POPOLARISMO: I NOMI E LE COSE

 

Giorgio Campanini

Dopo un lungo travaglio e al termine di animate discussioni – tanto in sede congressuale quanto, e più ancora, in periferia – alla fine il Partito Popolare ha deciso la confluenza nella “Margherita”, affidando a questa sostanzialmente nuova formazione il compito di mantenere e di perpetuare l’eredità del popolarismo.

In che senso questa decisione può essere considerata un passo indietro e uno avanti?

E’ certamente un passo indietro se si fa riferimento alla visibilità di una presenza in politica dei cattolici che, seppure non più unitaria (essendo note le molte divisioni che hanno caratterizzato questa “galassia” un tempo quasi monolitica), era pur sempre significativa.

E’ invece un passo avanti se ci si pone nella prospettiva – che non può essere mai elusa da una politica che voglia perseguire non la pura testimonianza ma anche il successo, seppure non sempre né a qualunque costo – di rendere effettiva ed incisiva questa presenza.

La domanda di fondo alla quale il Congresso del Partito Popolare doveva dare una risposta era se dovessero prevalere le ragioni dell’identità o quelle della capacità di presenza; ed alla fine sono state queste ultime ad avere la meglio.

La via è stata tracciata e sarà probabilmente percorsa sino in fondo, anche se non senza sofferenza e rimpianto.

Ci si può domandare se un’altra scelta fosse di fatto possibile, in questo specifico contesto politico e di fronte a questa legge elettorale (che i vincitori di ieri si guarderanno bene dal cambiare, dato che ha loro consentito con una esigua e forse inesistente maggioranza di diventare consistente, e talora un poco prepotente, egemonia).

In tutta onestà riteniamo di potere affermare che di fatto non vi era alternativa: salvo quella di diventare partito senza ambizioni di governo ed orientato a giocare la sua presenza, nello stile del vecchio partito radicale, sul solo piano della società civile.

Operata questa scelta, è tuttavia importante che l’eredità del popolarismo non vada dissipata: cosa che inevitabilmente accadrebbe qualora la confluenza diventasse un generico e indistinto assemblaggio.

Per evitare di correre questo rischio, occorrono almeno due condizioni, che è augurabile siano tenute presenti da quanti avranno la responsabilità di traghettare il partito dal vecchio al nuovo approdo.

La prima condizione è che rimanga saldo l’ancoramento con la grande tradizione di pensiero che si è espressa nel primo Partito Popolare, nella Democrazia Cristiana ed anche, nonostante la brevità della sua esperienza, nel secondo Partito Popolare. E’ un patrimonio di valori, di ispirazione, anche di testimonianze (basterebbe pensare a uomini come Sturzo e F.L.Ferrari, De Gasperi e La Pira, Rossetti e Moro) che non può essere dissipato. Coltivare e tramandare questa storia attraverso qualificate istituzioni di cultura ben radicate nel territorio sarà fondamentale responsabilità dei cattolici democratici, ovunque politicamente situati.

La seconda condizione è che questa tradizione – richiamatesi al personalismo cristiano, alla valorizzazione della società civile e dei corpi intermedi, al solidarismo e alla passione per la giustizia sociale – non venga rinnegata sul piano programmatico per esigenze di deteriore compromesso o, purtroppo, di bassa bottega. Le grandi idee-forza del popolarismo potranno in larga misura anche essere le idee-forza della Margherita.

Alla fine, quanto sembra perduto su un versante può essere riconquistato su un altro. I conti, dunque, potrebbero tornare: e non tanto nell’interesse, pur legittimo, dei cattolici, quanto e soprattutto nell’interesse generale del Paese, che dei cattolici democratici, e della loro forte e lucida passione civile, ha ancora bisogno, soprattutto nella grigia, anche se arrembante, stagione dell’efficientismo, della tecnocrazia, della politica dell’immagine.