finanziarsi presso la Banca centrale europea. Di questi, 100 sono destinati alle banche spagnole, in fila per avere nuovi fondi si metteranno Cipro e Slovenia, l’Irlanda che vuole condizioni migliori per le proprie banche, il Portogallo che non ha più credito, la Grecia che deve rinegoziare il Memorandum  (altro tema tabù al Consiglio europeo). Con quello che resta si potranno comprare titoli di stato di Spagna, Italia e così via, in modo da tenere i tassi sotto un livello ancora indefinito. E’ difficile che obiettivi vaghi e risorse incerte possano riuscire a fermare la speculazione.

Da quando è scoppiata la crisi l’Europa ha dato alle banche 4500 miliardi di soldi pubblici e liquidità della Banca centrale; come notava ieri Anna Maria Merlo su questo giornale, si tratta di un terzo del Pil europeo. In cambio di queste enormi risorse non è stata introdotta la minima condizionalità: niente proprietà pubblica, nessuna divisione tra banche d’affari e commerciali, niente priorità al credito a famiglie e imprese, niente divieto di transazioni ad alto rischio, nessun limite ai derivati, niente stop ai pagamenti stratosferici dei banchieri, niente tasse armonizzate sulla finanza. Nulla di tutto questo sta nell’annuncio dell’”unione bancaria” tra i paesi euro decisa a Bruxelles. Cinque anni dopo l’inizio della crisi la finanza continua a operare come nulla fosse, imponendo enormi costi alle economie europee. E’ incredibile che la politica – a Bruxelles, come a Roma - non voglia vedere quest’enormità, e agire per ridimensionare la speculazione.

Intanto i conti dell’economia reale sono sempre più in rosso. Per Confindustria la produzione industriale in Italia è oggi del 24% inferiore al livello di prima della crisi; la perdita di occupazione dilaga, salari e consumi sono a picco. I 120 miliardi di euro “fantasma” del “patto per la crescita” deciso a Bruxelles non faranno nulla per migliorare questi conti, mentre non ci sono ripensamenti sulle politiche di austerità imposte dal “patto fiscale”.

Per l’insieme dell’economia europea, l’effetto del vertice di Bruxelles è un temporaneo rallentamento della speculazione finanziaria e una continua corsa verso la depressione. I richiami a cambiare strada non mancano. In contemporanea al Consiglio europeo, il Gruppo Spinelli - che riunisce personalità della politica europea che vanno da Romano Prodi a Daniel Cohn-Bendit – ha chiesto eurobond,  mutualizzazione del debito e armonizzazione delle tasse sulle imprese, accompagnate da un “patto federale” che introduca un po’ di democrazia in Europa. Più radicali le proposte del Forum “Un’altra strada per l’Europa” che ha riunito al Parlamento europeo a Bruxelles movimenti sociali, sindacati e forze politiche progressiste, con il manifesto e Sbilanciamoci! tra i protagonisti. Sull’urgenza di limitare la finanza, affrontare il debito e passare dall’austerità a un “new deal” di sviluppo sostenibile le convergenze di forze sociali, economisti e personalità politiche sono ormai larghissime. Quello che manca – a Roma come in Europa - continua a essere la voce e il potere della politica.

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Articolo riferito da "Economia Democratica"

Oltre le ragioni del mercato:

un altro modello di sviluppo

 

Pier Paolo Baretta

26 Maggio 2012

intervento presentato all'Assemblea nazionale congressuale di Agire Politicamente - Roma

"Il mendicante privo di speranze, il bracciante precario, la massaia oppressa dal marito, il disoccupato incattivito o l'esausto facchino possono tutti trovare piacere in piccole cose e riuscire a sopprimere un'intensa sofferenza per la necessità di continuare a sopravvivere, ma sarebbe profondamente errato dal punto di vista etico assegnare per via di questa strategia di sopravvivenza un valore corrispondentemente piccolo alla perdita del loro benessere. 

(A. Sen - Etica ed economia) 

 

Questa intensa frase di A. Sen ben rappresenta il significato profondo del nostro ragionamento. La contraddizione è palese: la povertà assoluta esiste (e non è solo materiale: “la massaia oppressa dal marito”); come esiste quella relativa, ma la loro relazione è opinabile, come lo è stabilire graduatorie, che pretendono di essere obiettive, tra malessere e benessere.

Il problema irrisolto della economia, del mercato, delle istituzioni, ma, in primis, della politica, consiste nella difficoltà di definire, in maniera condivisa e più “giusta” possibile, il bene comune e di adottare, nelle scelte che compiamo, una visione dei processi economici e sociali, degli strumenti da adottare, dei compromessi necessari, decisamente orientati al suo raggiungimento.

In che misura una esplicita opzione etica in economia è controcorrente rispetto ad una idea, che ci appare ancora prevalente, che vede la libertà di mercato come indipendenza da regole? O, al contrario, un approccio etico all’economia si sta affermando come il solo che ci consente di uscire decentemente da questa drammatica crisi? La risposta a questa domanda non è scontata perché entrambe le opzioni sono in campo e si contendono il primato.

Dopo la caduta del muro di Berlino ed il suicidio del modello socialista è sembrato a molti che stessimo assistendo alla completa vittoria del liberismo. Per anni molti lo hanno teorizzato. Perfino autorevoli istituzioni quali la Banca mondiale ed il Fondo monetario, hanno imposto ricette liberiste alle nascenti economie lasciate in balia della nuova globalizzazione dalla fine del blocco comunista.

È stata una illusione ottica, durata ben poco. Le crepe del modello capitalistico sono emerse in tutta la loro profondità e la crisi che stiamo attraversando le ha acutizzate. Al tempo stesso, la globalizzazione ci apre scenari inediti. I modelli emergenti rappresentati dai paesi del Brics ci consegnano non un capitalismo, ma più capitalismi, taluni con forti accenti populisti (il Brasile, che, però, è il solo paese al mondo nel quale in questi ultimi anni si sono ridotte le disuguaglianze), altri (come la Cina e la Russia) addirittura non democratici, contravvenendo al paradigma che teorizza un legame indissolubile tra il capitalismo e la libertà.

Nel frattempo, l’Occidente - il ricco, opulento, stanco, caro (sotto entrambe le accezioni del termine: affettiva e quantitativa!) Occidente - invecchia e fatica a garantire ai propri cittadini i livelli di benessere e di welfare raggiunti.

E, l’Europa, mentre è chiamata a fare i conti, probabilmente, con la fine di un ciclo storico, resta abbarbicata a piccole, grandi gelosie territoriali, non riesce a fare gli Stati Uniti d’Europa, mentre i suoi Stati Nazionali sono schiacciati dai debiti sovrani, cioè dalla loro insolvenza e, potrebbero, addirittura, fallire come una qualsiasi società per azioni.

E’, dunque, uno scenario totalmente aperto quello che abbiamo di fronte a noi. Un mondo nuovo che non può essere retto da schemi vecchi.

Anche il mercato è al centro di questa riflessione. Considerato il principale colpevole dei nostri guai, soprattutto il mercato finanziario ha preso in mano le redini del gioco. Il predominio della finanza ha cambiato la natura stessa del mercato e dell’imprenditore, del capitalista e del risparmiatore. E, se, ha, positivamente, introdotto il concetto di “valore”, ampliando la visuale rispetto a quello ristretto di profitto, ha messo nell'angolo il ruolo regolatore della politica, delegandogli, al più - attraverso il copioso e reiterato salvataggio delle banche - quello di finanziatore dei... finanziatori.

Ma in fin dei conti, cos’è questo mercato? Percepito e trattato, in generale, come una entità astratta e quasi metafisica, misteriosa ed impalpabile, altro non è che la somma di tanti comportamenti individuali e collettivi. Per cui ho l’impressione che più che parlare del “mercato” dovremo, innanzi tutto, parlare di noi. Dei banchieri, più che delle banche, degli investitori più che delle transazioni, dei risparmiatori più che dei depositi.

Certo non tutti i poteri sono uguali: il singolo pensionato che investe i suoi risparmi non ha la stessa responsabilità del grande finanziere, ma il punto è che il mercato non vive ed opera in una sorta di limbo democratico, ma agisce in nome e per conto degli input che gli diamo noi…

Se il mercato appare spesso come un sicario, i mandanti siamo noi.

Anche il mercato, quindi, ha le sue ragioni! Certo, sono ragioni che…il cuore non conosce, ma sono pur sempre ragioni, motivazioni, alibi, scuse (chiamatele come meglio vi pare). Per quanto opinabili, controverse, scomode, è opportuno comprenderle. Tanto più se vogliamo…andare oltre!

Che fa il mercato finanziario? Beh, quando non fa il cattivo, crea valore; cioè accresce le disponibilità finanziarie ed economiche complessive, finanzia investimenti, favorisce la loro redistribuzione. Insomma sostiene l’altro mercato: quello delle merci, dei capitali e delle risorse umane. In tal modo, fa crescere l’economia ed il benessere. Che questa crescita poi sia a vantaggio di pochi o “pro multis” è un aspetto che dovrebbe interessare più alla politica che al mercato.

Cominciamo col dire che questo è il vero ruolo che spetta alla finanza. E che, in quest’ottica, ce ne vorrebbe di più di finanza, non di meno.

Quando Mohamed Yunus la incontrò, Sufia Begum si procurava le materie prime per produrre sgabelli con un prestito di 20 centesimi ottenuto dagli stessi che poi si comperavano gli sgabelli a 22 cent. Yunus si rese conto che l’assenza di credito rendeva quella donna una schiava ed avviò il microcredito. In un decreto di qualche settimana fa lo abbiamo, finalmente, legittimato anche in Italia.

Un mercato virtuoso è dunque possibile. I fondi previdenziali e sanitari dei lavoratori; il commercio equo e solidale, i gas o Km zero o le cooperative di produzione e di consumo, le Banche etiche o di credito cooperativo, il no profit, sono tutte tessere di un mosaico importante. E’ un errore viverle con un approccio minoritario o di nicchia, come talvolta capita agli stessi promotori.

Per secoli, dai templari ai francescani, dai benedettini alla rivoluzione industriale, i soldi servivano a finanziare imprese e lavoro. Anche guerre, in verità, ma sempre attività e cose. E’ con i primi del ‘900 e, soprattutto con la prima guerra mondiale che avviene la inversione dei ruoli. La finanza si rende autonoma dallo scopo per il quale è nata e si gioca la partita in proprio e si apre un’epoca nella quale si consolida l’idea che oltre che col lavoro, i soldi si fanno con i soldi.

La tentazione si fa forte ed ecco che, quando il mercato deborda, diventa cattivo e, come tutti i cattivi che si rispettino... specula! Approfitta, cioè, degli errori e delle debolezze altrui per guadagnarci. Questa devianza è il volto che il mercato finanziario ha mostrato ai nostri occhi, soprattutto in questi ultimi anni di crisi drammatica.

Si tratta, come ho detto, di una devianza, ma non di una eccezione; bensì di una componente strutturale, fisiologica della natura del mercato. Come, nella natura umana, lo sono il bene ed il male, la salute e la malattia.

Ci sono momenti nella Storia (e, ahimè, nemmeno tanto rari) e nella vita delle persone, nei quali un concentrato di condizioni culturali, sociali, economiche, politiche, ambientali e fisiche, si aggroviglia, fa corto circuito, e le energie negative prevalgono. Basta pensare alle guerre, alle dittature, alle epidemie.

Una volta si pensava che fossero fenomeni di origine sovrannaturale, un castigo divino. Poi si è capito che le dipendevano dal disordine economico o politico, dalla bramosia o dalla sete di potere, dalla debolezza delle strutture di rappresentanza degli interessi e delle opinioni (la Democrazia!), dalle condizioni ambientali.

Sicché, per prevenire, arginare o concludere i conflitti si è, sempre, ricorso ai trattati o agli scambi commerciali (o matrimoniali) o alle elezioni; mentre per debellare le malattie o contenerne i disastri, talvolta bastavano nuove e buone pratiche igieniche e più rispetto per l’ambiente.

E’ così anche per il mercato. Ci sono situazioni, come quelle descritte, nelle quali le energie negative prevalgono e producono (come è elegantemente scritto nelle scatole di medicinali) degli “effetti indesiderati”.

La crisi dei tulipani nell’Olanda del XVII secolo (la prima bolla del sistema finanziario moderno), quella del 1929, e, più di recente, la Thailandia, l’Argentina, ora la Grecia… sono tutti effetti indesiderati, ma ricorrenti.

Soffermiamoci un momenti sui tulipani. Introdotti in Olanda dalla Turchia nella seconda metà del ‘500, furono ben presto considerati dei beni di piacere e di lusso. In una società che si arricchiva (non dimentichiamo che l’Olanda era una delle più importanti potenze coloniali!) crebbe una specie di…tulipano mania. E, i prezzi salirono. Le coltivazioni si diversificarono e venivano proposti al mercato sempre nuovi prodotti, dai colori sempre più sgargianti e dai nomi sempre più esotici (vengono in mente i telefonini o i tablet…). Attorno al 1630 un bulbo poteva valere 7 volte di più del reddito medio annuo, Furono quotati in borsa, scambiati con case e terreni, Si impegnavano i raccolti prima ancora della semina (una specie di futures ante litteram!). Ma, all’improvviso, senza un motivo apparente, se non la saturazione generale, nel febbraio del 1637 il prezzo smise di salire. I commercianti, allora, cominciarono a vendere ed il prezzo scese. Fu il panico ed il prezzo crollo, In poco tempo molte persone, famiglie, società possedevano quantità di tulipani che valevano molto meno del prezzo al quale li avevano acquistati, o perché avevano impegnato cifre enormi per acquistare tulipani che ormai non valevano quasi niente. In molti furono rovinati. E, come se non bastasse, ci fu una specie di beffa, o se volete, di morale finale, perché tutti i tentativi di far rispettare i contratti di acquisto o di vendita definiti prima della bolla, ai prezzi regolarmente contrattati, furono respinti dai giudici, i quali considerarono tutte le transazioni speculative come assimilabili al gioco d’azzardo, e dichiararono i contratti inesigibili.

Insomma, il mercato finanziario, quando si incarta, si comporta , più o meno, come… la calunnia, nella impagabile descrizione che ne viene fatta nella famosa aria del barbiere di Siviglia di Rossini: “si introduce lestamente nelle orecchie della gente… e le teste ed i cervelli fa stordire, fa ronzar… dalla bocca fuoriuscendo lo schiamazzo va crescendo,… si propaga e si raddoppia e, alla fin, trabocca e scoppia e diventa un’esplosione… un tremuoto, un temporale, un tumulto generale che fa l’aria rimbombar”.

E che succede la nostro risparmiatore? La conclusione è nota: “e il meschino calunniato (noi potremo dire gabbato, derubato, complice, …), avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte va a crepar”.

Ecco che, si fa fatica a distinguere tra verità e calunnia. Tra il mercato creatore di valore e il mercato distruttore di valore. Molto dipende dalla confusione tra banche di investimento e banche di affari (che ha cambiato la natura del banchiere), e dell’intreccio tra finanza e produzione (che ha cambiato la natura stessa del capitalista e dell’imprenditore).

Ma, distinguere è necessario, perché è molto probabile che una bolla speculativa, cioè una anomalia rispetto ad un normale comportamento economico, si gonfi perché trova un ambiente favorevole, l’ossigeno giusto che la alimenta. Questo “brodo di coltura” (per richiamare una espressione che fu utilizzata in Italia, molti anni fa, proprio per descrivere le condizioni ambientali che consentivano e favorivano il formarsi di un fenomeno del tutto anomalo quale il terrorismo…) è, come abbiamo detto, rappresentato dai comportamenti individuali e collettivi dei risparmiatori, degli investitori e dei decisori.

Se i comportamenti dei primi sono irrazionali, troppo opportunistici o, addirittura fideistici o ingenui e quelli dei decisori (cioè gli Stati, le Istituzioni a tutti i livelli - non dimentichiamo che, ormai, una elezione nel Nord Westfalia ha una valenza europea! - i governi, i Parlamenti, le banche centrali, i sindacati, le imprese e… alla via così) sono lenti, incerti, subalterni, o addirittura complici, gli speculatori sguazzano, ma anche gli operatori finanziari onesti, che sono tanti, vanno in tilt.

Il nostro problema, perciò, potrebbe non essere tanto quello di andare oltre il mercato, in sé, ma di favorire il mercato quando produce liberi e utili scambi e di stopparlo quando produce virus.

La prima questione che si pone, dunque, è la governance, cioè la inadeguatezza del sistema di regole che definisce gli ambiti per i comportamenti dei soggetti e degli attori economici e sociali.

Il punto, infatti, su cui bisogna davvero avanzare nel pensiero (e nell’azione) sta nel ridefinire il logorato rapporto tra democrazia politica e democrazia economica. La democrazia politica che impariamo nei testi e troviamo scritta ed organizzata nelle nostre carte fondative e pratichiamo (il diritto al voto, i diritti civili e sociali) non basta più per governare, non soltanto le turbolenze dei mercati, o i conflitti sociali, ma la stessa quotidianità economica.

La questione, più in generale, della governance democratica è, per una nuova politica liberale e riformista una delle grandi priorità da affrontare, che non si risolve nel controllo redistributivo, nella famosa “tosatura della pecora”, nella “giusta mercede”, ma in un protagonismo non subalterno che mette al centro il progetto partecipativo. Democrazia economica e partecipazione sono, dunque, il terreno su cui ripensare allo sviluppo capitalistico futuro.

Quando all’inizio di questa straordinaria crisi, nel 2007, ci siamo guardati attorno sbigottiti e preoccupati, abbiamo ascoltato le voci più autorevoli, anche quelle di chi una grande responsabilità l’aveva avuta nel provocarla la crisi, levarsi e dire, con sicurezza che da questa crisi ne saremo usciti tutti diverse, che ci voleva una nuova governance mondiale… Ebbene, siamo sinceri, cosa è successo in questi 5 anni? Il sistema bancario sembra più pentito di averci pensato che di quanto è successo, tant’è che molti prodotti continuano a essere collocati con la stessa logica di prima, cioè disancorati dalle dinamiche della cosi detta economia reale (dunque, esiste una economia irreale!).

I vari G8 e G20 se ne sono occupati e Draghi ha presieduto un gruppo di lavoro che ha prodotto delle proposte, ma in pratica si è fatto poco o niente.

Il Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace ha titolato il suo ultimo documento in maniera significativa: “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”. Obiettivo necessario ed urgente perche: “è in gioco il bene comune dell’umanità ed il futuro stesso”.

Ne consegue che va approntata una nuova teoria della Autorità pubblica. Stato amico e “facilitatore”, versus i due eccessi di Stato minimo, cioè di fatto assente, che lascia i cittadini senza protezioni e difese, o Stato totalizzante, che pensa di dover impedire ai cittadini anche di… sbagliare.

Anche perché, quando parliamo di welfare, dobbiamo tenere presente che, con le nuove tendenze demografiche, la “mano pubblica” da sola non ce la farà ad assolvere la crescente domanda di servizi sociali. Sicché la sussidiarietà è un valore decisivo per affermare una efficace strategia post crisi.

Facciamo due esempi, uno di un comportamento individuale, l’altro di un comportamento collettivo o istituzionale. Quando un singolo cittadino, un pensionato o un impiegato, che ha a disposizione qualche migliaia di euro risparmiati, o un imprenditore o alto funzionario, che dispongano di qualche risparmio in più, vanno in banca per far fruttare i loro soldi tendono (ancora oggi, nonostante le scottanti recenti esperienze) ad affidarsi a quanto gli viene offerto. E siccome il mondo è fatto di santi e di peccatori, la tentazione, come si è visto nel formarsi di questa lunga crisi, è forte… Solo un solido sistema di regole e controlli consente di impedire l’abuso.

In ogni caso, quand’anche ci trovassimo di fronte un interlocutore responsabile, ciò che gli chiediamo è quanto ci rende quell’investimento, quanto ci guadagniamo, non dove vengono investiti i nostri soldi. Poco imposta se, nella lunga catena delle transazioni, i propri soldi vadano a finanziare delle dittature o dei progetti umanitari, delle fabbriche tossiche (nel vero senso del termine!) o delle ricerche sul cancro, e così via, non è oggetto dell’investimento.

Si è così formata la figura di quello che io definisco il “capitalista anonimo”; nel duplice senso di non sapere di esserlo (pensarsi come un risparmiatore che non ha responsabilità, ma è solo vittima di un mercato di cui è, invece, involontario protagonista) e di essere, come l’alcolista, fagocitato nei suoi comportamenti e prigioniero di un sistema… malato.

E’ interessante notare, perché più pertinente come esempio rispetto al nostro argomento, che la stessa condizione di schiavitù si sta avendo nella perversa diffusione di massa del gioco d’azzardo, quello on line, ma, soprattutto, in quello delle macchinette presenti, ormai, in tutti i bar di periferia; un fenomeno che provoca gravi dipendenze ed impoverimento.

Eppure, in questi giochi non c’è niente di illegale, anzi è lo Stato che incentiva.

Il secondo esempio. Una grande azienda, o perché gli amministratori sono dei ladri o perché è in crisi di liquidità fa delle operazioni illegali: usa i fondi pensione dei propri dipendenti (tutto cominciò più o meno così, ricordate la Enron?), o falsifica i bilanci (la Parmalat), o si muove su un terreno del tutto legale, inventandosi delle fusioni e degli scorpori (le scatole cinesi), assume tutto il personale con contratti precari, indipendentemente dalle mansioni svolte. Oppure, uno Stato che per sostenere una spesa pubblica senza controlli si indebita per anni e per sostenere il debito emette bot e cct, indebitandosi ancora di più.

Bene, ad un certo punto, oltre una certa misura, quando si viene a sapere tutto ciò, i lavoratori gabbati si arrabbiano, i giudici si attivano, i cittadini si preoccupano… cresce, cioè, la sfiducia.

E’ il momento in cui il mercato, questa astratta entità, che poi non è altro che l’insieme di tutti noi, con un gruppo di privilegiati in prima fila, col telecomando in mano, si agita, diventa… turbolento. Se ci va bene, si impaurisce, si ritira, attende; ha cioè un comportamento depressivo. Se ci va male decide di approfittare dei nostri guai; assume, cioè, un comportamento speculativo. E’ probabile che faccia entrambe le cose.

Perciò, possiamo dire che, sia nella versione positiva (la creazione di valore), sia in quella negativa (la distruzione di valore), la principale caratteristica del mercato finanziario è che reagisce a degli input, come un sonar.

Chi ha visto quel gran film che è “Caccia ad Ottobre rosso” ricorda la frase che Bart Mancuso, il Comandante del sommergibile americano Dallas, a caccia dell’Ottobre rosso, rivolge al suo addetto alle comunicazioni: “Mi stai dicendo che un radar modernissimo e super tecnologico, che costa tutti questi dollari, non distingue tra un fenomeno naturale ed una balena?”.

Così, anche il sofisticatissimo mercato non distingue tra una spesa pubblica eccessiva causata da spreco o mala gestione da quella derivata dalla erogazione di pensioni e sussidi. Reagisce al debito.

Non distingue se riduci i tuoi consumi perché sei in difficoltà e bisognoso di aiuto perché hai perso il lavoro, ti è capitata una disgrazia, hai una pensione troppo bassa, o perché sei irresponsabile e ti sei mangiato il patrimonio. Reagisce al rischio di insolvenza. E così via.

Può darsi, dunque, che, come il computer di bordo del sommergibile Dallas di Mancuso, il mercato sia, contemporaneamente, abilissimo e stupido (non è vero!). Fatto sta che sono decisivi gli input che gli diamo. Da questa riflessione i comportamenti del mercato non ne escono assolti, ma si fa strada una tesi più complessa che toglie a noi i nostri alibi.

Per dirla grossolanamente: le ragioni del mercato sono i nostri torti.

Ecco che la seconda questione che si pone è che un sistema di regole non basta se non è accompagnato da una nuova mentalità economica.

Una parte del mondo vive da anni al di sopra delle proprie possibilità di produzione, di spesa e di consumi, mentre un’altra parte stenta a campare. La debolezza di chi governa (destra e sinistra), ma non solo, anche dei sindacati, delle imprese, è stata quella di non capire per tempo che la globalizzazione, indotta soprattutto dalla possibilità di comunicare in tempo reale e dalla relativa facilità di trasportare ovunque merci e persone, ha allargato la famiglia umana, mettendola tutta seduta allo stesso tavolo.

Si racconta nelle nostre campagne che, solo qualche decennio fa, nelle famiglie povere, quando veniva versata in mezzo al tavolo la polenta fumante, poiché le bocche da sfamare erano di più del cibo disponibile, la funzione della breve preghiera di ringraziamento fosse non solo religiosa, ma anche, come per molti precetti, sociale; far sì, cioè, che l’assalto fosse regolato, tutti fermi come ai blocchi di partenza di una gara e l’Amen era… il colpo di pistola. Un po’ come la famosa scena della pastasciutta in “Miseria e nobiltà”.

Ebbene, mano a mano che al tavolo globale si presentano sempre più popoli che, per giunta, crescono di numero (abbiamo ormai superato da qualche mese i 7 miliardi di viventi), la questione alimentare (così come quella dell’acqua, dell’energia, della sanità) ha assunto proporzioni drammatiche e sta diventando una principale questione politica.

Al contempo, bisogna interrogarsi sulla natura e la portata delle crescenti disuguaglianze. Viviamo in un mondo contraddittorio: da un lato si riduce, in termini assoluti, la povertà. Ma, al tempo stesso si allarga la distanza tra i poveri e i ricchi. Il 10% della popolazione mondiale possiede il 90% della ricchezza; l’Italia è a metà strada: il 10% possiede il 40%!

Però, la disuguaglianza, oggi, non è solo una questione di giustizia redistributiva, ma anche una componente fondamentale di una nuova teoria della crescita. Nel mondo globale, dove tutti siamo interattivi con gli altri, quanto costa mantenere pesanti sacche di disuguaglianza?

Quanto, dunque - dobbiamo chiederci - la disuguaglianza è un limite alla crescita e non, come si poteva pensare, un suo moltiplicatore, sia pure iniquo? La questione della riduzione della disuguaglianza, dunque, non è solo un problema etico, ma economico, che diventa tanto più importante se consideriamo che non avremo, almeno in occidente, davanti a noi una crescita continua e progressiva.

Pensiamo davvero di poter tener fuori dal gioco milioni di poveri? Di lasciar crescere impunemente le disuguaglianze? Di tutelare, rinchiudendoci in casa, i nostri territori ed il nostro benessere? C’è ancora chi pensa che il problema sia evitare la società multietnica, anziché gestire il traffico.

Ci si pongono, allora, domande inedite, che trasformano cruciali questioni etiche in vere categorie economiche. Noi sappiamo che è più giusto essere generosi che egoisti. Ma la questione, ormai, non è più soltanto se è giusto (aspetto etico che emoziona una minoranza), ma se è più produttivo, conveniente, efficace essere egoisti o solidali? Se, non sia, addirittura, necessario, pena la sopravvivenza.

Questo approccio economico stabilisce nuove graduatorie e imposta un nuovo modello di sviluppo. Forse, adottandolo, non diventeremo più buoni, non dipende da ciò, ma staremo meglio un poco tutti, il che è molto utile se vogliamo ridurre i rischi di conflitti che più per i confini saranno per i beni naturali.

Rileggiamo da questo versante ed in questa ottica la questione greca. Pensiamo davvero che lasciando fuori la Grecia dall’Europa, avremo risolto il loro ed il nostro problema? O non avremo, semplicemente, allargato l’infezione? Le colpe della Grecia sono chiare: bilanci truccati, incapacità di piani di austerità condivisi; ma le ricette richieste sono dei salassi che uccidono. E chi le ha proposte le ricette se non la Comunità europea?

Una domanda: se vostro Padre, o vostro nonno, fossero in difficoltà, quand’anche responsabili di aver dissipato il patrimonio di famiglia, li abbandonereste ad un destino di fame e di stenti? Non credo! Ecco, vediamola da questo punto di osservazione, non economico, ma etico, la vicenda greca.

L’Occidente e gli Stati Sovrani democratici, come quelli Europei, che lasciano crepare lo Stato che ha inventato la Democrazia, che, di fatto, è ancora “padre”, o…” nonno”.

Tutte le colpe dei mercati non valgono, talvolta, la miopia della politica.

Ma una prospettiva di questo tipo può essere fondata su un meccanismo economico di crescita continua, come fino ad un certo punto è sembrato possibile, o non pone anche un vero problema redistributivo? Personalmente sono molto prudente quando sento parlare di decrescita, perché, fino a che c’è una persona da sfamare (e, purtroppo, ce ne saranno per un bel po’ ancora!) penso che bisogna crescere. Ma quale crescita? Per quali modelli, consumi, relazioni?

Si pensi soltanto alla questione dello spreco. Cito solo tre esempi clamorosi del nostro vivere quotidiano. Lo spreco alimentare, quello energetico e quello idrico.

Tutto ciò induce ad una considerazione solo apparentemente tecnica: ma i nostri strumenti di misurazione della realtà economica sono adeguati a questa complessità? No. Una revisione del principale strumento di misura, il Pil, è, ormai, oggetto di una serissima discussione scientifica che ha trovato nella commissione voluta da Sarkozy e composta da Fitoussi, Strigliz e Sen un punto di eccellenza. In Italia vi stanno lavorando la Camera dei Deputati, con una indagine conoscitiva, il Cnel, l’intergruppo parlamentare per la crescita e la finanza sostenibile ed l’Istat, con il suo Presidente, Giovannini.

Eccoci, dunque, alla conclusione, che è, poi, il cuore del problema che volevo proporvi. E, cioè che - da quanto detto finora risulta, mi pare, abbastanza evidente - il mercato è, oggettivamente, meno importante delle persone, delle Istituzioni, degli Stati, delle associazioni collettive di rappresentanza degli interessi, della politica. E, a ben vedere, tanto più se ci fosse una coalizione tra tutti, anche meno potente.

Eppure la percezione generale è un'altra e si fa fatica a ristabilire le graduatorie. Questo è il problema che abbiamo e che dobbiamo risolvere. Alla sua soluzione dobbiamo dedicarci tutti: singoli, comunità, Istituzioni.

Noi ne abbiamo indicato alcune: nuova mentalità e nuove regole. Cioè, più democrazia e più partecipazione; più trasparenza e più controlli; più libertà e più solidarietà; più sobrietà e più sussidiarietà; più crescita e più redistribuzione. L’elenco può allungarsi, ma il senso è chiaro: più etica e più responsabilità.

La mia opinione è che, diversamente dal passato, come ho cercato di dire, tutto ciò non appartenga solo alla sfera morale, ma, visti gli snodi che la globalizzazione ci presenta, sia una scelta economica e politica obbligata. Essere, almeno un po’, migliori non è una opzione, ma una necessità, se vogliamo assicurare un futuro ai nostri figli.

Ce la faremo? Si, perché, come dice Keynes, presto o tardi, ad essere davvero pericolose, nel bene e nel male: “sono le idee e non gli interessi costituiti”.

 

Speriamo in una politica non più subalterna al mercato

Alvaro Bucci

rif. La Voce – Lettere e Opinioni - 15 Giugno 2012

e: Gazzetta di Foligno - 24 Giugno 2012 

“Oltre le ragioni del Mercato. Una nuova speranza politica” era il tema sviluppato alla recente dall'assemblea congressuale dell’associazione dei cattolici democratici “Agire politicamente” che si è svolta il 26 e 27 maggio scorso. Un titolo che ben esprime, la stretta connessione tra l’economia e la politica, additate entrambe come corresponsabili dell’attuale grave crisi: l’economia per la sua presunzione di volersi autoregolamentare, e la politica per essersi subordinata alle ragioni dell’economia. Perciò “la risposta alla crisi - secondo il coordinatore di Agire politicamente, Lino Prenna (presidente del Corso di laurea in Scienze dell’educazione all’Università di Perugia) - non può venire dagli stessi fattori che l’hanno generata, ma da un progetto di rinascita dell’umano per un futuro di speranza, che affidi alla politica l’esigente e condivisa realizzazione del bene comune. E riferendosi all’anomalia italiana, dove la politica è stata “commissariata dalla tecnica”, ha messo in guardia dall’idea che la “salvezza” del Paese dipenda dal risanamento economico, senza pertanto ritenere il governo Monti (sostanzialmente ispirato dall’ideologia neo-liberista) il modello da adottare per il futuro.

Interessante la riflessione sulle “ragioni del mercato” offerta da Pier Paolo Baretta, parlamentare con alle spalle una forte esperienza sindacale. I1 quale ha esordito chiarendo come il Mercato sia la somma di tanti comportamenti individuali e collettivi, per cui più che parlare del “mercato” si dovrebbe parlare di “noi”: dei banchieri più che delle banche, degli investitori più che delle transazioni, dei risparmiatori più

che dei depositi. Sotto la spinta di tali comportamenti, il Mercato può essere virtuoso quando cerca valore e sostiene il mercato delle merci, dei capitali e delle risorse umane. Ma quando si consolida l’idea che, oltre che con il lavoro, i soldi si fanno con i soldi, il Mercato diventa cattivo e specula. Ed è questo il volto della devianza che il Mercato finanziario ha mostrato in questi ultimi anni di crisi drammatica. Il problema, allora, è quello di favorire il Mercato quando produce liberi ed utili scambi, e di “stopparlo” quando diventa speculatore. La prima questione che si pone, dunque, è la governance, cioè la inadeguatezza del sistema di regole che definisce gli ambiti per i comportamenti dei soggetti e degli attori economici e sociali. E la questione, al riguardo, della governance democratica è una delle grandi priorità da affrontare con “un protagonismo non subalterno che mette al centro il progetto partecipativo”. Democrazia economica e partecipazione sono, dunque, il terreno su cui ripensare allo sviluppo capitalistico futuro. La seconda questione che si pone è che un sistema di regole non basta se non è accompagnato da una nuova mentalità economica. “Una parte del mondo - ha osservato Baretta - vive da anni al di sopra delle proprie possibilità di produzione, di spesa e di consumi, mentre un’altra parte stenta a campare”. Bisogna allora interrogarsi sulla natura e sulla portata delle crescenti, disuguaglianze, fino a considerare quanto costituiscano un limite alla crescita. Occorre anche considerare che da questa crisi si può uscire mettendoci al servizio di un “mondo migliore” in cui tutti siano a disposizione degli altri.