Cattolicesimo Democratico

“CATTOLICO” NON È UNA CATEGORIA POLITICA

Marcello Vigli (Comunità cristiane di Base)

da Adista Segni Nuovi - N. 7 - 25 Febbraio 2012

 

Marcello Vigli, chiamato in causa dall’articolo di Lino Prenna, replica al coordinatore di “Agire politicamente” e ribadisce, approfondendole e precisandole, le sue opinioni sulla questione dell’impegno dei cattolici in politica e della categoria stessa del “cattolicesimo politico”.

 

Credo che, in tempo di crisi delle ideologie e di profonde trasformazioni nel modo di produrre e consumare cultura e, per quanto ci riguarda, all’indomani del Concilio Vaticano II, ci si debba interrogare sul valore della stessa categoria di “cattolicesimo politico”, indipendentemente dalle due declinazioni che ha storicamente sviluppato: quella clerico-moderata e l’altra cattolico-democratica.

Questa categoria, “cattolicesimo politico”, ha avuto in passato la funzione di offrire un fondamento ideale a ben precisi programmi di gruppi di cattolici impegnati in politica che, in suo nome, da un lato si garantivano agibilità politica in un tempo di radicali contrapposizioni ideologiche, dall’altro potevano accreditare come interesse comune il perseguimento di interessi particolari. Tipico esempio la Democrazia Cristiana, con il suo interclassismo. La scelta della Santa Sede di considerarla rappresentativa dell’intera comunità ecclesiale, pur senza nessun riconoscimento formale, tolse spazio ad ogni altro partito cattolico o di cattolici. E quante parole sono state spese su questa distinzione! Poi è arrivata la diaspora dei democristiani, accompagnata da tentativi, sistematicamente falliti, di cancellarla, per ricreare unità fra cattolici, e dall’uso della sigla come distintivo correntizio all’interno dei diversi partiti i cui questi erano confluiti.

L’esperienza attuale, assai più che la stessa fase democristiana, consente qualche ulteriore riflessione sul significato di tale caratterizzazione.

Ci si può interrogare su che cosa hanno in comune Giuseppe Fioroni e Rosi Bindi, Maurizio Lupi e Franco Frattini, che pure militano negli stessi partiti. Ma, soprattutto, ci si può chiedere cosa hanno in comune quelli che nel referendum sulla Legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita hanno subìto il diktat di Ruini,  che invitava all’astensione per far fallire il referendum, e quelli che invece sono andati a votare.

Eppure, in questa occasione, c’erano tutte le condizioni perché non dovessero esserci differenze: tema eticamente sensibile, esplicita direttiva della gerarchia, nessun vincolo di partito.

Per venire all’oggi, mentre la Conferenza episcopale italiana lascia ai laici e alle loro diverse iniziative di collegamento il compito di farsi quel «soggetto unitario diffuso» (v. Adista n. 8/12, ndr) che da una parte si offre come palestra formativa e dall’altra come laboratorio stimolante per la riconsiderazione dell’alfabeto della società e della politica, i cattolici impegnati nei partiti cercano di accreditarsi, in concorrenza fra loro, come rappresentativi dell’intero mondo cattolico e legittimati dalla gerarchia.

C’è sempre in campo una terza via: realizzare il superamento della contrapposizione fra partito dei cattolici e loro diaspora, con il riconoscimento che, nel qualificarsi come tali, essi si costituiscono come portatori di una visione specifica del mondo, ma capaci, al tempo stesso, di porsi in dialogo con le altre forze sociali, lasciando alla gerarchia la rappresentanza politica.

Si può, infatti, concludere che non esiste un via cattolica, né all’esercizio della cittadinanza, né alla partecipazione alla gestione delle pubbliche istituzioni. Non ci si può caratterizzare politicamente né con “l’ancoraggio alla Parola” un po’ lontana nel tempo e dai problemi da risolvere oggi, né ispirandosi ad una Dottrina sociale della Chiesa, certo figlia del tempo, ma anche dell’orientamento di chi, chiamato pro tempore al compito di garantire la testimonianza evangelica, si fa sociologo e politologo, attingendo ovviamente alle opinioni di altri che lo fanno di mestiere.

In questa prospettiva, il cattolicesimo politico, nelle sue diverse versioni, si riduce ad essere una costruzione ideologica di gruppi e movimenti ispirati ad un’unica fede cattolica, che si caratterizzano cioè – come scrissi su Adista n. 92/11 – per la loro identità religiosa, pur se interpretata diversamente. Diventa allora un falso ideologico, perché usato per fondare prassi politiche diverse, anzi, spesso in contraddizione fra loro.

L’alternativa resta vivere la diaspora compiutamente, senza infingimenti, ispirandosi al rifiuto di considerare cattolica una categoria politica o culturale. È nota la battuta di Ernesto Balducci: «Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico, e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo».

Forse bisogna ispirarsi a questa scelta, coerente con il messaggio del Concilio Vaticano II, più che alla distinzione di Maritain e di Lazzati, che risale ai tempi in cui la Comunità ecclesiale non era ancora Popolo di Dio.

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Vedi articolo di Lino Prenna: Cattolici in movimento: verso dove?

“CATTOLICO” NON È UNA CATEGORIA POLITICA

Marcello Vigli (Comunità cristiane di Base)

da Adista Segni Nuovi - N. 7 - 25 Febbraio 2012

 

Marcello Vigli, chiamato in causa dall’articolo di Lino Prenna, replica al coordinatore di “Agire politicamente” e ribadisce, approfondendole e precisandole, le sue opinioni sulla questione dell’impegno dei cattolici in politica e della categoria stessa del “cattolicesimo politico”.


Credo che, in tempo di crisi delle ideologie e di profonde trasformazioni nel modo di produrre e consumare cultura e, per quanto ci riguarda, all’indomani del Concilio Vaticano II, ci si debba interrogare sul valore della stessa categoria di “cattolicesimo politico”, indipendentemente dalle due declinazioni che ha storicamente sviluppato: quella clerico-moderata e l’altra cattolico-democratica.

Questa categoria, “cattolicesimo politico”, ha avuto in passato la funzione di offrire un fondamento ideale a ben precisi programmi di gruppi di cattolici impegnati in politica che, in suo nome, da un lato si garantivano agibilità politica in un tempo di radicali contrapposizioni ideologiche, dall’altro potevano accreditare come interesse comune il perseguimento di interessi particolari. Tipico esempio la Democrazia Cristiana, con il suo interclassismo. La scelta della Santa Sede di considerarla rappresentativa dell’intera comunità ecclesiale, pur senza nessun riconoscimento formale, tolse spazio ad ogni altro partito cattolico o di cattolici. E quante parole sono state spese su questa distinzione! Poi è arrivata la diaspora dei democristiani, accompagnata da tentativi, sistematicamente falliti, di cancellarla, per ricreare unità fra cattolici, e dall’uso della sigla come distintivo correntizio all’interno dei diversi partiti i cui questi erano confluiti.

L’esperienza attuale, assai più che la stessa fase democristiana, consente qualche ulteriore riflessione sul significato di tale caratterizzazione.

Ci si può interrogare su che cosa hanno in comune Giuseppe Fioroni e Rosi Bindi, Maurizio Lupi e Franco Frattini, che pure militano negli stessi partiti. Ma, soprattutto, ci si può chiedere cosa hanno in comune quelli che nel referendum sulla Legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita hanno subìto il diktat di Ruini,  che invitava all’astensione per far fallire il referendum, e quelli che invece sono andati a votare.

Eppure, in questa occasione, c’erano tutte le condizioni perché non dovessero esserci differenze: tema eticamente sensibile, esplicita direttiva della gerarchia, nessun vincolo di partito.

Per venire all’oggi, mentre la Conferenza episcopale italiana lascia ai laici e alle loro diverse iniziative di collegamento il compito di farsi quel «soggetto unitario diffuso» (v. Adista n. 8/12, ndr) che da una parte si offre come palestra formativa e dall’altra come laboratorio stimolante per la riconsiderazione dell’alfabeto della società e della politica, i cattolici impegnati nei partiti cercano di accreditarsi, in concorrenza fra loro, come rappresentativi dell’intero mondo cattolico e legittimati dalla gerarchia.

C’è sempre in campo una terza via: realizzare il superamento della contrapposizione fra partito dei cattolici e loro diaspora, con il riconoscimento che, nel qualificarsi come tali, essi si costituiscono come portatori di una visione specifica del mondo, ma capaci, al tempo stesso, di porsi in dialogo con le altre forze sociali, lasciando alla gerarchia la rappresentanza politica.

Si può, infatti, concludere che non esiste un via cattolica, né all’esercizio della cittadinanza, né alla partecipazione alla gestione delle pubbliche istituzioni. Non ci si può caratterizzare politicamente né con “l’ancoraggio alla Parola” un po’ lontana nel tempo e dai problemi da risolvere oggi, né ispirandosi ad una Dottrina sociale della Chiesa, certo figlia del tempo, ma anche dell’orientamento di chi, chiamato pro tempore al compito di garantire la testimonianza evangelica, si fa sociologo e politologo, attingendo ovviamente alle opinioni di altri che lo fanno di mestiere.

In questa prospettiva, il cattolicesimo politico, nelle sue diverse versioni, si riduce ad essere una costruzione ideologica di gruppi e movimenti ispirati ad un’unica fede cattolica, che si caratterizzano cioè – come scrissi su Adista n. 92/11 – per la loro identità religiosa, pur se interpretata diversamente. Diventa allora un falso ideologico, perché usato per fondare prassi politiche diverse, anzi, spesso in contraddizione fra loro.

L’alternativa resta vivere la diaspora compiutamente, senza infingimenti, ispirandosi al rifiuto di considerare cattolica una categoria politica o culturale. È nota la battuta di Ernesto Balducci: «Chi ancora si professa ateo, o marxista, o laico, e ha bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentanze sul proscenio della cultura, non mi cerchi. Io non sono che un uomo».

Forse bisogna ispirarsi a questa scelta, coerente con il messaggio del Concilio Vaticano II, più che alla distinzione di Maritain e di Lazzati, che risale ai tempi in cui la Comunità ecclesiale non era ancora Popolo di Dio.

Si può essere cattolico democratici senza “popolo cristiano” ?

Bartolo Ciccardini
 Febbraio 2012

 

“Politicamente”, il foglio informativo dell’Associazione “Agire Politicamente”, che si muove sulla scia della gloriosa storia dei cattolici democratici, prende posizione sulle iniziative che si sono svolte nella seconda metà del 2011, per creare un “movimento dei cattolici”, riferendosi specificatamente all’incontro romano introdotto dal Segretario della CEI, all’assemblea di Retinopera ed al Convegno di Todi.

Lino Prenna muove una forte obiezione a questo filone definendolo senza appello come declinazione clerico-moderata contrapposta alla declinazione cattolico-democratica. Cito letteralmente: “Pur mosse da un’unica fede cattolica queste iniziative, che altre realizzate nello stesso periodo non sono riconducibili ad un unitario cattolicesimo politico, ma ripropongono, sia pure con accenti diversi, le due anime del movimento politico dei cattolici. Così mentre si è parlato di un nuovo movimento dei cattolici, preferisco parlare di cattolici in movimento nella sostanziale continuità delle due declinazioni che il cattolicesimo politico ha storicamente sviluppato: quella clerico-moderata e l’altra cattolico-democratica”. E poi continua: “Alla scuola di Maritain e di Lazzati, nonché del Concilio Vaticano II abbiamo sempre sostenuto che non è la fede il criterio dell’aggregazione politica e che lo statuto stesso della laicità si fonda sulla distinzione tra l’azione cattolica e l’azione politica, fra l’agire in quanto cristiani e l’agire da cristiani”.

Questi appunti fatti in particolar modo al Convegno di Todi partono da una definizione molto netta della distinzione fra azione cattolica ed azione politica. Ridurre la visione sociale dei cattolici a queste due esclusive dimensioni è troppo schematico e scolastico. In realtà la dottrina sociale cristiana prevede tre diversi livelli: l’azione cattolica, volta ad organizzare l’attività delle coscienze religiose; l’azione sociale cristiana, volta ad operare nella società con iniziative di volontariato; ed infine l’azione politica.

Nella storia ci sono state, per necessità o per scelta voluta, delle commistioni o delle indecisioni sull’esatto confine fra i tre piani. Pensiamo all’esperimento del Patto Gentiloni o alla stessa Democrazia Cristiana di Romolo Murri che pretendeva di muoversi politicamente all’interno di un movimento indirizzato chiaramente all’azione sociale e sindacale.

Ma la difficoltà di fissare in maniera astratta e scolastica i confini di queste attività dei cattolici non può giungere al punto di disconoscere una chiara esigenza di questo momento storico. Le Acli ci avvisano che il 50% dei cattolici sono decisi a non andare a votare. Si constata un distacco fortissimo fra l’agire sociale e la mancanza di impegno civile. Si suol dire che il volontariato cattolico è pronto ad accorrere in aiuto di tutti i popoli del mondo, ma è disinteressato al destino della propria Patria.

Affrontando questo problema da un altro lato, ci si accorge che la Patria italiana, la identità stessa della nostra nazione, è profondamente vulnerata dall’assenza di una partecipazione civile dei cattolici. Da qui l’appello del Papa di considerare l’attività politica la più grande attività caritativa sociale del cristiano.

Né si può rinchiudere tutta la dimensione civile dei cattolici nella definizione della esperienza cattolico-democratica, significativa per l’alto valore di pensiero e di educazione, ma certamente non rappresentativa di tutta la dimensione politica del cristianesimo italiano. Il cristianesimo stesso ha di per sé una dimensione politica che non si può disconoscere senza snaturarne l’essenza caritatevole.

Il progetto di Todi è chiaramente ispirato dalla gerarchia, avvertita di questi pericoli, e non potrebbe essere altrimenti. D’altra parte, il compito è quello di combattere l’assenteismo che caratterizza la pur fitta e volenterosa attività parrocchiale. È il popolo cattolico che si assenta ed è difficile immaginare la dimensione cattolico democratica senza popolo cristiano. Del resto a Todi si è parlato di un movimento prepolitico, vale a dire impegnato nel sociale, ma rispettosamente delimitato nei confronti dell’attività politica di partito. Si è detto chiaramente che il movimento dei cattolici che si preconizza non è un partito.

Del resto abbiamo avuto l’esperienza storica dei Comitati Civici, che svolgevano un’attività civile molto importante, perché combattevano l’astensionismo ed insegnavano a votare, senza avere le caratteristiche di un partito. E non è esatto e generoso definire quel movimento clerico-moderato, anche se c’erano motivi per temere che la obbedienza ostentata ai disegni politici della massima gerarchia potesse essere pericolosa per una impostazione laica dell’azione politica.

Ma eravamo prima del Concilio ed in una condizione di contrapposizione con il comunismo che giustificava molti interventi dell’autorità religiosa nel campo politico.

Ciò non toglie che non era pensabile una Democrazia Cristiana capace di interpretare la volontà democratica del Paese, sia cattolica che laica, aldilà dei suoi stessi confini elettorali, senza il rapporto caloroso e fiducioso delle organizzazioni sociali che agivano in campo sociale e delle stesse organizzazioni di azione cattolica che si assumevano compiti politici.

È questa dimensione popolare che è necessario riscoprire su tutti i versanti, che non bisogna demonizzare con una definizione di “clerico-moderatismo”. Se vi fosse in Italia un grande movimento popolare diretto dai cattolici per una legge elettorale giusta ed onesta, che imponesse ai partiti una scelta democratica, questo potrebbe essere considerato “clerico-moderatismo”?

Se l’associazionismo sociale proponesse nei Comuni delle liste civiche pro-familia, aperte non solo ai cattolici orientati in maniere diverse sulle scelte politiche nazionali, ma anche ai laici di buona volontà che riconoscano  obiettivamente le difficoltà della famiglie italiane, avendo chiaramente in mente la definizione che l’ente locale è autonomo dallo Stato e quindi anche dalla politica che governa lo Stato, questo non sarebbe salutare per la democrazia italiana? Se poi dai Sindaci di queste “piccole Patrie” nascesse liberamente un partito che si caratterizzerebbe secondo la coscienza e la necessità del momento, obbediente alle regole della responsabilità laica nella scelta politica, questo sarebbe da condannare?

O non è forse proprio questo il cammino della declinazione cattolico-democratica?

Ben altro è la declinazione che Prenna definisce “clerico-moderata”. L’idea di un rapporto concordatario per influire sulla politica tra la gerarchia stessa ed i detentori del potere, quali che siano, è questa la declinazione clerico-moderata, ma se l’azione cattolica, l’azione sociale, l’azione caritativa delle parrocchie si muovesse verso una coscienza civile nazionale e sentisse come dovere quello di occuparsi dei destini della propria patria e da questo nascesse un movimento popolare dei cattolici, questo non dovrebbe dispiacere a nessuno che si ispiri al pensiero cattolico democratico.

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Vedi articolo di Lino Prenna: Cattolici in movimento: verso dove?

Le parole del cattolicesimo democratico

 

Genova

Martedì, 14 febbraio 2012 - ore 17:45

Sala del Minor Consiglio, Palazzo Ducale - Piazza Matteotti, 9

 

PACE

Introduce

MARIA ROSA BIGGI - Agire politicamente

Relazione

ALBERTO DE SANCTIS - Università degli Studi di Genova

 

Domenica, 26 febbraio 2012 - ore 17:45

Sala del Munizioniere, Palazzo Ducale - Piazza Matteotti, 9

SOBRIETA’

Introduce

MATTEO COSULICH - Agire politicamente

Relazione

RENATO BALDUZZI - Università Cattolica del Sacro Cuore, Ministro della Salute

 

Organizzata da

Agire Politicamente – Genova - Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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Vedi appuntamento

Volantino dell'iniziativa.

Liberare il Concilio

Raniero La Valle

Gennaio 2012

 

È questo il primo articolo che scrivo quest’anno e mi pare di non poter cominciare il 2012 senza un grido d’allarme sullo stato della fede e della Chiesa.

Quest’anno, l’11 ottobre, cade il cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio e del discorso inaugurale di Giovanni XXIII che annunciava gioia alla Chiesa (“Gaudet mater Ecclesia”) e un “balzo innanzi” nella fede, contro i malauguri dei profeti di sventura; a partire da questo anniversario, comincerà poi, indetto da Benedetto XVI, l’“anno della fede”.

Tuttavia né la Chiesa cattolica appare in buona salute, né la fede appare rigogliosa. La Chiesa in Italia, liberata dal discredito che le veniva dalla contiguità con Berlusconi, non ha avuto un guizzo di vitalità, e giace inerte dinnanzi alla crisi tremenda che attraversa il Paese e scuote l’Occidente: né sa interpretarla, né sa dire parole di rinascita e di guida; l’unica cosa che si vede è una certa agitazione intorno a improbabili ritorni al potere di qualche élite cattolica obbediente.

Più grave è la condizione della fede. Le chiese restano vuote, anche quando i “meetings” religiosi fanno il pieno. I dati riportati più avanti nell’articolo di Giannino Piana danno conto di questa crisi della religione in Italia, mentre un’inchiesta pubblicata nell’ultimo “Annale” della rivista Il Regno mette soprattutto in rilievo la questione giovanile: sia per la frequenza alla Messa e ai sacramenti, sia per la preghiera personale, sia nel dichiararsi credente c’è uno scarto generazionale imponente tra i nati prima del 1945 e le giovani generazioni venute al mondo dopo il 1981, una diminuzione che giunge fino a 31 punti percentuali. “Il calo più netto in tutti gli aspetti del rapporto con la religione – sottolinea l’inchiesta – riguarda proprio i giovanissimi. Sembra veramente di osservare un altro mondo”. C’è nei nostri figli – osserva la rivista dei dehoniani – un grado di “analfabetismo religioso molto alto”, sicché è una facile previsione che “quando i figli della generazione degli anni Settanta saranno padri”, il processo di secolarizzazione (nel senso specifico di estraneità alla fede) subirà un’ulteriore accelerazione.

Del resto questa crisi del cattolicesimo non è solo dell’Italia. In un testo del teologo della liberazione José Comblin, che è stato ora pubblicato postumo da Adista, si descrive una crisi che ha una portata universale. In America Latina i contadini poveri, che fino a ieri stavano con la Chiesa, ora vanno con gli evangelici; milioni di adolescenti stanno perdendo la fede; i giovani, compresi i nuovi sacerdoti, non sanno cosa fu il Concilio, che non riveste per loro nessun interesse.

In questa situazione ha poco senso chiedersi se viviamo in una società cristiana, e ancor meno se cristiane siano le sue radici; più necessario è chiedersi se ancora ci saranno cristiani.

Sulla qualità cristiana della nostra società è bene del resto che la Chiesa sospenda il giudizio, perché spesso esso è stato sbagliato, come sono state sbagliate le corrispondenti apologie e condanne: è stata ritenuta cristiana “la Santa Romana Repubblica” medioevale (soprattutto grazie a Costantino) e forse era una fama usurpata, è stata dannata come non cristiana la società dell’illuminismo e delle libertà moderne, e forse cristiana cominciava ad esserlo, sicché anche oggi è bene astenersi da giudizi sommari e scomuniche. Certo  molto cristiana non deve essere una società che al potere non ha più nemmeno Cesare, ma il Denaro il quale, se ha le chiavi del regno, è proprio l’Antagonista del regno di Dio; il denaro ci può stare nel regno, ma come colui che serve, per esempio per pagare la giusta mercede, non come quello che governa, perché allora è Mammona. E tanto meno è cristiana una società che butta a mare gli stranieri e fa loro pagare la tassa sulla povertà. Però può anche darsi che avesse ragione papa Giovanni quando vedeva sorgere un “nuovo ordine di rapporti umani”, anche se a nostra insaputa e al di là delle nostre stesse aspettative.

Più vitale è piuttosto la domanda se ancora ci saranno discepoli del Regno, e come potranno esserlo, e come potranno portare essi stessi un annuncio di fede. Questo dovrebbe essere l’assillo e la passione delle Chiese, se non vogliono ridursi a reperti sociologici e finire nell’irrilevanza.

E allora, che fare? Senza ipotizzare difficili e mirabili riforme, ci sono molte cose nuove che si possono fare a dottrina vigente e a legislazione ecclesiastica vigente, per offrire nuove strade alla fede e nuova linfa alla Chiesa. E non c’è nemmeno da inventare niente: è già tutto scritto nei testi del Concilio. Cinquant’anni dovrebbero ormai bastare alla loro quarantena, quindi possono essere risvegliati dall’anestesia. Si può, alfine, liberare il Concilio.

 

La fede, ma come?

“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?”, è la domanda posta da Gesù agli apostoli. A giudicare dalla scarsa o nulla attenzione che dagli uomini e dai governanti di oggi viene prestata alla salvaguardia del creato, la cosa potrebbe non essere troppo lontana, ed è per non far trovare brutte sorprese al Veniente che la Chiesa cattolica ha indetto un “anno della fede” in coincidenza con i cinquant’anni dal Concilio.

In effetti la fede e le Chiese attraversano una crisi di cui si parla poco perché non se ne occupano le agenzie di rating, ma non è meno grave di quella che, sotto altri profili, imperversa in tutta la società;  e soprattutto, come abbiamo detto, investe i giovani.

Perciò viene bene il richiamo al Concilio, per una rinnovata e straordinaria azione pastorale. Ma nell’indicare come fare, il cardinale Levada, prefetto della “Congregazione per la dottrina della fede”, mette avanti due risorse: una appunto, come di rito, è il Concilio, l’altra è il “Catechismo della Chiesa cattolica” e addirittura il suo “Compendio”, nel presupposto che siano la stessa cosa, l’una speculare e traduzione dell’altra. Senonché se i contenuti sono gli stessi (e tuttavia non coincidenti, perché non tutte le enunciazioni di una fonte si trovano nell’altra), le metodologie di trasmissione della fede sono profondamente diverse: una è una metodologia narrativa, una “storia” di salvezza, storia che viene dall’inizio dei tempi e continua tuttora, l’altra è una metodologia deduttiva, dottrinale, didattica. Giovanni XXIII convocò il Concilio perché capì in anticipo che con quest’ultima metodologia la fede non sarebbe stata più trasmissibile nel mondo moderno, occorreva un nuovo linguaggio; e mentre tutte le altre “narrazioni” mondane sfiorivano e cadevano dai cuori, il Concilio ripropose la narrazione cristiana con una forza di novità e di persuasione che lasciò tutto il mondo a bocca aperta. Rimettere ora in serie Concilio e Catechismo, perché ognuno scelga come crede, è come rimettere in serie la Messa in latino di san Pio V e la Messa decrittata della liturgia postconciliare, perché ognuno scelga quella che gli aggrada; ma in tal modo la guida pastorale si perde, e il Concilio è come se non ci fosse stato. Se invece si fa appello al Concilio per ridare corso alla fede, occorre riprendere quella grande narrazione; e se si comincia davvero a narrare la fede del Concilio (che è cosa diversa dalle riforme abbozzate dal Concilio), non basta nemmeno un anno per esaurirne le grandezze.

Inoltre, a interrogare il Concilio, si scoprirebbe che la Chiesa non è quella che appare nei giornali, ma è essenzialmente eucaristia, è coestensiva all’eucaristia; non che non ci sia altro al di là di questa, ma il Concilio dice che la liturgia è la fonte e il culmine di tutto ciò che la Chiesa fa prima e di tutto ciò che attua dopo la celebrazione del mistero pasquale.  Dunque senza eucaristia non c’è Chiesa e la fede non vive.

Eppure in crescente misura le eucaristie non si possono celebrare perché non ci sono preti, e saranno sempre meno i preti celibatari che realizzino il modello sublime di prete riproposto anche dal Concilio. Né è possibile pensare oggi a un sacerdozio sposato nella Chiesa latina; la questione è chiusa, hanno risposto i vescovi ai cristiani di base, come quelli austriaci, che lo chiedevano; e un gesuita francese, Joseph Moingt, ha riferito di un papa, precedente a quello regnante, che avrebbe detto: “So bene che dopo di me bisognerà ordinare degli uomini sposati, ma finché io vivrò manterrò la consegna”: e ci sarà sempre un papa a Roma che “manterrà la consegna”. D’altronde preti esemplari, fedeli al carisma del celibato, di grande statura, saranno sempre necessari alla Chiesa soprattutto per il ministero della riconciliazione, oggi caduto in disuso; ed è bene che non venga meno la confessione perché, come diceva Lutero, è importante che ci sia un’altra persona che annuncia al peccatore il perdono di Dio, come un fatto oggettivo, contro i ripiegamenti soggettivistici nel senso di colpa del “cuore incurvato in se stesso”.

Per quanto però riguarda l’eucaristia sguarnita di preti, si potrebbe pensare a una diversa ripartizione di compiti tra i ministri ordinati dal vescovo, sacerdoti e diaconi. Come negli “Atti” gli apostoli decisero di dedicarsi soprattutto alla predicazione e alla preghiera, attribuendo ai diaconi il “servizio delle mense” (che nelle prime comunità non erano distinte dalla cena eucaristica), così potrebbero oggi i diaconi moltiplicarsi per provvedere al “servizio delle mense” dell’eucaristia, in nome e per mandato del vescovo.

Il Concilio ha ripristinato il diaconato permanente, ammettendo diaconi sposati, ma non ha ammesso che i diaconi si sposino. A legislazione e disciplina vigente si potrebbero perciò ordinare diaconi sia uomini sposati, sia uomini che non intendano sposarsi, sia uomini che vogliano abbracciare ambedue le vocazioni: basta che si preparino ad ambedue e celebrino il matrimonio prima dell’ordinazione. E attraverso i diaconi, sposati e no, si potrebbe stabilire un nuovo dinamismo ecclesiale, e una circolarità tra laicato e clero, tra vita religiosa e vita comune, tra famiglie e comunità; e l’eucaristia potrebbe avere dovunque i suoi ministri, la Chiesa esistere e la fede essere annunziata.

 

Noi cattolici e il bene di tutti

L’ideologia infelice delle «etichette»

Francesco D’Agostino

da Avvenire 23 Novembre 2011

L’ingresso nel nuovo governo Monti di alcuni illustri rappresentanti del 'mondo cattolico' è stato oggetto non solo di commenti politici (tutti legittimi), ma anche di alcuni commenti ideologici, che vanno invece rispediti ai mittenti. Spicca, tra questi, quello di Adriano Prosperi su 'Repubblica' del 19 novembre, che invita i nuovi ministri di area cattolica a dare al più presto prova di sé e a chiarire se possono o no essere caratterizzati come «cattolici adulti». Solo costoro infatti potrebbero dare, come governanti, una testimonianza di fede «che può andare d’accordo con la Costituzione». Tutti gli altri cattolici, evidentemente, no. Colpisce che un’espressione, come quella di «cattolici adulti», nata in un contesto ben diverso da quello odierno, potesse tornare a essere utilizzata con tanto semplicismo. Si tratta infatti di un’espressione infelice. Se esistono «cattolici adulti», esistono allora, di necessità, anche «cattolici bambini ». Quest’ultima espressione potrebbe anche essere accettabile, ma solo in una prospettiva mistica, che ricordi che oggetto primario della tenerezza di Gesù sono appunto i bambini. In una prospettiva politica, invece, l’espressione è inaccettabile, perché da essa trasuda il disprezzo verso quei cattolici che ragionano (legittimamente) in modo politicamente diverso dagli autodefinitisi «adulti», e che per ciò solo sarebbero caratterizzati da infantilismo psicologico, da immaturità politica, da indebita e cieca sottomissione all’autorità ecclesiastica. Se però all’espressione «cattolici adulti» proprio non si vuole rinunciare, cerchiamo almeno di depurarla da queste valenze inaccettabili. È 'politicamente adulto' il cattolico: a) che si assume sempre le sue responsabilità, davanti a Dio e davanti agli uomini e si guarda bene dallo scaricarle furbescamente su altri, in specie sui più deboli; b) che considera la politica non come mera gestione del potere, ma come un impegno per il bene comune di tutti i cittadini, credenti e non credenti, un impegno da portare avanti nel più completo disinteresse per il tornaconto personale, un impegno così arduo, che può, in casi straordinari, essere addirittura una via per la santificazione; c) che rispetta fino in fondo il principio di democrazia e di laicità e non cede alle suggestioni dell’autoritarismo; d) che è pronto ad ascoltare le legittime richieste che possono provenire dalla Chiesa e a difenderle, tranne nel caso in cui queste richieste (indipendentemente dalla buona fede di chi le possa avanzare) si configurino come rivolte ad ottenere privilegi, incompatibili con la tutela del bene comune, anzi passibili di introdurre nella comunità civile controversie e lacerazioni; e) che non 'sacralizza' ideologicamente la Costituzione come se fosse il vangelo di una nuova religione civile e l’unico contenitore possibile e immaginabile di 'valori', ma la considera laicamente come il patto fondamentale che unisce democraticamente tutti i cittadini e che per ciò solo merita rispetto e fedeltà.

Quanto detto comporta che l’impegno per la difesa dei valori 'non negoziabili' non è un tratto che caratterizzerebbe esclusivamente i presunti «cattolici bambini», chiusi in un ottuso clericalismo, e da cui i «cattolici adulti» dovrebbero tenersi ben lontani. Le questioni inerenti al pieno rispetto della vita umana, dall’inizio alla fine, alla difesa e valorizzazione del matrimonio e della famiglia, alla libertà di credere, pensare ed educare e, dunque, su questa base all’affermazione e alla tutela dei diritti degli anziani, dei giovani, dei lavoratori, degli immigrati non hanno carattere confessionale. Quando il cardinal Bagnasco – a Todi e altrove – indica ai suoi ascoltatori il dovere di difendere i valori non negoziabili, altro non fa che ricordare quali sono gli impegni che tutti gli uomini, credenti e non credenti, devono assumersi per difendere la nostra comune umanità. Il cristiano, e in particolare quello che assume incarichi politici, non opera per il bene dei 'suoi', ma opera per il bene di 'tutti'.

Si possono, ovviamente, avere legittime divergenze di opinione su come difendere in concreto i «valori non negoziabili», ma non sul fatto che essi vadano difesi. Soprattutto non è accettabile che si continui a propagandare l’idea che l’impegno per la difesa di tali valori segni in Italia, e altrove, uno spartiacque tra cattolici e laici o, peggio ancora, tra «cattolici adulti» e «cattolici bambini ». Non ci stancheremo mai di ripeterlo, nella speranza che prima o poi queste considerazioni vengano comprese e accolte in tutta la loro importanza: è su di esse, non dimentichiamocelo mai, che si fonda l’unica possibilità di istituire in generale una corretta relazione tra 'cristianesimo' e 'politica'.