Il crocifisso ci appartiene (2)

Riportiamo due interventi esposti da Augusto Barbera[1] e Paolo Pombeni[2] sul supplemento Bologna 7 del quotidiano Avvenire, in merito alla decisione della Corte europea dei diritti del 3 novembre scorso.

Paolo Pombeni

Nella vicenda della pronuncia della Corte di Strasburgo (che non è un organo della UE, va detto ben chiaro) cioè che stupisce è il non aver tenuto alcun conto dell’enormità giuridica, che si veniva a creare con quella pronuncia. L’impressione è che avesse ragione Togliatti: quando scherzosamente affermava che «L’ente crea l’esistente», cioè un tribunale creato per la tutela dei diritti umani in un certo contesto storico poi per giustificare sé stesso deve andare alla caccia della creazione anche di diritti astratti che non esistono nella realtà della vita concreta. Nella vicenda della pronuncia sul crocifisso il problema grosso è che la Corte ragiona su un principio di giustizia ideologica contrapponendo la sua visione della religione ad altre visioni e non ragiona su un principio laico di diritto. Se si stabilisce che nella propria esperienza un soggetto non deve imbattersi in cose che contrastano con le sue opinioni, allora non è più possibile fare nulla. Non è il problema del crocifisso. Un pacifista (ed è una nobilissima dottrina) avrebbe diritto ad avere tutelata la sua volontà di non vedere "forze armate"; il cittadino di uno stato ospite in un altro di non vedere i simboli che gli ricordano quella sovranità che non lo riguarda; il cultore di una certa tendenza artistica a non vedere esposte in uno spazio pubblico opere che si rifanno a correnti che non approva.

Questa è l’obbiezione che si deve portare ad una sentenza che non ha, a mio giudizio, un fondamento giuridico razionale. Intendiamoci, anche altre hanno il loro fondamento, che non voglio negare: le radici, la cultura, le tradizioni. Ma l’obbiezione forte è quella di tipo giuridico. Il diritto non può inventare una normativa che non regge ad un esame della normale ragione condivisa, sia perché trasforma il diritto nelle grida seicentesche dell’immortale personaggio manzoniano del dr. Azzeccagarbugli, sia perché se la inventa distrugge la convivenza. In una società multietnica la convivenza è basata sul fatto che nessuno può sentirsi offeso dal credo di un altro e dalla presenza dei suoi simboli.   Qualche giorno fa sono andato sulla tomba di mio padre a Trento; al cimitero non mi sono sentito offeso dalla mezzaluna che compare sulle tombe degli islamici. Penso che giustamente queste persone esplicano così la loro religiosità e la richiamano apertamente. Cosa dovremmo fare altrimenti, un cimitero per loro, uno per noi? Una società multietnica e multireligiosa deve basarsi su questo principio: nessuno può sentirsi offeso dalla presenza di testimonianze di «diversità» rispetto al suo modo di essere, a meno che non ci sia una reale violazione della sua libertà personale. Se si obbligasse uno studente islamico o non credente ad andare a messa, o a fare un atto di adesione ad una religione a cui non appartiene, questa sarebbe una violazione della sua libertà personale, come se si obbligasse un cristiano o un non credente ad andare a pregare in moschea. Ma quando questo non accade, la presenza «storica» di un simbolo religioso, la scelta libera di una comunità di esporre quei simboli non offende nessuno. Per chi non attribuisce a quel simbolo altro valore di quello storico si tratterà solo di una delle tante tracce che una cultura lascia nei territori in cui si è insediata. Oppure dobbiamo distruggere tutte le statue che ritraggono le divinità pagane perché richiamano credenze che oggi non hanno più corso? Qui c’è una questione di educazione alla capacità di vivere in un mondo che inevitabilmente è intriso di simboli e di messaggi diversi, fra cui è la coscienza individuale che deve districarsi nell’attribuire loro senso e valore, nel selezionare, accettando o rifiutando i messaggi che riceve, e non certo la «legge» che deve regolare e filtrare tutti i messaggi (giusto le dittature si illudono di farlo, ma poi falliscono regolarmente l’obiettivo). È grave che questa forma di educazione alla convivenza ed alla tolleranza, anzi vorrei dire alla comprensione reciproca, non sia percepita là dove sono i gangli più delicati, che dovrebbero essere la frontiera più importante della civiltà: perché l’idea che la tutela dei diritti umani è il fondamento della convivenza è importante, ma è cosa delicatissima. Non dimentichiamo che è la grande rivoluzione portata dal cristianesimo con il messaggio di Gesù che fa prevalere la realtà della conversione personale sul formalismo dell’adesione alla «legge». Ma se noi trasformiamo questa rivoluzione in una giuridicizzazione imbecille, noi distruggeremo la possibilità di educare un mondo che, nella sua inevitabile pluralità, riesca a sopravvivere a se stesso.



[1] Augusto Barbera, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Bologna.

[2] Paolo Pombeni, docente di storia contemporanea all’Università di Bologna.