Etica

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2 Ottobre: Giornata internazionale della nonviolenza

 INIZIATIVA COMUNE DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO IN OGNI REGIONE D'ITALIA

[Dal Movimento Nonviolento (per contatti: via Spagna 8, 37123 Verona, tel.
0458009803, fax: 0458009212, e-mail: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. , sito:
www.nonviolenti.org) riceviamo e diffondiamo]


RIFLESSIONE. GIANCARLA CODRIGNANI: DUE OTTOBRE
[Ringraziamo Giancarla Codrignani (per contatti: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.) per questo intervento]

Le date simboliche mi appassionano fino a un certo punto, anche perche' ne siamo inflazionati fino a perderne il senso. Tuttavia alcuni simboli hanno un valore innegabile: ci richiamano a pensare alla necessita' di portare avanti la storia anche nella fatica e nei disinganni perche' non possiamo essere incoerenti se confidiamo in qualche principio. I principi non sono astrazioni che basta nominare perche' qualcuno - magari non noi - li applichi. Sono mete lontane, che tuttavia motivano il vivere (che, di per se', non sarebbe gran cosa). Il 2 ottobre e' la giornata mondiale (voluta dalle Nazioni Unite) della nonviolenza. Il correttore elettronico ancora censura la parola sullo schermo del computer e, forse, saranno molti quelli che, quando la leggono, credono che manchi la separazione per errore di stampa. In realta' la parola nuova e' uno di quei segnali linguistici che fanno comprendere che il motore della storia puo' non essere abbandonato al caso, ma pilotato, almeno simbolicamente, verso progressivi perfezionamenti sociali. Quindi "celebriamo". E rendiamoci conto di quanto sia modesto il procedere verso la pur conclamata pace universale e quanto la violenza abiti ancora le coscienze umane. Ho conosciuto direttamente in anni non lontani l'odissea degli obiettori di coscienza e la resistenza che era non solo nelle fila dell'esercito, ma nella mentalita' comune a non ritenerli dei renitenti per vilta', per comodo individualistico, per rifiuto di quella disciplina militare che "fa diventare uomini". Oggi i cappellani militari non sarebbero piu' sostenitori di negativita' e i tribunali non condannerebbero piu' don Milani e padre Balducci. Tuttavia la violenza non fa riferimento solo ad armi e guerre, che ormai non sono piu' idealizzate secondo quell'"onore" che permetteva alla violenza ritenuta "necessaria" dagli stati di avere i ministeri "della guerra" e non della difesa, anche se si dira' che non e' cambiato molto, se tutti i patriottismi, anche quelli religiosi e ideologici, non sanno comporre civilmente i conflitti. Ma almeno da quando Freud ha richiamato alle pulsioni originarie e all'analogia tra il pene e l'arma, la nonviolenza dovrebbe guidare tutti i comportamenti sociali, a partire da quelli interpersonali e familiari ancor oggi crudeli fino all'assassinio delle persone care e inermi. Il disconoscimento della nonviolenza e' uno scacco delle religioni. Il buddismo non e' diventato cultura universale di nonviolenza, anche se ne aveva tutti i presupposti. Il cristianesimo, che da sempre conteneva i principi del rifiuto di ogni violenza, privata e tanto piu' pubblica, non riesce a recuperare nemmeno nominalmente questo valore. Ci sono testimoni della nonviolenza nel vissuto delle confessioni cristiane del secolo piu' violento che ha visto nascere il fascismo e il nazismo e ha subito due guerre mondiali; ma non conosco approfondimenti teologici che valorizzino questa virtu' come interna alle ragioni di fede. Infatti, come virtu', nasce laica. Ma se e' difficile per le religioni farsi nonviolente, non e' facile neppure per le organizzazioni della societa' civile. Un mondo che idolatra il successo facile, il consumismo, la competizione non si apre al primo requisito nonviolento che e' il riconoscimento dell'uguaglianza degli esseri umani e della stoltezza del principio di forza in qualunque modo applicato. La sola forza degli umani e' quella morale, dell'ingegno e dello spirito; per il resto, come diceva Lucrezio, siamo gli esseri piu' deboli della natura, quelli che nascono nudi piangendo il male che potranno vivere. Eppure stiamo tradendo liberta', giustizia, diritti, diseducando i figli e noi stessi, non solo nei confronti degli immigrati o dei disabili, ma scivolando nel baratro dell'ignoranza, proprio mentre l'ingegno e lo studio degli scienziati e' in grado di darci macchine piu' raffinate delle nostre capacita' di capire e prospettive di modificazioni della natura, anche umana, rischiose se affidate ad esseri ignoranti e irresponsabili. Quindi violenti.

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Il crocifisso ci appartiene (2)

Riportiamo due interventi esposti da Augusto Barbera[1] e Paolo Pombeni[2] sul supplemento Bologna 7 del quotidiano Avvenire, in merito alla decisione della Corte europea dei diritti del 3 novembre scorso.

Paolo Pombeni

Nella vicenda della pronuncia della Corte di Strasburgo (che non è un organo della UE, va detto ben chiaro) cioè che stupisce è il non aver tenuto alcun conto dell’enormità giuridica, che si veniva a creare con quella pronuncia. L’impressione è che avesse ragione Togliatti: quando scherzosamente affermava che «L’ente crea l’esistente», cioè un tribunale creato per la tutela dei diritti umani in un certo contesto storico poi per giustificare sé stesso deve andare alla caccia della creazione anche di diritti astratti che non esistono nella realtà della vita concreta. Nella vicenda della pronuncia sul crocifisso il problema grosso è che la Corte ragiona su un principio di giustizia ideologica contrapponendo la sua visione della religione ad altre visioni e non ragiona su un principio laico di diritto. Se si stabilisce che nella propria esperienza un soggetto non deve imbattersi in cose che contrastano con le sue opinioni, allora non è più possibile fare nulla. Non è il problema del crocifisso. Un pacifista (ed è una nobilissima dottrina) avrebbe diritto ad avere tutelata la sua volontà di non vedere "forze armate"; il cittadino di uno stato ospite in un altro di non vedere i simboli che gli ricordano quella sovranità che non lo riguarda; il cultore di una certa tendenza artistica a non vedere esposte in uno spazio pubblico opere che si rifanno a correnti che non approva.

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Il crocifisso ci appartiene (1)

Riportiamo due interventi esposti da Augusto Barbera[1] e Paolo Pombeni[2] sul supplemento Bologna 7 del quotidiano Avvenire, in merito alla decisione della Corte europea dei diritti del 3 novembre scorso.

Augusto Barbera

La decisione della Corte europea dei diritti del 3 novembre scorso è sorprendente. Essa fa propria una lettura della laicità che appartiene ad altri ordinamenti, in particolare alla Francia e alla Turchia. Non a caso diverse sono le Sentenze in cui la Corte di Strasburgo ha dovuto difendere decisioni di quei Paesi contrarie all’uso, negli spazi pubblici, di simboli religiosi, in particolare il velo islamico. Adottando tale lettura la Corte è venuta meno ai «margini di apprezzamento statale» nell’applicazione della Convenzione europea; vale a dire è venuta meno a quell’orientamento giurisprudenziale che di norma segue al fine di rispettare le tradizioni costituzionali nazionali.

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Il crocifisso ci appartiene (2)

Riportiamo due interventi esposti da Augusto Barbera[1] e Paolo Pombeni[2] sul supplemento Bologna 7 del quotidiano Avvenire, in merito alla decisione della Corte europea dei diritti del 3 novembre scorso.

Paolo Pombeni

Nella vicenda della pronuncia della Corte di Strasburgo (che non è un organo della UE, va detto ben chiaro) cioè che stupisce è il non aver tenuto alcun conto dell’enormità giuridica, che si veniva a creare con quella pronuncia. L’impressione è che avesse ragione Togliatti: quando scherzosamente affermava che «L’ente crea l’esistente», cioè un tribunale creato per la tutela dei diritti umani in un certo contesto storico poi per giustificare sé stesso deve andare alla caccia della creazione anche di diritti astratti che non esistono nella realtà della vita concreta. Nella vicenda della pronuncia sul crocifisso il problema grosso è che la Corte ragiona su un principio di giustizia ideologica contrapponendo la sua visione della religione ad altre visioni e non ragiona su un principio laico di diritto. Se si stabilisce che nella propria esperienza un soggetto non deve imbattersi in cose che contrastano con le sue opinioni, allora non è più possibile fare nulla. Non è il problema del crocifisso. Un pacifista (ed è una nobilissima dottrina) avrebbe diritto ad avere tutelata la sua volontà di non vedere "forze armate"; il cittadino di uno stato ospite in un altro di non vedere i simboli che gli ricordano quella sovranità che non lo riguarda; il cultore di una certa tendenza artistica a non vedere esposte in uno spazio pubblico opere che si rifanno a correnti che non approva.

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Il crocifisso ci appartiene (1)

Riportiamo due interventi esposti da Augusto Barbera[1] e Paolo Pombeni[2] sul supplemento Bologna 7 del quotidiano Avvenire, in merito alla decisione della Corte europea dei diritti del 3 novembre scorso.

Augusto Barbera

La decisione della Corte europea dei diritti del 3 novembre scorso è sorprendente. Essa fa propria una lettura della laicità che appartiene ad altri ordinamenti, in particolare alla Francia e alla Turchia. Non a caso diverse sono le Sentenze in cui la Corte di Strasburgo ha dovuto difendere decisioni di quei Paesi contrarie all’uso, negli spazi pubblici, di simboli religiosi, in particolare il velo islamico. Adottando tale lettura la Corte è venuta meno ai «margini di apprezzamento statale» nell’applicazione della Convenzione europea; vale a dire è venuta meno a quell’orientamento giurisprudenziale che di norma segue al fine di rispettare le tradizioni costituzionali nazionali.

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Banalizzare Dio è peggio che nasconderlo

Barbara Spinelli

Caro direttore, Marco Travaglio ha difeso il crocifisso esposto nelle aule della scuola pubblica, sul Fatto, in accordo con molti non cattolici contrari all’abbandono del simbolo essenziale del cristianesimo. Qualche giorno prima, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva emesso una sentenza favorevole al ricorso di una cittadina, Soile Lautsi, che in nome della laicità, della Costituzione e della Convenzione europea di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, aveva chiesto l’allontanamento della croce dall’aula frequentata a Abano Terme dai propri figli, rispettivamente di 11 e 13 anni. Sono duemila anni, scrive Travaglio nell’editoriale del 5 novembre, che il simbolo cristiano fa scandalo, e non solo per chi crede nella resurrezione: perché la croce non è lotta e conquista, ma rammenta un dolore che accomuna ed è “l’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia”. Perché, soprattutto, è “immagine di laicità (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) e gratuità (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”)”.

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