Al Convegno da protagonisti. Quale metodo?

Lettera di Campanini ad Avvenire

Giorgio Campanini

2007

Caro direttore,
nella «Traccia» preparatoria al convegno di Verona è contenuta una preziosa indicazione che dovrà essere augurabilmente al centro della riflessione della Chiesa italiana in occasione di questo importante, e per certi aspetti decisivo, appuntamento. Si tratta del punto in cui - dopo aver sottolineato l'importanza della testimonianza cristiana nella società di oggi - si pone al centro della «cura ecclesiale», e dunque della pastorale «la qualità della fede dei credenti, prima che il loro impegno» (n. 9). È, questo, il fondamentale banco di prova della capacità di incidenza della Chiesa sulla società italiana, con una serie di importanti implicazioni pastorali, su due soltanto delle quali si vorrebbe qui richiamare l'attenzione.
Il primo problema posto dal primato della qualità della fede è quello del rapporto tra evangelizzazione e sacramenti, fin dagli anni '70 oggetto di particolare attenzione da parte della Chiesa italiana. Sembra indubbio che si sia di fronte ad un evidente sbilanciamento in direzione dell'amministrazione dei sacramenti. Una realistica valutazione delle risorse umane e materiali impiegate nell'una piuttosto che nell'altra direzione non potrebbe che confermare questo sbilanciamento. Un caso emblematico è quello del sacramento del battesimo, in ordine al quale componenti tradizionali, rituali, a volte quasi «magiche» sembrano avere di gran lunga la prevalenza sulla proposta di fede. In che misura il battesimo, quale è amministrato oggi, è realmente un annunzio, una proposta di fede? Che ne è della figura dei «padrini» (e delle madrine) ipotetici «garanti» della fede del piccolo battezzato, in una società largamente secolarizzata come l'attuale? Vi è da domandarsi se l'attuale prassi - quella di non negare a nessuno, credente o non credente, il battesimo - sia proprio quella più ecclesiasticamente corretta e se, senza cedere a tentazioni manichee, si possa consentire anche per il futuro un battesimo senza catechesi (dei genitori o almeno dei familiari e, forse soprattutto, dei candidati padrini). In questo campo non mancano i documenti ma, sembra di dover affermare, difetta la prassi.
Un secondo problema relativo alla qualità della fede è individuare le figure che dovranno curarla. Stiamo ormai uscendo da una lunga stagione - quella seguita al Concilio di Trento - in cui la proposta di fede è stata essenzialmente affidata ai presbiteri ed ai religiosi. Ma a questo riguardo le prospettive future sono severe e impietose, come mette in evidenza un'accurata ricerca svolta ad opera della stessa Conferenza episcopale italiana. Dove sono, tuttavia, le «figure alternative» alla cui formazione la Chiesa italiana sta attendendo per colmare i vuoti che già vi sono e quelli che prevedibilmente si apriranno in futuro? Vi sarebbe qui un vasto discorso da compiere circa la valorizzazione delle religiose, l'impegno dei diaconi, la qualità dei catechisti laici, la presenza nella comunità cristiana di biblisti, di teologi, di moralisti laici preparati e qualificati che possono in prospettiva rappresentare figure di riferimento. Più che a moltiplicare e a qualificare, queste «nuove figure» sembra ci si stia preoccupando semplicemente della razionalizzazione dell'impiego delle antiche figure, attraverso una sorta di «ingegneria pastorale» che appare più orientata a rapportare la cura pastorale alla realtà esistente, piuttosto che a porre su nuove basi la necessaria azione per la promozione della «qualità della fede».
Su questi temi certamente il convegno di Verona si soffermerà. Vi è tuttavia un problema che è, nello stesso tempo, una preoccupazione. L'assenza di un dibattito generale, l'impossibilità di preparare indicazioni condivise (e l'affidamento alla sola presidenza del convegno delle conclusioni), la potenziale dispersione nei gruppi e sottogruppi rischia di non consentire alle proposte più innovative di emergere e di raccogliere i necessari consensi. Non sono infatti previsti, a quanto risulta, né mozioni, né ordini del giorno, né simili strumenti grazie ai quali verificare in qualche modo gli orientamenti dell'assemblea.
Non è in questione, in questo caso, la responsabilità ultima della decisione, che rimane affidata alla collegialità dell'episcopato, ma la verifica della reale volontà e dei reali orientamenti di un'assemblea particolarmente qualificata, che è di fatto un importante (e poco abituale, se si pensa che dieci anni sono passati dal convegno di Palermo) luogo nel quale «tastare il polso» della Chiesa italiana nella sua interezza. Proprio qui, sul piano delle conclusioni e delle indicazioni operative (in passato talora generiche, talora disattese), e della loro rispondenza agli orientamenti di una significativa componente della Chiesa italiana nelle sue variegate articolazioni, si misurerà la fecondità dell'assise veronese. Non saranno importanti tanto le opinioni che si esprimeranno quanto gli orientamenti pastorali che emergeranno e che dovrebbero augurabilmente ispirare le successive decisioni. Non è bene, in una Chiesa popolo di Dio, che le decisioni siano prese in solitudine da chi ha ricevuto da Dio, insieme al carisma della guida, anche l'appello al discernimento.

La risposta

Dino Boffo

A fronte dell'apprezzabile intervento del professor Campanini, mi pare utile reagire ad alcune sue «provocazioni». L'obiettivo di fondo è riuscire a ragionare insieme sulla posta in gioco del prossimo convegno di Verona, stando attenti - per quanto possibile - a non disperdere nulla della consapevolezza maturata, magari grazie anche ai precedenti convegni.
La «qualità della fede dei credenti» e le «figure che dovranno curarla» sono - come negarlo? - temi ciclopici, che non a caso si trovano da tempo all'attenzione delle nostre comunità cristiane, come riconosce lo stesso professor Campanini. La Cei lo sa perfettamente, tanto da avervi dedicato negli ultimi anni momenti qualificati per approfondirli e discuterli, elaborando specifici orientamenti. E singole diocesi, a partire proprio dall'Emilia, non sono state da meno. Ma accanto ai problemi, sono state individuate alcune possibili strategie per superarli. Per chi è interessato, non mancano i riferimenti concreti: basta chiedere o recuperare - tramite l'archivio storico di Avvenire oggi offerto nei cd - il materiale di volta in volta pubblicato sull'argomento. Certo, non sono questioni semplici, a cui dare soluzione con una meccanica applicazione di formule concepite magari a tavolino. Proprio in questa materia è evidente, infatti, quanto le scelte episcopali maturino cum ecclesia, cioè grazie all'esperienza viva del popolo di Dio.
L'immagine dunque di una Chiesa ripiegata su se stessa e come paralizzata rispetto alla necessità di identificare forme nuove di annuncio del Vangelo, appare inadeguata alla realtà, e non solo poco generosa. Al contrario, il cammino tracciato - per esempio - in preparazione al prossimo Convegno ecclesiale si è sviluppato a partire dalla centralità della persona credente che, nella concretezza della vita, e nelle sue diverse dimensioni, cerca la fedeltà al Risorto; e questo ci pare segno inequivocabile di una chiara consapevolezza circa la posta in gioco e della disponibilità operosa a trasformare abitudini e prassi consolidate.
Una comunità ecclesiale poi sa dirsi tale solo se riesce a «procedere insieme», assorbendo in sé inevitabili fughe in avanti come le altrettanto inevitabili frenate. Questo vale anche per il prossimo appuntamento di Verona. Come i tre precedenti - Roma, Loreto e Palermo - è il convegno ecclesiale nazionale, cioè delle Chiese che sono in Italia; e la prima preoccupazione è stata, ed è, coinvolgere tutte le diocesi del Paese. L'apporto delle singole componenti del popolo di Dio non può essere pensato al di fuori di questo protagonismo ecclesiale, pena cadere in contraddizione rispetto all'assunto conciliare che ha proprio nella comunità cristiana il vero soggetto di ogni crescita.
Ma a che punto siamo? Una volta avuto in mano lo strumento di preparazione, all'inizio dell'estate del 2005, le diocesi si sono messe al lavoro. Alla giunta del comitato preparatorio sono pervenute le sintesi di ogni regione, da cui risulta che quasi tutte le Chiese locali hanno riflettuto attentamente sui temi all'ordine del giorno. Anche altre realtà ecclesiali hanno fornito dei contributi. Spesso, in passato, si era auspicato il «convenire del popolo di Dio». Fuor di retorica, guardando i fatti, si può affermare che il cammino di preparazione di questo quarto convegno ha espresso «il convenire» in modo più netto rispetto a ieri. Addirittura c'è chi ha affermato che quello appena trascorso non è stato un anno di preparazione, ma l'anno vero e proprio del Convegno, di cui le giornate veronesi saranno il culmine. Si è dunque lavorato, eccome. Quanto e più che nel passato.
Problema di ogni grande assemblea è il metodo: come lavorare per essere produttivi? Anche qui però occorre non allontanarsi mai dalla natura ecclesiale dell'evento. Ridurlo alle sole relazioni o ai confronti comunitari sarebbe fuorviante. Il convegno sarà un evento assai più complesso, come accade per ogni grande appuntamento ecclesiale. Ma, per non eludere una provocazione di Campanini, occorre riconoscere che spesso in queste circostanze il tempo dedicato al dibattito viene monopolizzato da coloro che sanno alzare la voce più e meglio degli altri. Per questo il lavoro nei gruppi appare la formula più appropriata se si vuol offrire la stessa possibilità di parola a tutti i partecipanti. Sarebbe poco adeguata l'immagine di un'assemblea di 2700 persone che si trovasse a dividersi attorno a pochissimi interventi, riproducendo logiche populiste oggi fin troppo in voga. Il rischio è quello segnalato da Paolo quando, rivolgendosi ai Corinzi, scrive: «Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: "Io sono di Paolo", "Io invece di Apollo", "E io di Cefa", "E io di Cristo!". Cristo è stato forse diviso?» (Cor. 1, 12-13). Il lavoro nei gruppi pertanto sembra l'occasione più adatta per far emergere idee e proposte intelligenti espresse da tutti, uomini e donne, del nord e del sud, di ogni livello culturale, sia adulti che giovani: sì, non avendo paura dello Spirito che parla attraverso i giovani, che sembrerebbero i meno equipaggiati mentre hanno invece il guizzo del nuovo, come già aveva previsto san Benedetto quando dettava le regole di vita per i suoi confratelli.
La proposta delle mozioni o degli ordini del giorno, per quanto suggestiva, a ben vedere non interpreta la qualità profonda dell'incontro. Potrei chiedermi infatti: «da chi sono stato eletto io, per esprimermi a mia volta con un voto? O non è forse vero che io sono stato scelto, insieme ad altri della mia Chiesa, perché abbiamo a produrre nel convegno ecclesiale quell'opera di discernimento a cui già partecipiamo nella nostra ordinaria esperienza di Chiesa?». Non è votando una proposta, che essa diventa fatalmente vera. Un'assemblea ecclesiale non è mai alla ricerca di un consenso comunque sia, ma di ciò che è bene perché in relazione al vero. In altri termini, il sensus fidelium non è il sensus communis, né il sentire dei maggiori (siano essi l'élite o i più), ma buono e giusto è ciò su cui si converge come comunità. E compito del pastore è favorire tale convergenza.
Questa è la partecipazione propria nella Chiesa: non ne conosciamo di più adeguate, e improprio sarebbe assumere le modalità di espressione tipiche del parlamentarismo rappresentativo, quando si tratta invece di discernere, e quindi di arrivare a consapevolezze nuove, senza trascurare alcun frammento di verità emerso dal confronto.
Si pone piuttosto la necessità di far circolare idee e proposte che siano espressione di una vita di fede delle persone e delle comunità. Avvenire è per questo a disposizione. Una cosa è certa: il cammino dell'anno trascorso ha espresso una ricchezza che senza dubbio confluirà nelle giornate veronesi. Si profila all'orizzonte un protagonismo nuovo, che poco ha a che fare con i modelli di trent'anni fa. E poco produce giudicarlo con i criteri di allora. Altre priorità premono, altre esigenze, e se vogliamo anche altre allergie oggi si palesano. E così, come normalmente succede a livello diocesano e nessuno se ne scandalizza, sarà poi compito dei pastori evidenziare del convegno le idee vitali emerse. Che i vescovi siano vescovi, è sentita oggi dai laici come garanzia, non una minaccia.