Cattolicesimo Democratico

CATTOLICI E POLITICA: UNA SCELTA DI SERVIZIO

Rinnovato impegno formativo dell’Azione cattolica

Giorgio Campanini

da: Avvenire 7 Giugno 2018

Caro direttore, all’indomani del voto del 4 marzo, il presidente dell’Azione cattolica, Matteo Truffelli, ha ritenuto di dovere compiere una vera e propria 'discesa in campo'. Non tanto sul piano propriamente partitico, ma in una prospettiva di alta politica, e cioè di ricerca dei suoi fondamenti etici e spirituali, nella linea che era già stata quella di un suo illustre predecessore, Vittorio Bachelet. E lo ha fatto – su 'Avvenire' è stato segnalato con rilievo nei giorni scorsi – ricorrendo alla forma del 'libro-intervista', Un piccolo ma lucidissimo libretto, a cura di Gioele Anni, già di per sé indicativo e in qualche modo 'programmatico':

Leggi tutto: CATTOLICI E POLITICA: UNA SCELTA DI SERVIZIO

PERCHÉ È BENE RITESSERE UNA «RETE BIANCA»

Uno strumento per censire e collegare realtà vitali

Giorgio Merlo

da: Avvenire 7 Giugno 2018

Caro direttore, è ormai un giudizio comune quello secondo cui i cattolici democratici e popolari in politica sono marginali, ininfluenti e quasi puramente ornamentali. E la sostanziale assenza dalle aule parlamentari di esponenti, personalità e autorevoli figure del cattolicesimo democratico, sociale e popolare è la conferma che questo filone ideale non ha, oggi, una rappresentanza politica vera alla Camera e al Senato. E questo è un problema che non può più essere eluso o semplicisticamente aggirato.

Leggi tutto: PERCHÉ È BENE RITESSERE UNA «RETE BIANCA»

UN SISTEMA POLITICO IN MOVIMENTO ?

Giorgio Campanini

2007

 

E' una sorta di "luogo comune" la tesi - sostenuta ed accreditata da autorevoli politologi - secondo la quale il sistema politico italiano soffra, da circa un ventennio a questa parte, di un vistoso ­e marcato immobilismo. Quanti avevano frettolosamente annunziato - agli inizi degli anni '90 e sulla base dei superficiali entusiasmi determinati dalla crisi dei grandi partiti, in primis della Democrazia Cristiana - l'avvento della “seconda repubblica" hanno dovuto un poco alla volta ricredersi. Certo, il quadro attuale è diverso­ da quello del quarantennio 1946 - 1986, ma il "nuovo", il vera­mente nuovo, tarda ad emergere.

In realtà anche il sistema politico italiano è, per certi aspet­ti, "in movimento": ma è un movimento incerto, fatto di brusche accelerazioni e di altrettanto rapidi ritorni al passato e, soprattutto, è un movimento che sembra ignorare una meta ben pensata­: un movimento ambiguo, che va in direzioni diverse (ciò che vuoI dire, in realtà, che non va in nessuna direzione). Confermano questa diagnosi, per certi aspetti impietosa, alcuni dati con i qua­li ci si deve necessariamente confrontare:

  1. a) l'evidente incapacità delle forze politiche di aggiornare una Costituzione che sostanzialmente tutti ritengono ad un tempo valida nei suoi "Principi fondamentali” e superata nella parte che riguarda l'organizzazione dello stato (ed in particolare i rispetti­vi ruoli del Parlamento, del Governo, dello Stato e delle regioni, delle forze politiche);
  2. b) la profonda crisi dei partiti politici tradizionali e la parallela incapacità dei teorizzatori di nuove forme di partecipa­zione politica di proporre reali alternative alla vecchia "forma­ partito", senza imboccare la facile scorciatoia del "partito perso­naIe" che sostituisce alla partecipazione dei cittadini la suggestione (e spesso la massificazione) televisiva;
  3. c) l'incapacità di procedere ad una riforma della legge elettorale rite­nuta pressocché da tutti necessaria, legge che rischia di durare ancora a lungo per la paralizzante logica dei "veti incrociati".

E' possibile, tuttavia, che questa stagione di paralizzante im­mobilismo stia avviandosi alla fine. Possono essere letti in questa ottica tre fatti relativamente recenti che si sono verificati all'in­domani della vittoria di misura del centro-sinistra nelle elezioni politiche del 2006:

  1. La costituzione, ormai in dirittura d'arrivo, del Partito democratico, come tentativo di superare l'antica (e per cer­ti aspetti addirittura crescente) frammentazione delle forze politi­che; Partito democratico che potrebbe determinare, quasi per effetto di trascinamento, la costruzione di un sistema politico "tripolare" che prenderebbe il posto dell' attuale assurda frammentazione partiti­ca, individuando tre grandi blocchi politici, e cioè un blocco di centro-destra (Forza Italia e i suoi alleati), uno di centro sini­stra (appunto il Partito democratico), uno di sinistra raggruppante le diverse formazioni che manifestano una crescente insofferenza verso l'attua­le politica di governo e che confermano la loro radicale natura di opposizione permanente, data la loro strutturale incapacità di ac­cettare quella "cultura della mediazione" (ben diversa dal compro­messo di basso profilo) che è l'essenza stessa della democrazia.
  2. La ripresa, attraverso l'appello referendario in ordine alla legge elettorale, di un movimento partecipativo di base, sostanzialmente estraneo agli attuali partiti (ed anzi da essi guar­dato con diffidenza) ma che esprime sentimenti ed atteggiamenti lar­gamente diffusi nel corpo elettorale; movimento di base che esprime e manifesta un diffuso bisogno di cittadinanza che si contrappone all'altrettanto diffuso sentimento di estraneità alla vita po1itica, che si esprime poi nella non partecipazione alla vita della comunità, di cui sono sintomi, per certi aspetti inquietanti, non solo la presa di distanza dai partiti e la stessa astensione dal voto, ma anche il sistematico discredito di tutto ciò che fa riferimento alla politica.
  3. 3. La crescita nel Paese e l'avvio in forme almeno parzial­mente organizzate e dunque permanenti, di atteggiamenti che da una parte, in quanto strutturalmente "anti-politici", rischiano di met­tere in crisi la stessa democrazia (che, non è inutile ricordarlo, è la forma eminente di organizzazione della polis e dunque non può non essere "politica") ma che dall'altra parte esprimono, nonostan­te tutto, l'aspirazione ad una politica migliore, e di questa "mi­gliore politica" ricercano in qualche modo le vie, pur percorrendo di fatto sentieri che non portano da nessuna parte (o, peggio, po­trebbero prefigurare scenari autoritari, anche se necessariamente di diverso segno rispetto a quelli conosciuti nella prima metà del Novecento).

Questo insieme di dati sta ad indicare che il sistema politi­co italiano è effettivamente in movimento; ma, appunto, movimento in quale direzione? Verso dove? E' questa la "grande domanda" alla quale occorre cercare di dare una risposta. In. vista di que­sta risposta - che presenta una serie di elementi di grande comples­sità - ci si limiterà a sottolineare un aspetto, per altro fondamentale­, della questione, quello cioè delle forme della nuova cit­tadinanza, nel presupposto che essa rappresenti la condizione fon­damentale del rinnovamento del sistema politico.

  1. La società attuale deve fare i conti con una sorta di ideologia dell'esclusione che è non meno inquietante per il fatto di rimanere spesso allo stato di latenza. E’ un'esclusione che si sviluppa su diversi fronti: quella generazionale, sia perché resta­no fuori del sistema democratico quanti restano sotto la soglia del 18° anno e dunque non votano e non sono rappresentati (con le peri­colose conseguenze che ne derivano in ordine alle scelte, soprat­tutto di politica economica, che privilegiano sistematicamente colo­ro che possono votare rispetto a coloro che non possono votare); sia perchè la stessa componente giovanile dell'elettorato è ad un tempo esclusa dal potere e assoggettata (proprio per effetto dell'azione delle generazioni adulte) alla tentazione del puro ripiegamento nel privato (nel privato del divertimento, dell’erotismo, della dissi­pazione informatica e televisiva, quasi che essere "tecnologicamente attrezzati" significasse automaticamente essere cittadini consape­voli).

Un secondo aspetto dell'esclusione è quello lavorativo, nel­la misura in cui non si ha una reale pienezza di cittadinanza quando si venga di fatto impediti di raggiungere una reale autonomia, di­rettamente legata alla professione e al lavoro.

Un ultimo aspetto dell'esclusione è quello etnico, riferito  ad una componente - già oggi ampia e tendenzialmente crescente per effetto degli squilibri demografici in atto di uomini e donne di recente immigrazione e che restano ancora ai margini della vita del­la città.           .

  1. La società attuale deve conseguentemente attrezzarsi in vista di una cultura dell'inclusione, che implica una nuova at­titudine alla partecipazione, non necessariamente mediata, come un tempo, dai partiti politici tradizionali, ma che tuttavia presuppone (ieri come oggi e come domani) che un segmento non marginale della propria vita, del proprio tempo, dei propri interessi, sia dai cittadini dedicato alla vita della città. Non è detto che questa appartenenza alla città si debba esprimere necessariamente in una vera e propria militanza politica, dato che sono possibili altre forme di parteci­pazione, dall'attenzione alle dinamiche del territorio alle espe­rienze del volontariato; ma è comunque necessaria la fuoriuscita dal privato: grande problema di tutte le democrazie, soprattutto in quanto società "ragionevolmente" libere e giuste, proprio perchè­ sono soprattutto l'illibertà e l'ingiustizia – come mettono in evidenza le vicende di quella gran parte del mondo che le conosce,

e come attesta la stessa esperienza storica dell'Occidente – che attivano la partecipazione: in questo senso si potrebbe affermare che la partecipazione attiva dei cittadini alla vita della comunità è figlia del "tempo della miseria" - quando evidenti si fanno le manifestazioni della "cattiva politica" -mentre la fuga nel pri­vato è figlia del "tempo felice", quello in cui, grazie ad una "buo­na politica", la libertà è garantita e la giustizia ragionevolmente­ perseguita.

Un poco paradossalmente, l'attuale stagione del sistema poli­tico italiano, proprio perché situata nel  “tempo della miseria”, può attivare quella partecipazione che nel "tempo felice" era meno facilmente attuabile.

Perché tuttavia quella che si può chiamare una vera e propria "crisi del sistema" abbia uno sbocco positivo ed operi nel senso del rafforzamento della democrazia, occorre il preliminare verifi­carsi di alcune condizioni, non facili a determinarsi.

La prima è una reale capacità di autocritica della classe po­litica, naturalmente incline da una parte alla sottovalutazione del malessere in atto, dall'altra ad affrontare la situazione con sem­plici palliativi o con interventi soltanto di facciata. .

La seconda è che questo processo di rinnovamento coinvolga nuove forze, e cioè componenti significative di quella società civi­le rimasta sin qui estranea alla politica ed all'interno della qua­le esistono ancora molte risorse potenziali di cui solo in piccola parte la politica si è sin qui avvalsa.

La terza condizione è che le varie componenti della società civile abbandonino l'atteggiamento di critica preconcetta o, al più, di passiva attesa nei confronti della politica per assumersi invece sino in fondo le loro responsabilità.

Si impone infine un grande compito di "purificazione" del linguaggio stesso della politica, con l'abbandono delle genericità, delle ap­prossimazioni, delle astrattezze che troppo spesso l'hanno caratte­rizzato.

Queste condizioni per una buona politica saranno meno diffi­cilmente realizzabili se la società italiana nel suo complesso riacquisterà quella capacità progettuale di lungo periodo che ha in gran parte perduto. Non si tratta di rispolverare antiche ed ob­solete utopie ma di misurarsi con i nuovi orizzonti della globaliz­zazione e con le nuove conquiste della tecnica, avendo la consape­volezza che, per la prima volta nella storia, una società libera e giusta è possibile perché sono in gran parte venute meno le anti­che ragioni dell'esclusione e dell'emarginazione, prime fra tutte l’insufficiente consapevolezza critica (a causa dell’i­gnoranza) e la mancanza dei beni necessari alla vita (per un insufficiente sviluppo). Una società largamente scolarizza­ta e relativamente prospera (anche se ancora caratterizzata da in­quietanti diseguaglianze) non può più accettare quanto per millen­ni gli uomini e le donne sono stati costretti a subire.

Momento essenziale di questa nuova progettualità è la con­sapevolezza che quanto è stato possibile per l'Occidente lo è an­che per tutto il resto del mondo e che nell'orizzonte della globa­lizzazione non possono essere ulteriormente tollerate le palesi ingiustizie e le patenti illibertà che ancora costellano vaste a­ree del pianeta.

Si tratta dunque di porre termine al piccolo cabotaggio del­le piccole politiche per navigare in mare aperto alla costruzione di una società migliore, aprendo alle donne e agli uomini del no­stro tempo gli scenari di una politica per la quale mette conto di spendere parte della propria vita, anche se la politica non è tutto e anche se essa deve sempre sapersi fermare in tempo, ri­spettando i più alti valori che stanno al di là della sua soglia e che dunque la travalicano. Se questa nuova consapevolezza si farà strada, il resto verrà: come era solito affermare Napoleone, l'intendence suivra.....

Il rinnovamento del sistema politico non potrà derivare dall'alto - nemmeno da pur "illumi­nate" scelte operate dagli attuali gruppi dirigenti dei partiti -­ ma potrà nascere soltanto dal basso, quando i cittadini vorranno tornare, secondo una felice espressione del compianto amico Roberto Ruffilli, "arbitri della politica".     

Nel cammino di ri-legittimazione della politica la famiglia e le chiese, la scuola e le varie forme di associazionismo dovranno fare la loro parte; ma la loro parte dovranno farla anche gli attua­li partiti e, in generale, quanti hanno attualmente nelle loro mani i destini della politica. Bisognerà mettersi al lavoro per aggiornare il quadro costituzionale, per dare al Paese una legge elettorale che consenta ai cittadini di decidere, per rinnovare, e ringiovanire, la classe dirigente, per rimuovere ogni forma di parassitismo e di clientelismo. E', come si vede, un'impresa di non poco conto.

E' su questo terreno - e non su quello della spartizione dei posti o, tanto meno, delle prebende - che si misurerà la qualità del­la classe politica. Mai come in questo caso ha valore un detto più volte richiamato da Aldo Moro, chi ha più filo, più tessa. Vi è da augurarsi che alla fine siano più capaci, inventivi, innovativi, i "tessitori della politica" (della buona e sana politica) piuttosto che i "tessitori" dell' "anti-politica", e cioè della cattiva poli­tica. Come si legge in un bel "manifesto" rivolto dall'Azione Cat­tolica Italiana al Paese (I cattolici italiani tra piazze e campani­li) - mi sia consentita quest'ultima citazione a conclusione di una riflessione condotta, mi auguro, in stile di laicità- : "Il Paese me­rita un futuro all'altezza del proprio patrimonio di fede cristiana, di cultura umanistica e scientifica, di passione civile e di solida­rietà sociale. Ha diritto alla speranza". E la speranza passa anche, seppure non soltanto, dalla via della politica.

Al Convegno da protagonisti. Quale metodo?

Lettera di Campanini ad Avvenire

Giorgio Campanini

2007

Caro direttore,
nella «Traccia» preparatoria al convegno di Verona è contenuta una preziosa indicazione che dovrà essere augurabilmente al centro della riflessione della Chiesa italiana in occasione di questo importante, e per certi aspetti decisivo, appuntamento. Si tratta del punto in cui - dopo aver sottolineato l'importanza della testimonianza cristiana nella società di oggi - si pone al centro della «cura ecclesiale», e dunque della pastorale «la qualità della fede dei credenti, prima che il loro impegno» (n. 9). È, questo, il fondamentale banco di prova della capacità di incidenza della Chiesa sulla società italiana, con una serie di importanti implicazioni pastorali, su due soltanto delle quali si vorrebbe qui richiamare l'attenzione.
Il primo problema posto dal primato della qualità della fede è quello del rapporto tra evangelizzazione e sacramenti, fin dagli anni '70 oggetto di particolare attenzione da parte della Chiesa italiana. Sembra indubbio che si sia di fronte ad un evidente sbilanciamento in direzione dell'amministrazione dei sacramenti. Una realistica valutazione delle risorse umane e materiali impiegate nell'una piuttosto che nell'altra direzione non potrebbe che confermare questo sbilanciamento. Un caso emblematico è quello del sacramento del battesimo, in ordine al quale componenti tradizionali, rituali, a volte quasi «magiche» sembrano avere di gran lunga la prevalenza sulla proposta di fede. In che misura il battesimo, quale è amministrato oggi, è realmente un annunzio, una proposta di fede? Che ne è della figura dei «padrini» (e delle madrine) ipotetici «garanti» della fede del piccolo battezzato, in una società largamente secolarizzata come l'attuale? Vi è da domandarsi se l'attuale prassi - quella di non negare a nessuno, credente o non credente, il battesimo - sia proprio quella più ecclesiasticamente corretta e se, senza cedere a tentazioni manichee, si possa consentire anche per il futuro un battesimo senza catechesi (dei genitori o almeno dei familiari e, forse soprattutto, dei candidati padrini). In questo campo non mancano i documenti ma, sembra di dover affermare, difetta la prassi.
Un secondo problema relativo alla qualità della fede è individuare le figure che dovranno curarla. Stiamo ormai uscendo da una lunga stagione - quella seguita al Concilio di Trento - in cui la proposta di fede è stata essenzialmente affidata ai presbiteri ed ai religiosi. Ma a questo riguardo le prospettive future sono severe e impietose, come mette in evidenza un'accurata ricerca svolta ad opera della stessa Conferenza episcopale italiana. Dove sono, tuttavia, le «figure alternative» alla cui formazione la Chiesa italiana sta attendendo per colmare i vuoti che già vi sono e quelli che prevedibilmente si apriranno in futuro? Vi sarebbe qui un vasto discorso da compiere circa la valorizzazione delle religiose, l'impegno dei diaconi, la qualità dei catechisti laici, la presenza nella comunità cristiana di biblisti, di teologi, di moralisti laici preparati e qualificati che possono in prospettiva rappresentare figure di riferimento. Più che a moltiplicare e a qualificare, queste «nuove figure» sembra ci si stia preoccupando semplicemente della razionalizzazione dell'impiego delle antiche figure, attraverso una sorta di «ingegneria pastorale» che appare più orientata a rapportare la cura pastorale alla realtà esistente, piuttosto che a porre su nuove basi la necessaria azione per la promozione della «qualità della fede».
Su questi temi certamente il convegno di Verona si soffermerà. Vi è tuttavia un problema che è, nello stesso tempo, una preoccupazione. L'assenza di un dibattito generale, l'impossibilità di preparare indicazioni condivise (e l'affidamento alla sola presidenza del convegno delle conclusioni), la potenziale dispersione nei gruppi e sottogruppi rischia di non consentire alle proposte più innovative di emergere e di raccogliere i necessari consensi. Non sono infatti previsti, a quanto risulta, né mozioni, né ordini del giorno, né simili strumenti grazie ai quali verificare in qualche modo gli orientamenti dell'assemblea.
Non è in questione, in questo caso, la responsabilità ultima della decisione, che rimane affidata alla collegialità dell'episcopato, ma la verifica della reale volontà e dei reali orientamenti di un'assemblea particolarmente qualificata, che è di fatto un importante (e poco abituale, se si pensa che dieci anni sono passati dal convegno di Palermo) luogo nel quale «tastare il polso» della Chiesa italiana nella sua interezza. Proprio qui, sul piano delle conclusioni e delle indicazioni operative (in passato talora generiche, talora disattese), e della loro rispondenza agli orientamenti di una significativa componente della Chiesa italiana nelle sue variegate articolazioni, si misurerà la fecondità dell'assise veronese. Non saranno importanti tanto le opinioni che si esprimeranno quanto gli orientamenti pastorali che emergeranno e che dovrebbero augurabilmente ispirare le successive decisioni. Non è bene, in una Chiesa popolo di Dio, che le decisioni siano prese in solitudine da chi ha ricevuto da Dio, insieme al carisma della guida, anche l'appello al discernimento.

La risposta

Dino Boffo

A fronte dell'apprezzabile intervento del professor Campanini, mi pare utile reagire ad alcune sue «provocazioni». L'obiettivo di fondo è riuscire a ragionare insieme sulla posta in gioco del prossimo convegno di Verona, stando attenti - per quanto possibile - a non disperdere nulla della consapevolezza maturata, magari grazie anche ai precedenti convegni.
La «qualità della fede dei credenti» e le «figure che dovranno curarla» sono - come negarlo? - temi ciclopici, che non a caso si trovano da tempo all'attenzione delle nostre comunità cristiane, come riconosce lo stesso professor Campanini. La Cei lo sa perfettamente, tanto da avervi dedicato negli ultimi anni momenti qualificati per approfondirli e discuterli, elaborando specifici orientamenti. E singole diocesi, a partire proprio dall'Emilia, non sono state da meno. Ma accanto ai problemi, sono state individuate alcune possibili strategie per superarli. Per chi è interessato, non mancano i riferimenti concreti: basta chiedere o recuperare - tramite l'archivio storico di Avvenire oggi offerto nei cd - il materiale di volta in volta pubblicato sull'argomento. Certo, non sono questioni semplici, a cui dare soluzione con una meccanica applicazione di formule concepite magari a tavolino. Proprio in questa materia è evidente, infatti, quanto le scelte episcopali maturino cum ecclesia, cioè grazie all'esperienza viva del popolo di Dio.
L'immagine dunque di una Chiesa ripiegata su se stessa e come paralizzata rispetto alla necessità di identificare forme nuove di annuncio del Vangelo, appare inadeguata alla realtà, e non solo poco generosa. Al contrario, il cammino tracciato - per esempio - in preparazione al prossimo Convegno ecclesiale si è sviluppato a partire dalla centralità della persona credente che, nella concretezza della vita, e nelle sue diverse dimensioni, cerca la fedeltà al Risorto; e questo ci pare segno inequivocabile di una chiara consapevolezza circa la posta in gioco e della disponibilità operosa a trasformare abitudini e prassi consolidate.
Una comunità ecclesiale poi sa dirsi tale solo se riesce a «procedere insieme», assorbendo in sé inevitabili fughe in avanti come le altrettanto inevitabili frenate. Questo vale anche per il prossimo appuntamento di Verona. Come i tre precedenti - Roma, Loreto e Palermo - è il convegno ecclesiale nazionale, cioè delle Chiese che sono in Italia; e la prima preoccupazione è stata, ed è, coinvolgere tutte le diocesi del Paese. L'apporto delle singole componenti del popolo di Dio non può essere pensato al di fuori di questo protagonismo ecclesiale, pena cadere in contraddizione rispetto all'assunto conciliare che ha proprio nella comunità cristiana il vero soggetto di ogni crescita.
Ma a che punto siamo? Una volta avuto in mano lo strumento di preparazione, all'inizio dell'estate del 2005, le diocesi si sono messe al lavoro. Alla giunta del comitato preparatorio sono pervenute le sintesi di ogni regione, da cui risulta che quasi tutte le Chiese locali hanno riflettuto attentamente sui temi all'ordine del giorno. Anche altre realtà ecclesiali hanno fornito dei contributi. Spesso, in passato, si era auspicato il «convenire del popolo di Dio». Fuor di retorica, guardando i fatti, si può affermare che il cammino di preparazione di questo quarto convegno ha espresso «il convenire» in modo più netto rispetto a ieri. Addirittura c'è chi ha affermato che quello appena trascorso non è stato un anno di preparazione, ma l'anno vero e proprio del Convegno, di cui le giornate veronesi saranno il culmine. Si è dunque lavorato, eccome. Quanto e più che nel passato.
Problema di ogni grande assemblea è il metodo: come lavorare per essere produttivi? Anche qui però occorre non allontanarsi mai dalla natura ecclesiale dell'evento. Ridurlo alle sole relazioni o ai confronti comunitari sarebbe fuorviante. Il convegno sarà un evento assai più complesso, come accade per ogni grande appuntamento ecclesiale. Ma, per non eludere una provocazione di Campanini, occorre riconoscere che spesso in queste circostanze il tempo dedicato al dibattito viene monopolizzato da coloro che sanno alzare la voce più e meglio degli altri. Per questo il lavoro nei gruppi appare la formula più appropriata se si vuol offrire la stessa possibilità di parola a tutti i partecipanti. Sarebbe poco adeguata l'immagine di un'assemblea di 2700 persone che si trovasse a dividersi attorno a pochissimi interventi, riproducendo logiche populiste oggi fin troppo in voga. Il rischio è quello segnalato da Paolo quando, rivolgendosi ai Corinzi, scrive: «Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: "Io sono di Paolo", "Io invece di Apollo", "E io di Cefa", "E io di Cristo!". Cristo è stato forse diviso?» (Cor. 1, 12-13). Il lavoro nei gruppi pertanto sembra l'occasione più adatta per far emergere idee e proposte intelligenti espresse da tutti, uomini e donne, del nord e del sud, di ogni livello culturale, sia adulti che giovani: sì, non avendo paura dello Spirito che parla attraverso i giovani, che sembrerebbero i meno equipaggiati mentre hanno invece il guizzo del nuovo, come già aveva previsto san Benedetto quando dettava le regole di vita per i suoi confratelli.
La proposta delle mozioni o degli ordini del giorno, per quanto suggestiva, a ben vedere non interpreta la qualità profonda dell'incontro. Potrei chiedermi infatti: «da chi sono stato eletto io, per esprimermi a mia volta con un voto? O non è forse vero che io sono stato scelto, insieme ad altri della mia Chiesa, perché abbiamo a produrre nel convegno ecclesiale quell'opera di discernimento a cui già partecipiamo nella nostra ordinaria esperienza di Chiesa?». Non è votando una proposta, che essa diventa fatalmente vera. Un'assemblea ecclesiale non è mai alla ricerca di un consenso comunque sia, ma di ciò che è bene perché in relazione al vero. In altri termini, il sensus fidelium non è il sensus communis, né il sentire dei maggiori (siano essi l'élite o i più), ma buono e giusto è ciò su cui si converge come comunità. E compito del pastore è favorire tale convergenza.
Questa è la partecipazione propria nella Chiesa: non ne conosciamo di più adeguate, e improprio sarebbe assumere le modalità di espressione tipiche del parlamentarismo rappresentativo, quando si tratta invece di discernere, e quindi di arrivare a consapevolezze nuove, senza trascurare alcun frammento di verità emerso dal confronto.
Si pone piuttosto la necessità di far circolare idee e proposte che siano espressione di una vita di fede delle persone e delle comunità. Avvenire è per questo a disposizione. Una cosa è certa: il cammino dell'anno trascorso ha espresso una ricchezza che senza dubbio confluirà nelle giornate veronesi. Si profila all'orizzonte un protagonismo nuovo, che poco ha a che fare con i modelli di trent'anni fa. E poco produce giudicarlo con i criteri di allora. Altre priorità premono, altre esigenze, e se vogliamo anche altre allergie oggi si palesano. E così, come normalmente succede a livello diocesano e nessuno se ne scandalizza, sarà poi compito dei pastori evidenziare del convegno le idee vitali emerse. Che i vescovi siano vescovi, è sentita oggi dai laici come garanzia, non una minaccia.