Banalizzare Dio è peggio che nasconderlo

Barbara Spinelli

Caro direttore, Marco Travaglio ha difeso il crocifisso esposto nelle aule della scuola pubblica, sul Fatto, in accordo con molti non cattolici contrari all’abbandono del simbolo essenziale del cristianesimo. Qualche giorno prima, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva emesso una sentenza favorevole al ricorso di una cittadina, Soile Lautsi, che in nome della laicità, della Costituzione e della Convenzione europea di salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, aveva chiesto l’allontanamento della croce dall’aula frequentata a Abano Terme dai propri figli, rispettivamente di 11 e 13 anni. Sono duemila anni, scrive Travaglio nell’editoriale del 5 novembre, che il simbolo cristiano fa scandalo, e non solo per chi crede nella resurrezione: perché la croce non è lotta e conquista, ma rammenta un dolore che accomuna ed è “l’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia”. Perché, soprattutto, è “immagine di laicità (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) e gratuità (“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”)”.

Sono parole forti e profonde, che ricordano argomenti usati in passato da Natalia Ginzburg, che Travaglio cita, e anche da Miguel de Unamuno, quando il governo del Fronte Popolare in Spagna proibì i crocifissi nelle scuole statali: “Cosa metterete nel vuoto lasciato dalla croce? La falce e il martello? La squadra e il compasso?” chiese il filosofo, criticando marxisti e massoni. E disse che tanti simboli, nella nostra cultura, hanno origine nel cristianesimo: a cominciare dalle campane.

Le parole profonde non sono tuttavia quelle che dominano il discorso pubblico, da quando la Corte ha parlato. Le più usate hanno ben altro timbro: o sono leggere fino all’inconsistenza, o sono aggressive, e del tutto sorde alla cultura –non meno legittima, nobile, rappresentativa dell’Europa– che pervade l’analisi fatta dai giudici di Strasburgo. I più aggressivi hanno accusato la Corte di ideologia anticristiana, di smemoratezza storica: come se non fosse la storia, e più precisamente l’uso che in passato è stato fatto di religioni e pseudo-religioni totalitarie, a spiegare la nascita dell’unità europea dopo la guerra, e sentenze come quella appena pronunciata sul crocifisso. Quanto ai leggeri, la reazione è stata di fastidio, di volontaria ignoranza dei simboli e della loro essenza. Particolarmente significativo lo stupore di Pierluigi Bersani, nuovo segretario del Pd: “Io penso che un'antica tradizione come il crocifisso non sia offensiva per nessuno”. Dunque lasciamo la croce dov'è, senza farci troppe domande: non perché il simbolo sia importante ma giustamente perché, non essendolo, non dà fastidio a nessuno. Come tutte le sentenze, anche quella di Strasburgo va letta attentamente, e si vedrà tutta la miseria di chi ha creduto di difendere il crocifisso avvicinandosi a esso con furba disinvoltura. In sostanza, i due rappresentanti del governo –Ersiliagrazia Spatafora e il suo assistente, Nicola Lettieri– sostengono che la croce non ha nulla di sovversivo e tanto meno evoca scandalo. In fondo, i due rappresentanti danno ragione a Pedro Almodovar: la croce è “un’iconografia pop”. Sta lì per non esser guardata, e ancor meno pensata: “Il crocifisso è esposto nelle aule scolastiche ma non viene in alcun modo chiesto agli insegnanti o agli allievi di fare il segno della croce, né di omaggiarlo in alcun modo (...) In realtà, non è neppure richiesto loro di prestare alcuna attenzione al crocifisso” (paragrafo 36 della sentenza, i corsivi sono miei). Non è che una macchia sulla parete: comunque, è un’immagine “non paragonabile all’impatto di un comportamento attivo, quotidiano e prolungato nel tempo come l’insegnamento” (paragrafo 37). Il silenzio del Cristo in croce non dice alcunché: non ha impatto, garantiscono gli avvocati del governo. Leggendo la sentenza mi è tornato in mente un negoziante che vendeva ciondolini a croce, un giorno a Londra. Un cliente si ferma, osserva e chiede: “Ma perché le croci a destra costano una sterlina e tutte le altre 30 penny?”. Al che il negoziante, indicando quelle da una sterlina: “Perché su queste c’è un ometto!” Ther’s a a little man on them!

Ma il paragrafo che più crudamente svela lo squallore della difesa governativa è il nr. 42: “Il governo non sostiene che sia necessario, opportuno o auspicabile mantenere il crocifisso nelle sale di classe, ma semplicemente sostiene che la scelta di mantenerlo o no dipende dalla politica e risponde dunque a criteri di opportunità, e non di legalità. Nell’evoluzione storica del diritto nazionale descritta dalla ricorrente, che il governo non contesta, occorre tuttavia capire che la Repubblica italiana, benché laica, ha deciso liberamente di conservare il crocifisso nelle aule per varie ragioni, fra cui la necessità di trovare un compromesso con i partiti di ispirazione cristiana che rappresentano una parte essenziale della popolazione e il sentimento religioso di quest’ultima”. In fin dei conti, la croce non ha nulla a vedere con la religione, ma molto, se non tutto, con la politica e perfino i partiti. Non senza ironia, la Corte osserva, nel paragrafo 46, che se il governo davvero ritiene che “l’esposizione del crocifisso non richieda alcun omaggio né alcuna attenzione, c’è da domandarsi come mai il crocifisso venga esposto. L’esposizione di tale simbolo potrebbe essere percepita come ‘venerazione istituzionale’ di quest’ultimo”.

È leggendo la sentenza che mi sono domandata se la posizione di Travaglio fosse giusta. Se non convenga piuttosto, alla luce delle miserie che si dicono e dell’uso politicante che viene fatto della croce, desiderare in maniera intensa tutt’altra soluzione. Se la natura religiosa d’un simbolo sbiadisce, sommersa da cultura e politica, allora sarebbe gran tempo, davvero, di togliere la croce dalle classi, al più presto. Difficile concepire un’offesa più grande a quello che la croce dice, questo considerarla nella migliore delle ipotesi qualcosa di innocuo, nella peggiore qualcosa che esula dalla religione. Le parole di Natalia Ginzburg (sull’Unità del 22-3-1988) hanno peso se la conversazione cittadina è grave e il simbolo non degenera in pretesto. Poiché è vero quello che la scrittrice suggerisce: “Il crocifisso è il segno del dolore umano. La corona di spine, i chiodi, evocano le sue sofferenze. La croce che pensiamo alta in cima al monte, è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino.” Ma se viene staccata dalla religione cui appartiene e diventa cultura generale o nazionale, o se diviene gadget che non possiede neanche una scintilla perturbante, meglio salvarla trasferendola – come il Duomo nelle Elegie Duinesi di Rilke nell’invisibile. Meglio il Dio nascosto, che la sua totale banalizzazione. D’altronde la Ginzburg dice una cosa tremenda, nello stesso articolo, generalmente taciuta dai cattolici che ne tessono le lodi: “Per i veri cattolici, deve essere arduo e doloroso muoversi nel cattolicesimo quale è oggi, muoversi in questa poltiglia schiumosa che è diventato il cattolicesimo, dove politica e religione sono sinistramente mischiate. Deve essere arduo e doloroso, per loro, districare da questa poltiglia l'integrità e la sincerità della propria fede”.

Penso che la descrizione non religiosa del crocifisso sia un’immensa trappola, per i laici come per i veri cattolici. Per i laici congiunge abusivamente religione, cultura, politica. Per i cattolici e cristiani è un furto: la religione, sciolta nell’acqua della cultura, svanisce. È vero, chi legge il Nuovo Testamento troverà valori umanistici, ma Gesù non è un umanista. Il cristianesimo separa quel che spetta a Cesare da quel che spetta a Dio, ma questo non lo rende un militante della cultura, molto posteriore, della laicità. Troppo moderni sono questi termini, per una fede antichissima e – su questi punti– labirintica. Si è parlato molto di identità italiana o europea, in questi giorni, ma la nozione di identità è estranea al cristianesimo, che è una religione al tempo stesso mite e molto severa, aperta al diverso e esigente. Se ci sono parole che il Cristo avversa sono proprio queste: identità, gruppo, famiglia, nazione, etnia. Nel Vangelo di Luca (14,26), quel che dice è sovversivo. Lo citiamo non nella traduzione Cei[1] ma in quella greca e latina: “Se uno viene a me e non odia suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita (psyche in greco), non può essere mio discepolo” (allo stesso modo traducono Lutero e King James).

C’è poi un altro aspetto della sentenza, secondo me trascurato. Essa viene emessa non in Italia sull’Italia, ma in Europa in nome dell’Europa, facendo una sintesi del vissuto di tutti i suoi paesi. L’idea di Europa è antica (un po’ come lo è l’idea di unità italiana) ma diventa progetto politico nella seconda metà del Novecento, dopo due guerre mondiali che hanno rivelato quel che le forti identità nazionali, eredi delle cinquecentesche identità religiose, hanno prodotto: sangue, catastrofi, annientamento di intere comunità a cominciare da quella ebraica e Rom. Alle spalle, il nostro continente ha guerre di religione e poi di pseudo-religioni politiche. L’Europa che non vuol perdersi dopo secoli di megalomanie identitarie non può che essere laica, proprio perché nasce come superamento delle identità, delle guerre di religioni e di culture. Essa mette fine al messianesimo comunista e all’idolatrico culto nazifascista delle radici e della stirpe, della terra e del sangue, del Blut und Boden.

In altre parole, se oggi una sua cittadina ricorre a un tribunale europeo perché non giudica compatibile con la propria libertà l’esposizione del crocifisso nella scuola pubblica, la Corte europea non può che rispondere con questa sentenza, a meno di non tradire se stessa e la storia d’un continente. Allo stesso modo l’Unione europea, quando discusse il trattato costituzionale, non poté che rinunciare alla menzione delle radici cristiane. Non perché la Francia si opponesse, ma perché la laicità è un patrimonio comune, e non poteva esser negata a uno solo degli Stati per il solo fatto che la religione o Dio sono menzionati nella maggioranza delle costituzioni nazionali.

Lo Stato non è neutrale, non oppone indifferenza assoluta al fenomeno religioso e al suo crescente diversificarsi –lo ha spiegato bene il giudice Marco Bignami in un recente convegno a Lipsia – ma non per questo professa una fede, neppure culturale: esso è chiamato difendere sia le libertà positive sia quelle negative del singolo –la sentenza lo ricorda– dunque l’equidistanza laica dalle più diverse identità religiose e non religiose. Lo Stato non usa la religione come instrumentum regni, contrariamente a quello che hanno fatto nel dibattimento gli avvocati del governo. Così si è pronunciata la Corte altre volte. Così ha statuito la Corte costituzionale tedesca, dando ragione a due cittadini che avevano fatto ricorso in Baviera nel 1995: lo stato bavarese rifiutò il verdetto, ma a partire dal 2002 consente agli insegnanti di allontanare la croce se la ritengono lesiva delle proprie intime convinzioni. La Francia tolse la croce molto prima, nel 1886, e non potrebbe stare in Europa se la sua tradizione venisse ignorata. La Spagna sta discutendo la sua rimozione, dopo una sentenza che nel gennaio 2009 ha ordinato di allontanare il simbolo da una scuola a Valladolid. Meglio sarebbe se anche l’Italia affrontasse il tema con le proprie forze: togliere simboli di tanto peso è strappo vissuto come ingiusto, se imposto dall’esterno.

In ogni caso, la lezione di questo episodio è che abbiamo due patrie e forse anche tre: l’Italia, l’Europa, il mondo. E che l’Italia non è più il paese a stragrande maggioranza cattolica come ai tempi delle circolari che imposero i crocifissi a scuola: prima tramite un decreto regio nel 1860 (quando ancora non esisteva l’unità) poi durante il fascismo tramite le circolari del 1922, 1926, 1928. A partire dal concordato dell’84, il cattolicesimo non è più religione di Stato. Sono date da meditare. Brandire la croce davanti alle telecamere per rivendicare le radici cristiane d’Europa, come ha fatto il Presidente del Consiglio, è qualcosa che agli italiani forse piace, ma di cui l’Europa diffida. Ha le sue buone ragioni, e una lunga memoria, che la spinge a diffidare con tanta forza.

 14 Novembre 2009

FONTI:

http://ilgiornalieri.blogspot.com/2009/11/banalizzare-dio-e-peggio-che.html

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578



[1] "Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo”. (ndr)