UN SISTEMA POLITICO IN MOVIMENTO ?

Giorgio Campanini

2007

 

E' una sorta di "luogo comune" la tesi - sostenuta ed accreditata da autorevoli politologi - secondo la quale il sistema politico italiano soffra, da circa un ventennio a questa parte, di un vistoso ­e marcato immobilismo. Quanti avevano frettolosamente annunziato - agli inizi degli anni '90 e sulla base dei superficiali entusiasmi determinati dalla crisi dei grandi partiti, in primis della Democrazia Cristiana - l'avvento della “seconda repubblica" hanno dovuto un poco alla volta ricredersi. Certo, il quadro attuale è diverso­ da quello del quarantennio 1946 - 1986, ma il "nuovo", il vera­mente nuovo, tarda ad emergere.

In realtà anche il sistema politico italiano è, per certi aspet­ti, "in movimento": ma è un movimento incerto, fatto di brusche accelerazioni e di altrettanto rapidi ritorni al passato e, soprattutto, è un movimento che sembra ignorare una meta ben pensata­: un movimento ambiguo, che va in direzioni diverse (ciò che vuoI dire, in realtà, che non va in nessuna direzione). Confermano questa diagnosi, per certi aspetti impietosa, alcuni dati con i qua­li ci si deve necessariamente confrontare:

  1. a) l'evidente incapacità delle forze politiche di aggiornare una Costituzione che sostanzialmente tutti ritengono ad un tempo valida nei suoi "Principi fondamentali” e superata nella parte che riguarda l'organizzazione dello stato (ed in particolare i rispetti­vi ruoli del Parlamento, del Governo, dello Stato e delle regioni, delle forze politiche);
  2. b) la profonda crisi dei partiti politici tradizionali e la parallela incapacità dei teorizzatori di nuove forme di partecipa­zione politica di proporre reali alternative alla vecchia "forma­ partito", senza imboccare la facile scorciatoia del "partito perso­naIe" che sostituisce alla partecipazione dei cittadini la suggestione (e spesso la massificazione) televisiva;
  3. c) l'incapacità di procedere ad una riforma della legge elettorale rite­nuta pressocché da tutti necessaria, legge che rischia di durare ancora a lungo per la paralizzante logica dei "veti incrociati".

E' possibile, tuttavia, che questa stagione di paralizzante im­mobilismo stia avviandosi alla fine. Possono essere letti in questa ottica tre fatti relativamente recenti che si sono verificati all'in­domani della vittoria di misura del centro-sinistra nelle elezioni politiche del 2006:

  1. La costituzione, ormai in dirittura d'arrivo, del Partito democratico, come tentativo di superare l'antica (e per cer­ti aspetti addirittura crescente) frammentazione delle forze politi­che; Partito democratico che potrebbe determinare, quasi per effetto di trascinamento, la costruzione di un sistema politico "tripolare" che prenderebbe il posto dell' attuale assurda frammentazione partiti­ca, individuando tre grandi blocchi politici, e cioè un blocco di centro-destra (Forza Italia e i suoi alleati), uno di centro sini­stra (appunto il Partito democratico), uno di sinistra raggruppante le diverse formazioni che manifestano una crescente insofferenza verso l'attua­le politica di governo e che confermano la loro radicale natura di opposizione permanente, data la loro strutturale incapacità di ac­cettare quella "cultura della mediazione" (ben diversa dal compro­messo di basso profilo) che è l'essenza stessa della democrazia.
  2. La ripresa, attraverso l'appello referendario in ordine alla legge elettorale, di un movimento partecipativo di base, sostanzialmente estraneo agli attuali partiti (ed anzi da essi guar­dato con diffidenza) ma che esprime sentimenti ed atteggiamenti lar­gamente diffusi nel corpo elettorale; movimento di base che esprime e manifesta un diffuso bisogno di cittadinanza che si contrappone all'altrettanto diffuso sentimento di estraneità alla vita po1itica, che si esprime poi nella non partecipazione alla vita della comunità, di cui sono sintomi, per certi aspetti inquietanti, non solo la presa di distanza dai partiti e la stessa astensione dal voto, ma anche il sistematico discredito di tutto ciò che fa riferimento alla politica.
  3. 3. La crescita nel Paese e l'avvio in forme almeno parzial­mente organizzate e dunque permanenti, di atteggiamenti che da una parte, in quanto strutturalmente "anti-politici", rischiano di met­tere in crisi la stessa democrazia (che, non è inutile ricordarlo, è la forma eminente di organizzazione della polis e dunque non può non essere "politica") ma che dall'altra parte esprimono, nonostan­te tutto, l'aspirazione ad una politica migliore, e di questa "mi­gliore politica" ricercano in qualche modo le vie, pur percorrendo di fatto sentieri che non portano da nessuna parte (o, peggio, po­trebbero prefigurare scenari autoritari, anche se necessariamente di diverso segno rispetto a quelli conosciuti nella prima metà del Novecento).

Questo insieme di dati sta ad indicare che il sistema politi­co italiano è effettivamente in movimento; ma, appunto, movimento in quale direzione? Verso dove? E' questa la "grande domanda" alla quale occorre cercare di dare una risposta. In. vista di que­sta risposta - che presenta una serie di elementi di grande comples­sità - ci si limiterà a sottolineare un aspetto, per altro fondamentale­, della questione, quello cioè delle forme della nuova cit­tadinanza, nel presupposto che essa rappresenti la condizione fon­damentale del rinnovamento del sistema politico.

  1. La società attuale deve fare i conti con una sorta di ideologia dell'esclusione che è non meno inquietante per il fatto di rimanere spesso allo stato di latenza. E’ un'esclusione che si sviluppa su diversi fronti: quella generazionale, sia perché resta­no fuori del sistema democratico quanti restano sotto la soglia del 18° anno e dunque non votano e non sono rappresentati (con le peri­colose conseguenze che ne derivano in ordine alle scelte, soprat­tutto di politica economica, che privilegiano sistematicamente colo­ro che possono votare rispetto a coloro che non possono votare); sia perchè la stessa componente giovanile dell'elettorato è ad un tempo esclusa dal potere e assoggettata (proprio per effetto dell'azione delle generazioni adulte) alla tentazione del puro ripiegamento nel privato (nel privato del divertimento, dell’erotismo, della dissi­pazione informatica e televisiva, quasi che essere "tecnologicamente attrezzati" significasse automaticamente essere cittadini consape­voli).

Un secondo aspetto dell'esclusione è quello lavorativo, nel­la misura in cui non si ha una reale pienezza di cittadinanza quando si venga di fatto impediti di raggiungere una reale autonomia, di­rettamente legata alla professione e al lavoro.

Un ultimo aspetto dell'esclusione è quello etnico, riferito  ad una componente - già oggi ampia e tendenzialmente crescente per effetto degli squilibri demografici in atto di uomini e donne di recente immigrazione e che restano ancora ai margini della vita del­la città.           .

  1. La società attuale deve conseguentemente attrezzarsi in vista di una cultura dell'inclusione, che implica una nuova at­titudine alla partecipazione, non necessariamente mediata, come un tempo, dai partiti politici tradizionali, ma che tuttavia presuppone (ieri come oggi e come domani) che un segmento non marginale della propria vita, del proprio tempo, dei propri interessi, sia dai cittadini dedicato alla vita della città. Non è detto che questa appartenenza alla città si debba esprimere necessariamente in una vera e propria militanza politica, dato che sono possibili altre forme di parteci­pazione, dall'attenzione alle dinamiche del territorio alle espe­rienze del volontariato; ma è comunque necessaria la fuoriuscita dal privato: grande problema di tutte le democrazie, soprattutto in quanto società "ragionevolmente" libere e giuste, proprio perchè­ sono soprattutto l'illibertà e l'ingiustizia – come mettono in evidenza le vicende di quella gran parte del mondo che le conosce,

e come attesta la stessa esperienza storica dell'Occidente – che attivano la partecipazione: in questo senso si potrebbe affermare che la partecipazione attiva dei cittadini alla vita della comunità è figlia del "tempo della miseria" - quando evidenti si fanno le manifestazioni della "cattiva politica" -mentre la fuga nel pri­vato è figlia del "tempo felice", quello in cui, grazie ad una "buo­na politica", la libertà è garantita e la giustizia ragionevolmente­ perseguita.

Un poco paradossalmente, l'attuale stagione del sistema poli­tico italiano, proprio perché situata nel  “tempo della miseria”, può attivare quella partecipazione che nel "tempo felice" era meno facilmente attuabile.

Perché tuttavia quella che si può chiamare una vera e propria "crisi del sistema" abbia uno sbocco positivo ed operi nel senso del rafforzamento della democrazia, occorre il preliminare verifi­carsi di alcune condizioni, non facili a determinarsi.

La prima è una reale capacità di autocritica della classe po­litica, naturalmente incline da una parte alla sottovalutazione del malessere in atto, dall'altra ad affrontare la situazione con sem­plici palliativi o con interventi soltanto di facciata. .

La seconda è che questo processo di rinnovamento coinvolga nuove forze, e cioè componenti significative di quella società civi­le rimasta sin qui estranea alla politica ed all'interno della qua­le esistono ancora molte risorse potenziali di cui solo in piccola parte la politica si è sin qui avvalsa.

La terza condizione è che le varie componenti della società civile abbandonino l'atteggiamento di critica preconcetta o, al più, di passiva attesa nei confronti della politica per assumersi invece sino in fondo le loro responsabilità.

Si impone infine un grande compito di "purificazione" del linguaggio stesso della politica, con l'abbandono delle genericità, delle ap­prossimazioni, delle astrattezze che troppo spesso l'hanno caratte­rizzato.

Queste condizioni per una buona politica saranno meno diffi­cilmente realizzabili se la società italiana nel suo complesso riacquisterà quella capacità progettuale di lungo periodo che ha in gran parte perduto. Non si tratta di rispolverare antiche ed ob­solete utopie ma di misurarsi con i nuovi orizzonti della globaliz­zazione e con le nuove conquiste della tecnica, avendo la consape­volezza che, per la prima volta nella storia, una società libera e giusta è possibile perché sono in gran parte venute meno le anti­che ragioni dell'esclusione e dell'emarginazione, prime fra tutte l’insufficiente consapevolezza critica (a causa dell’i­gnoranza) e la mancanza dei beni necessari alla vita (per un insufficiente sviluppo). Una società largamente scolarizza­ta e relativamente prospera (anche se ancora caratterizzata da in­quietanti diseguaglianze) non può più accettare quanto per millen­ni gli uomini e le donne sono stati costretti a subire.

Momento essenziale di questa nuova progettualità è la con­sapevolezza che quanto è stato possibile per l'Occidente lo è an­che per tutto il resto del mondo e che nell'orizzonte della globa­lizzazione non possono essere ulteriormente tollerate le palesi ingiustizie e le patenti illibertà che ancora costellano vaste a­ree del pianeta.

Si tratta dunque di porre termine al piccolo cabotaggio del­le piccole politiche per navigare in mare aperto alla costruzione di una società migliore, aprendo alle donne e agli uomini del no­stro tempo gli scenari di una politica per la quale mette conto di spendere parte della propria vita, anche se la politica non è tutto e anche se essa deve sempre sapersi fermare in tempo, ri­spettando i più alti valori che stanno al di là della sua soglia e che dunque la travalicano. Se questa nuova consapevolezza si farà strada, il resto verrà: come era solito affermare Napoleone, l'intendence suivra.....

Il rinnovamento del sistema politico non potrà derivare dall'alto - nemmeno da pur "illumi­nate" scelte operate dagli attuali gruppi dirigenti dei partiti -­ ma potrà nascere soltanto dal basso, quando i cittadini vorranno tornare, secondo una felice espressione del compianto amico Roberto Ruffilli, "arbitri della politica".     

Nel cammino di ri-legittimazione della politica la famiglia e le chiese, la scuola e le varie forme di associazionismo dovranno fare la loro parte; ma la loro parte dovranno farla anche gli attua­li partiti e, in generale, quanti hanno attualmente nelle loro mani i destini della politica. Bisognerà mettersi al lavoro per aggiornare il quadro costituzionale, per dare al Paese una legge elettorale che consenta ai cittadini di decidere, per rinnovare, e ringiovanire, la classe dirigente, per rimuovere ogni forma di parassitismo e di clientelismo. E', come si vede, un'impresa di non poco conto.

E' su questo terreno - e non su quello della spartizione dei posti o, tanto meno, delle prebende - che si misurerà la qualità del­la classe politica. Mai come in questo caso ha valore un detto più volte richiamato da Aldo Moro, chi ha più filo, più tessa. Vi è da augurarsi che alla fine siano più capaci, inventivi, innovativi, i "tessitori della politica" (della buona e sana politica) piuttosto che i "tessitori" dell' "anti-politica", e cioè della cattiva poli­tica. Come si legge in un bel "manifesto" rivolto dall'Azione Cat­tolica Italiana al Paese (I cattolici italiani tra piazze e campani­li) - mi sia consentita quest'ultima citazione a conclusione di una riflessione condotta, mi auguro, in stile di laicità- : "Il Paese me­rita un futuro all'altezza del proprio patrimonio di fede cristiana, di cultura umanistica e scientifica, di passione civile e di solida­rietà sociale. Ha diritto alla speranza". E la speranza passa anche, seppure non soltanto, dalla via della politica.