Città e deserto: identità e alterità

Spunti per una riflessione carattere antropologico e biblico teologico

(Relazione tenuta al seminario estivo di Agire Politicamente – Folgarida 2010)

 

Mons. Battista Angelo Pansa

Folgarida (TN), 22 – 28 agosto 2010

 

Una premessa: La teologia e la Chiesa

Un nuovo universalismo laico del mercato e dei media

1. La fede cristiana di fronte alla mutata realtà del mondo

La narrazione biblica : il deserto e la città

  • La cultura urbana e quella nomade “Amate lo straniero, perché anche voi siete stati stranieri nella terra d’Egitto”. (Deut 10,19).

  • Un’immagine della città a misura dell’uomo: Gerusalemme, città della pace retta con giustizia.
  • L’amore di Gesù per Gerusalemme.
  • Un’ immagine della città disumana: la Babilonia.

2. Una conclusione provvisoria: un incrocio alto delle libertà che travalicano i confini (nomadi nella città) e delle protezioni che esigono le frontiere (cittadini nel deserto).

 

Una premessa

La teologia come riflessione critica e sistematica sul vissuto concreto della fede nasce dall’incontro vivo e fecondo tra la Parola, che non passa, e la storia mutabile degli uomini. Tale dialogo si inserisce nel dinamismo vivo della tradizione. La comunità dei credenti è interpellata dalla Parola e nello stesso tempo interpella e dà senso alla Parola, che diviene così feconda e sempre nuova per ogni generazione.

Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio.[1]

La stesse formulazioni della dottrina, pur necessarie, sono inadeguate ad esprimere compiutamente il vissuto dell’atto della fede. Per questo il linguaggio della teologia deve diventare sempre più sobrio, più capace di evocare orizzonti di significati, che preoccupato di definire concettualmente le formule. Il tema che ci è oggi proposto vede di fronte due realtà di cui una, la città, ha subito e subisce rapide trasformazioni, la seconda è la Parola che non passa.

 

Un nuovo universalismo laico del mercato e dei media

Le premesse riguardano innanzitutto la situazione del mondo contemporaneo caratterizzato dallo sviluppo di un mercato mondiale e dalla crescente integrazione planetaria nel villaggio globale dei media.

Può aiutare a mettere ordine nella nostra riflessione sulla città la celebre definizione agostiniana per la quale i luoghi e i tempi in cui la vita umana si svolge progressivamente sono la domus, l'Urbs e l’orbis.[2] 

I luoghi ed i tempi della vita si collocano innanzitutto nella domus, intesa come il luogo degli affetti e dei bisogni primari, dei legami di sangue, delle relazioni interpersonali, dei sentimenti religiosi, dell’appartenenza etnica, dell’amore fraterno, del suolo patrio.

L’Urbs, nella concezione agostiniana è Roma, la Polis per eccellenza. Essa costituisce il luogo della mediazione tra la domus e l’orbis, cioè tra la sfera degli interessi individuali e quelli globali. L’Urbs è il luogo della responsabilità comune, della convivenza ordinata secondo le leggi: cioè della politica. Storicamente essa si è presentata nelle diverse forme della politeia che vanno dalla città stato allo stato-nazione. Tale mediazione comunitaria tra l’individuo e la famiglia umana oggi è radicalmente in crisi, è la crisi della politica. Senza tale mediazione l’uomo si trova scaraventato senza alcuna protezione nella globalità dell’Orbis, da qui un diffuso sentimento di smarrimento e di paura, dovuti ad una perdita di identità personale e collettiva.

A prima vista una risposta  efficace sembra venire da forze associative diverse, più silenziose e più forti di una ideologia politica, dallo sviluppo di un mercato mondiale e dalla crescente integrazione planetaria nel villaggio globale dei media. La capacità associativa di questi due processi a prima vista sembra indebolire le frontiere della polis, destrutturarle, unificare il pianeta. Ed infatti si potrebbe essere tentati di rendere unilineare il processo così come fa la filosofia postmoderna, la grande narrazione che parla della fine delle grandi narrazioni, il pensiero unico che annulla la molteplicità dei pensieri, la storia universale che pone fine alle storie delle singole patrie. Siamo di fronte un nuovo universalismo laico del mercato e dei media.

Al posto dell'universalismo missionario che pensa solo e sempre a convertire, quello laico, mobile e leggero del traffico, della mobilità, del turismo; al posto della chiusura autarchica delle notizie il grande emporio delle news. Del resto il primo vero violatore non violento dei confini è stato il mercante con il suo carico di merci e racconti: il dominio del danaro e il relativismo posseggono una relazione intensa ed antica. Il traffico richiede una strategia più duttile e meno violenta della conquista. Rispetto agli universalismi evangelizzatori il traffico non pensa di avere nobili ragioni, non si propone la conversione degli altri ma solo il loro accordo sulla convenienza dello scambio. Storicamente il primo straniero che non si teme ma si sospetta soltanto è il mercante. La diffusione dello scambio coincide con la coesistenza mercantile dei corpi, i mercati sono resse di persone disarmate, intersezione e contaminazione di individui dominati dall'interesse. I vizi privati dei singoli venditori-acquirenti producono la pubblica virtù di forme di vita fondate sull'incrocio, di porti franchi, di città mercato. Prima negli accampamenti di tende fuori delle mura, poi nell'ospitalità delle case, infine nell'umanità promiscua e misteriosa delle locande, delle pensioni e degli alberghi questo mescolarsi è diventato sempre più grande.

La differenza tra il tempo della Chiesa e quello del mercante non consiste solo nell'affermarsi della calcolabilità universale ma anche e soprattutto nel suo presupposto: la universale fungibilità. Laddove il tempo e lo spazio della Chiesa sono fondati sulla discontinuità e sulla irriducibilità qualitativa dei tempi e dei luoghi, il danaro fa solo differenze di prezzo. Esso relaziona perché relativizza, rende tutto veniale e tutto venale. La forma di merce diventa un feticcio solo abolendo i vincoli (e i confini) di tutti gli altri luoghi e tabù sacri.[3] Il danaro è il Deus absconditus del disincanto.

Dall'altro lato le frontiere vengono scavalcate dai media? L'universo mondiale dei media compie un'operazione per certi aspetti analoga a quella compiuta dal danaro: nulla è più irraggiungibile e noi tutti diventiamo inevitabilmente membri di una comunità mondiale costruita dalle relazioni comunicative che passano dai media. Essi ci sradicano dal localismo così come il danaro e il commercio ci hanno sradicati dalla comunità fondata sull'autoconsumo locale. Nello stesso tempo diventiamo vicini a persone ed eventi molto lontani e lontani da persone ed eventi molto vicini. Anche qui si allentano antichi legami di appartenenza a favore di un' appartenenza senza luogo.[4] Gli orrori della Bosnia arrivano in tutte le case così come le strade di Bagdad e delle città centro-africane si svuotano all'ora di Dallas. È di qui, da questa invadenza pervasiva che nasce il nuovo gioco del moltiplicarsi delle frontiere. Molto spesso queste ultime vengono viste come un residuo, un fenomeno arcaico, lo scatenarsi di identificazioni primordiali che non siamo ancora capaci di dominare o superare. Si tratta invece di qualcosa di molto più contemporaneo. L'universo aperto e senza confini è anche una frontiera perennemente aperta: il dilatarsi infinito dell'universo mercantile espone ad una contingenza teoricamente anch' essa infinita.

Il mercato sradica e getta nell' universo insicuro della competizione. Tutti noi siamo gettati nella grande religione universale della corsa, veniamo sradicati dalle nostre culture, abitudini, vizi e siamo chiamati ai blocchi di partenza. Gli economisti sono i teorici dell' homo currens, i medici sapienti che non si stancano mai di ripetere che per la nostra salute è necessario correre in ogni momento della giornata e in ogni momento della vita. La nostra salute dipende da quanto corriamo e le nostre città sono piene di patetiche figure felici di correre anche nel tempo libero. Questa religione affannata e paonazza, questa preghiera mattutina o del crepuscolo recitata sudando all'ombra dei grattacieli serve a riempire tutti i pori della nostra mente e ad impedire che l'idea della legittimità di un'altra forma di vita si affacci alla nostra porta.

Perché questo universo dovrebbe piacere a tutti? Crediamo veramente che un gioco possa essere amato allo stesso modo da coloro che perdono ogni volta che giocano e da coloro che invece ne escono sempre vincitori? Anche all'interno dell'universo mobile della corsa e della competizione ci sono centri e periferie, capitali e frontiere, eletti e dannati. Non tutti i confini sono visibili come quelli degli stati, ma quante frontiere ha un mondo che ti apre a tutti i desideri e non ti dà i mezzi per soddisfarne nessuno?[5] Il diritto di proprietà (ius excludendi omnes) non è anch'esso un insieme di frontiere tanto meglio protette quanto più grandi sono le ricchezze a cui interdicono l'accesso? Intorno ad una proprietà non ci sono, esattamente come sui confini degli stati, gli sbarramenti, le guardie per il controllo, i cani-lupo, i muri, i sistemi di allarme e i fili spinati? Che cosa accade quando tutto ti si presenta come a disposizione e poi ti accorgi che il massimo che riesci a fare è assistere alle feste degli altri? Che cosa succede quando, dopo essersi nascosti di notte in una stiva ed esser sbarcati clandestini-pellegrini nelle nuove terre sante del consumo, si finisce in uno dei tanti Bronx del mondo?

Lo sradicamento o la sua paura, la caduta di tutte le vecchie protezioni o reti di sicurezza e il rovinoso rovesciarsi in solitudine della libertà dell' homo currens preparano la richiesta di protezione, da quella economica elementare a quella della propria identità. I leaders nazionalisti e quelli fondamentalisti offrono una risposta a questa domanda, una risposta semplice e feroce ad un evidente problema: il modello occidentale non è né universale né universalizzabile e pretendere di renderlo tale condanna la stragrande maggioranza degli uomini a divenire le comparse di una rappresentazione governata da altri. La patria e la religione legano insieme gli uomini (contrapponendoli peraltro ad altre patrie e altre religioni) e li sottraggono ad un'illimitata contingenza, ad un'insicurezza direttamente proporzionale alle dimensioni del mercato. È la minaccia dello sradicamento universale che apre la strada alla ricerca di radici e alla loro offerta (non disinteressata) da parte di intellettuali e politici delle zone più esposte allo sradicamento. La tradizione non arriva per inerzia dal passato ma è un'invenzione del presente per controllare e ridurre l'illimitata contingenza.[6]

Costretto a passare immediatamente dalla domus, dal focolare al mondo globale della pluralità delle culture e delle fedi religiose l’individuo è portato a ripiegarsi disperatamente su se stesso, in una autodifesa delle proprie radici etniche, assumendo atteggiamenti di radicale narcisismo, di paura della diversità, di fondamentale xenofobia.

Oggi l’Urbs si chiama Europa, essa e solo essa può costituire la nuova mediazione tra la domus e l’Orbis di fronte al tramonto ed al superamento degli stati nazionali.

La lunga transizione inaugurata dopo il 1989 con il crollo del muro di Berlino non è ancora terminata: l’Europa si presenta come unità monetaria ma non ancora come entità politica, continuamente tentata tra un ritorno al passato con chiusure regionalistiche e nazionalistiche e la creazione di una nuova sovranità soprannazionale. Tale difficile transizione si riflette nelle aporie presenti nella Convenzione europea, il cui compito è quello di delineare un nuovo status giuridico istituzionale per i cittadini del vecchio continente. Siamo di fronte a un bivio cruciale per l’identità stessa del continente europeo dagli Urali all’Altantico: il superamento del vecchio ordine degli Stati sovrani, verso un’Europa dei popoli e delle Nazioni, può portare sia una nuova solidarietà europea fondata sulla libera autodeterminazione dei popoli e sulla loro reciproca interdipendenza, sia all’affermazione egoistica ed autarchica di gruppi a forte identità etnico-religiosa, che porta alla disgregazione della convivenza civile, alla conflittualità permanente, all’oscurantismo ed alla barbarie.

Sono in gioco cioè oggi i valori stessi dai quali è nata l’Europa moderna: la democrazia, la tolleranza, i diritti fondamentali dell’uomo.

  1. La fede cristiana di fronte alla mutata realtà del mondo

Quale ruolo hanno o possono avere le chiese europee in questa fase di transizione e di cantiere aperto per la costruzione di un’Europa che sia casa comune per tutti gli europei e nello stesso tempo società aperta alla interdipendenza ormai globale di tutti i popoli della terra?

C’è una domanda essenziale e preliminare: è possibile costruire l’Europa comune, formare il cittadino europeo senza una profonda conoscenza delle radici cristiane che ne hanno plasmato la cultura, la storia e le istituzioni dagli Urali all’Atlantico? E’ dunque possibile pensare la cultura, la lingua, l’arte, le istituzioni civili, giuridiche e statuali senza la cultura cristiana? Nessuna persona di buon senso potrebbe affermare di sì. E’ interessante come in Francia attraverso la più recente riflessione sulla nuova laicità si vada affermando sempre di più l’idea della impossibilità di pensare laicamente il cittadino francese o europeo a prescindere dal fatto religioso, che concretamente nel nostro continente è soprattutto quello cristiano.

Nel quinto incontro ecumenico a Santiago de Compostela (13-17 novembre 1991) del Consiglio delle conferenze episcopali europee (C CEE) e della conferenza delle Chiese Europee (K E K), il Rev. John Arnold (Vicepresidente della KEK) esprimeva questa comune preoccupazione: «al momento presente le maggiori tentazioni hanno a che fare con il risorgente nazionalismo». All’epoca dell’internazionalismo socialista, tutte le Chiese, in modi diversi, hanno tenuto viva l’identità, la cultura e la tradizione nazionale. Il luteranesimo è stato importane nel sostenere la Lettonia e l’Estonia, così come il cattolicesimo in Polonia e in Lituania, e i legami della religione ortodossa con la cultura e la lingua di ciascun popolo si sono dimostrati inattaccabili in paesi diversi come la Bulgaria, la Romania e l’unione Sovietica. Sotto la tirannia comunista la combinazione della religione e del nazionalismo è stata una forza di libertà e di liberazione (proprio come nel XIX secolo il nazionalismo tedesco e italiano furono, in origine, forze di libertà). Ora questa miscela è, in molti luoghi, estremamente ambigua ed estremamente pericolosa. Dovremmo ricordare che il cristianesimo è ugualmente responsabile, storicamente, dell’unione e della disunione in Europa (…). Ora, mentre si estingue l’ondata dell’egemonia marxista-leninista, molte vecchie differenze stanno emergendo dal mare della comune miseria: tra croati cattolici e serbi ortodossi, in Jugoslavia, per esempio, e tra la maggioranza rumena ortodossa e le minoranze di protestanti e di cattolici tedeschi e ungheresi in Transilvania.[7]

Questa consapevolezza dell’ambiguità del ruolo della Chiesa e della religione cristiana, nell’attuale contesto europeo, è stata espressa, nel medesimo simposio di Compostela, dall’Archimandrita Josif della Chiesa ortodossa russa, che ha sottolineato il pericolo della stessa nozione, diffusa soprattutto in oriente, di «Chiesa nazionale». «La nozione di Chiesa nazionale è un prodotto degli ultimi tempi, apparsa in seguito all’indebolimento della natura cattolica di alcune chiese. La natura cattolica della chiesa esclude la nozione di chiesa nazionale. La definizione di chiesa greca, russa, serba, georgiana devono essere accettate come segno della presenza della chiesa in una realtà empirica. A motivo della natura cattolica della chiesa, il cristianesimo deve essere proclamato a tutte le nazioni. E’ la legge obbligatoria della missione della Chiesa, della missione fondata sulla sua essenza».[8]

In realtà oggi l'uomo sta di fronte ad una nuova fase della sua storia, nella quale gli si aprono nuove possibilità, nella quale però è gettato anche in pericoli del tutto nuovi. Tutto ciò avviene con differente rapidità nei singoli strati sociali; la nuova messa in pericolo dell'uomo, che qui sorge e che fa richiedere una protezione - protezione dell'uomo da se stesso e per se stesso - si può osservare naturalmente, in primo luogo e nella forma più acuta, proprio tra i deboli e gli abbandonati della società, in quelli che dalla stabilità dell'ordinamento rurale vengono direttamente proiettati nella mobilità ed anonimità della nuova epoca. Solo il modello della chiesa aperta all’universalità cioè con i caratteri della cattolicità può essere una risposta alla nuova situazione. E’ infatti necessario creare all'interno della mobilità una continuità che sostenga e metta al sicuro l'uomo; una continuità che lo protegga dai banditi moderni, che abusano dell'uomo in forme molteplici, facendolo oggetto dei loro affari. E’ necessario procurare, in mezzo all'anonimità, la comunicazione personale che è il mezzo fondamentale per ritrovare se stessi e per autorealizzarsi. Ma ciò vuol dire che la chiesa storicizzata nella particolare località si riconosce e si mette a disposizione di tutti gli uomini come l'unica chiesa. La chiesa è sorta nella tarda antichità come una comunità di persone tali che dovevano sentirsi un pò come «stranieri, uomini seduti vicino» casualmente, e dunque, se si vuole, una specie di ambiente di stazione: non una società chiusa, che gestisce la sua vita comune e non vuol essere disturbata da altri, ma lo spazio aperto di coloro che, sparpagliati per il mondo, professano il nome di Gesù Cristo e sono aperti tutti l'uno per l'altro e per colui, che cerca la verità della vita umana.

Non si può, infatti, possedere solo per sé il Cristo incarnato: Egli è tutto nel singolo ed è uno soltanto nella totalità. Perciò non lo si può possedere senza la universalità meno che meno contro la universalità. Il vivere nell'universalità è quindi il criterio basilare per decidere se una comunità si raduna nel suo nome ed è quindi chiesa. La regola fondamentale per essa è la sua non-chiusura, la sua non-autonomia, la sua apertura verso il tutto della chiesa. Il suo criterio è la volontà di non essere qualcosa di particolare, ma di incorporare in questo luogo l'unica chiesa, che è dappertutto identica e soltanto così è se stessa.

Nella ingarbugliata disputa sulla chiesa del futuro, sulla chiesa nell'epoca della tecnopoli è necessario affermare che essa si conosce e vive come chiesa della stazione, proprio come chiesa aperta degli uomini non integrati. In mezzo all'anonimità, che deriva dalla mobilità, comprende se stessa come l'unica chiesa che abbraccia tutti gli spazi della mobilità umana e si offre ovunque come l'unica istituzione che è patria in ogni regione straniera. Questa disponibilità a considerarsi incessantemente la chiesa aperta, che non si divide in gruppi linguistici ed etnici, ma è a disposizione dell'universalità in quanto presenza dell'universale in questo luogo, mi sembra di importanza fondamentale ed è anche un contributo del tutto specifico della chiesa al chiarimento dei problemi del nostro tempo; la mobilità da sola non crea alcuna unità, cosi come la concentrazione da sola non opera alcuna comunicazione.[9]

Oggi siamo di fronte a una situazione in cui la vera oppressione, che abbiamo alle calcagna è la totale programmazione che, in ogni libertà borghese, ci degrada sempre più a funzionari di un sistema anonimo e ci porta una metà alla disperazione, l'altra metà all'asfissia.[10]

Tale situazione richiede una riflessione teologica che non sia solo lugubre lamento o accusa del mondo. 

Il confronto con la Parola di Dio richiede onestà intellettuale, conoscenza della situazione storica, riconoscimento della maturità del mondo, rispetto per la libertà altrui, rifiuto delle pie chiacchiere. «Io vorrei che non si introducesse Dio di contrabbando in nessun antro nascosto, ma che si riconoscesse semplicemente la maturità del mondo e dell'uomo, che non si parlasse male dell'uomo nella sua realtà, ma che lo si confrontasse nella sua posizione con Dio, che si diffidasse di ogni stratagemma clericale e che non si vedesse nella psicoterapia e nella filosofia esistenzialistica un'usurpazione di Dio. L'indiscrezione di tutti questi uomini per la Parola di Dio è troppo distinta perché si possa fare alleanza con essi: la Parola di Dio infatti non si allea con la rivolta della sfiducia, con la rivolta dal basso. Essa regna».[11]

 

La narrazione biblica : il deserto e la città, intesa come aggregazione umana

Il termine ebraico ‘ir indica nella bibbia una città di qualsiasi grandezza, sia di piccole dimensioni (Gen 19,29) sia di grandi dimensioni (Gen 10,12). Essa è considerata non semplicemente come uno spazio quantizzabile o un’area misurabile, quanto piuttosto come un organismo vivente, una persona collettiva: la città è uno spazio che ha un senso solo in rapporto agli uomini che la abitano. Sono gli uomini che fanno sì che uno spazio divenga un habitat, cioè una realtà umanamente connotata. Per questo nella Bibbia la città è presentata spesso come una persona vivente: essa gioisce come una fanciulla innamorata o piange come una vedova privata del suo sposo, essa “siede sola” perché i suoi figli se ne sono andati lontani o esulta per la loro presenza; così alla notizia della morte di Eli si legge che “urlò di dolore tutta la città”. (1 Sam 4,13).

L’esperienza dell’urbanizzazione che ha caratterizzato la storia italiana ed europea, soprattutto del secondo dopoguerra, è stata purtroppo quella della crescita di megalopoli senza anima: uno spazio di cemento sottoposto alla speculazione edilizia senza alcuna considerazione per la comunità umana. Una città come Roma che si espandeva senza un’idea urbanistica a misura dell’uomo avrebbe creato uno spazio indefinito e confuso in cui avrebbero trovato facile dimora gli egoismi, gli anonimati,la vuota indifferenza, la diffidenza e dunque la violenza. Nulla uccide nella grande metropoli più dell’indifferenza, dell’affogare nell’anonimato: la megalopoli senza anima diviene violenta e divora i suoi abitanti, è sorda ad ogni atto di solidarietà verso i deboli, diviene preda di passioni disumane.

Tutto si andava sviluppando con criteri esclusivamente economicistici, non si tenevano in alcun conto le esigenze degli abitanti, ma quasi il guadagno dei grandi proprietari terrieri e al profitto dei palazzinari …. non si è pensato alla piazza, alla fontana comune, ai bagni pubblici, allo spazio verde per gli anziani, ai servizi per i bambini: abbiamo assistito impotenti alla crisi dell’umano mentre si progettavano poli industriali e tecnologici. 

  • La cultura urbana e quella nomade – i confini, le frontiere

D’altra parte, sia nella bibbia sia nelle culture antiche, la nascita della città e della cultura urbana, attraverso la suddivisione del lavoro e l’organizzazione sociale della vita, è sempre stata narrata dalle antiche saghe popolari, che meglio di qualsiasi forma letteraria esprimono il vissuto dei popoli, come un evento traumatico e violento: un fratricidio (la stessa nascita di Roma viene narrata nella saga di Romolo e Remo) legato alla determinazione dei confini. La nascita della città e i processo di sedentarizzazione, con la suddivisione delle terre e la loro coltivazione pone infatti il problema dei limes, i confini. La segnatura del territorio occupato da una popolazione si fa risalire ai tempi antichi. Gli oggetti utilizzati per demarcare il territorio erano generalmente di pietra a simboleggiare la perennità del simbolo e di quello che volevano significare. La pietra poteva essere anche un surrogato della montagna, simbolo di invalicabilità e perennità. I popoli che vivevano di allevamento avevano un rapporto economico indiretto col territorio vivendo dei prodotti che offriva. Quindi, il territorio per loro rimaneva 'aperto' all'espansione o spostamento. Essendo i propri averi ed in particolare il bestiame che assicuravano la vita, la marchiatura dello stesso stava a significare il 'confine' di un possedimento in movimento, il limite al diritto di appropriazione. La stabilità del territorio è caratteristica delle popolazioni sedentarie ed in questa condizione la zona occupata subiva una dicotomia: ciò che è coltivabile era 'buono' e quindi va protetto con un confine, ciò che è al di fuori è selvaggio e corruttibile, ossia 'cattivo'. La contrapposizione tra i due principi richiedeva una divisione rafforzata dal rito religioso o magico a seconda delle culture. In Egitto si sono ritrovate pietre di confine chiamate 'is.t risalenti al 2500 a.C. con iscrizioni indicanti la data, l'occasione dell'apposizione, i terreni demarcati. Il nome 'is.t aveva il significato più ampio di orizzonte che segnava il limite tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Molte notizie si acquisirono con il ritrovamento delle pietre di confine di Tell-el Amarna apposte durante il regno del faraone Amenofi IV in corrispondenza dei quattro punti cardinali. La violazione dei confini era considerata un grave reato e materia di pentimento secondo il Libro dei morti. Il cambiare o muovere le pietre di confine era considerato una destabilizzazione dell'ordine cosmico che si rifletteva sulla benevolenza delle divinità verso il popolo. In Mesopotamia i termini di confine si chiamavano kudurru, ossia pietra infissa sui confini e testimoniante la proprietà di quel terreno. I numerosi kudurru, ritrovati negli scavi archeologici e datati tra il 1500 ed il 650 a.C., sono pietre lavorate a stele od a forma fallica. Le dimensioni variano da 10 cm ad 1 m. Su di essi erano raffigurati uccelli, simboli teriomorfici (teste d'aquila o di vitello, artigli di lupo od orso, zampe di pecora), corpi celesti, divinità varie, iscrizioni attestanti l'estensione dei confini o l'identificazione del proprietario, il nome proprio dato al kudurru che poteva essere considerato una specie di toponimo. Questi segni erano tutelati con l'iscrizione del nome del sovrano regnante e con maledizioni per i violatori la cui attuazione era delegata al potere divino. Nella civiltà indiana i segni di demarcazione non erano omogenei, ma potevano servire a tale funzione anche vasche d'irrigazione, pozzi, cisterne, tempietti, alberi, siepi. Inoltre, venivano infissi paletti di legno con la parte sotterrata composta di materiale ben identificabile. I confini erano apposti dal sovrano con una cerimonia alla quale partecipavano le due parti confinanti nel periodo maggio/giugno dopo la falciatura dell'erba. La pena per la manomissione dei termini poteva essere pecuniaria o fisica con mutilazioni sul condannato. I segni di confini erano posti sotto la protezione della divinità Manu. Nell'antica Grecia le proprietà erano demarcate dagli oria. Il termine to orion indicava la linea di confine, sia privato che pubblico. La demarcazione diveniva 'internazionale' se il terreno confinava con il limite della polis. I segni di confine erano pietre appena squadrate completamente anonime, sacralizzate da formule di giuramento e posti sotto la tutela del dio Zeus Horios od Apollon Horios. Demostene racconta che un altare in onore a Horios segnava il confine con il Chersoneso. Anche Platone scrive della prassi riguardo i segni di confine. I Romani usavano la parola terminus per definire un limite ed una divisione: tra città e campagna (pomerio), tra i campi, tra l'impero e le altre popolazioni, tra lo spazio profano e quello sacro. Un altro possibile sinonimo di terminus sembra essere cipus/cippus o miliarum. I primi indicavano limiti di terreni, mentre i secondi indicavano il punto di partenza di strade.

I termini, propriamente detti, erano costituiti da siepi od alberi, puntali di anfore, tronchi o pietre infissi nel terreno. I gromatici[12] parlano anche di termini succumbi, ossia di quegli oggetti che erano interrati sotto il termine a testimoniare la sua posizione in caso di manomissione. Tali oggetti potevano essere pezzi di carbone, vetri rotti, calce. I termini erano pietre squadrate con incise lettere. Il dio Termine, di origine etrusca, era la divinità protettrice di questi oggetti ed aveva il suo tempio principale sul Campidoglio nel tempio di Iuppiter Optimus Maximus. Termine (lat. Terminus) diviene un epiteto di Giove, come protettore di ogni diritto e di ogni impegno. Divenne in seguito divinità indipendente che vegliava sui confini dei poderi e sulle pietre terminali. Aveva una cappella che si innalzava all' interno del Tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio.

Da quanto si è detto si nota immediatamente come sia il concetto di linea di confine che di segno di confine abbiano significati in parte lontani da quelli dati oggi. Nell'antichità si può denotare l'utilizzo dei termini di confine per il solo spazio utile all'uomo e non per un territorio indipendentemente dal suo utilizzo o dalla presenza di insediamenti. Per questo motivo la manomissione dei confini si configurava come un atto contro tutta la comunità, da qui il denominatore comune della protezione sovrannaturale.

 

La bibbia fa risalire la nascita della cultura urbana e agricola, e dunque in qualche modo la nascita dei confini, all’uccisione di Abele, il pastore-nomade, da parte di Caino, l’agricoltore (Gen 4). L’agricoltura, a differenza della pastorizia, richiede un processo di sedentarizzazione, di suddivisione e di organizzazione del lavoro. Il racconto del primo fratricidio, oltre al suo significato morale, sottolinea anche la nascita della nuova cultura stanziale urbana che soppianta violentemente l’antica cultura nomade e pastorale: la terra, bagnata dal sangue fraterno, diventa maledetta (Caino abitò vagaterra ad est di Eden Gen 4,16) e si prospetta una sorta di vendetta ecologica perché chi semina vento raccoglie tempesta (Os 8,7), chi semina malvagità raccoglie disgrazia, chi semina sangue raccoglie maledizione. La storia della sedentarizzazione e dell’urbanizzazione continua attraverso i cainiti: da Lamech, cantore della vendetta illimitata (Gen 4,23-24), nasce la suddivisione delle arti e dei mestieri (i suonatori di cetra e di flauto) e soprattutto l’homo faber (Tubalkain fu padre di quanti lavorano il rame e il ferro). Inizia così la demarcazione dei terreni coltivati anche nella storia di Israele. Il segno di confine è indicato in aramaico dalla parola massebah (plurale massebot) col significato letterale di “pietra eretta”. Le massebot potevano segnare sia i limiti dei pascoli, sia dei terreni delle singole tribù, sia dei luoghi sacri. Ai piedi delle massebot erano deposti i resti dei sacrifici offerti cosparsi di olio, grasso e sangue delle vittime stesse. In verità presso gli Israeliti è diffusa la convinzione che i confini della loro terra sono sacri, non perché segnati dalle massebot, ma perché è la terra che Dio stesso ha dato in eredità ai loro padri, cacciandovi i popoli pre-esistenti. Ogni luogo che la pianta del vostro piede calcherà sarà vostro; i vostri confini si estenderanno dal deserto al Libano, dal fiume, il fiume Eufrate, al Mar Mediterraneo. Nessuno potrà resistere a voi; il Signore vostro Dio, come vi ha detto, diffonderà la paura e il terrore di voi su tutta la terra che voi calpesterete. (Deut 11, 24-25) Poiché ha detto: <<Con la forza della mia mano ho agito e con la mia sapienza, perché sono intelligente; ho rimosso i confini dei popoli e ho saccheggiato i loro tesori, ho abbattuto come un gigante coloro che sedevano sul trono. (Is 10,13)

Hai fatto crescere la nazione, Signore, hai fatto crescere la nazione, ti sei glorificato, hai dilatato tutti i confini del paese. (Is 26,15)

Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutti i popoli; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio. (Is 52,10).

Israele come ogni popolo, ponendo i suoi confini si separa dagli altri popoli. Ma la frontiera unifica nel momento stesso in cui separa. In primo luogo unifica tutti coloro che da essa vengono messi insieme, in una sola figura. Ogni perimetro ha un enorme potere: dividendo in due lo spazio esso fissa la regola fondamentale, mette insieme i punti dello spazio proprio dividendoli. Ogni atto di fondazione è all'origine un atto di divisione: una città che nasce si divide da tutte le altre, alle sue origini ci sono un atto e un patto omicida, un sacrificio.[13] Romolo uccide Remo perché ha confuso-offeso il solco del confine. Il confine è sacro perché custodisce il rapporto tra identità e differenza, in quanto costruisce-identifica una comunità proprio attraverso la sua contrapposizione alle altre, a tutte le altre. Popolo unico, eletto fra tutti i popolo è Israele! Ogni comunità, anche la più pacifica, se è vera comunità, è anche vera ostilità. Nulla unisce un gruppo più della celebrazione dei propri caduti, a nessun dolore ogni comunità è più attaccata che a quello procurato dal comune nemico. Noi veniamo unificati dai martiri noti e dai militi ignoti.

La frontiera quindi non unisce e separa, ma unisce in quanto separa. Anche laddove le comunità sembrano scavalcare incuranti i confini questi ultimi sono all' opera: l'identità nomade proprio perché possiede una precarietà spaziale viene custodita con un legame molto più forte, con un'austerità e un controllo reciproco che allargano il confine con i sedentari. Non si appartiene alle patrie che vengono attraversate, ma a quell'unica che le attraversa mantenendo forti i propri legami[14]. E’ l’esperienza di Israele prima nella deportazione a Babilonia e poi nella diaspora. La linea di confine non ha bisogno del filo, si tratti di evangelizzare il mondo o di battersi per il comunismo, tutto passa attraverso la costruzione di soggettività nuove e quindi di nuove frontiere. Dalle frontiere è difficile liberarsi.

Nella tradizione biblica la città, la nazione, la patria, nate da un atto violento, sono pur sempre più funzionali rispetto alla steppa e al deserto, esse producono sicurezza e favoriscono l’organizzazione sociale della vita.

Tuttavia la terra d’Israele, ormai sicura nei suoi confini, si presenta sempre nella sua ambivalenza di terra promessa e di luogo di tentazione. Il processo di sedentarizzazione, che si compie dal periodo dell’esodo a quello dei giudici, è percepito, soprattutto dalla tradizione deuteronomistica, come tempo della tentazione, dell’idolatria.

L’idolatria dalla quale bisogna guardarsi coincide con il possesso della terra, con la costruzione delle città forti e sicure, con l’organizzazione della città-stato-nazione: il rischio sta nel dimenticarsi del Dio della libertà e del deserto, sta nel costruire una città superba, arrogante e disumana (cfr Deut cc 6-10). In questa sezione, soprattutto nel cap. 8, è ripetuta l’esortazione a non dimenticarsi del deserto, della condizione di nomadi e di stranieri per non cadere nella tentazione dell’idolatria della città.

Con il cap. 8 si tenta di dare alla legge centrale una formulazione nuova, adeguata allo stato del benessere.

Sotto il profilo linguistico Deut. 8 appare ridondante e sovraccarico. Vi si trova forse il periodo più lungo di tutto l'Antico Testamento (v. 7-18). Tuttavia la lingua rimane efficacissima e i singoli membri del discorso sono in perfetta armonia reciproca. I valori ritmici e fonici, che certo nessuna traduzione può rendere adeguatamente, conferiscono bellezza e sonorità al testo originale.

Nelle sue parti essenziali, Deut. 8 è un commento alla proclamazione della legge di Deut. 6, ci testimonia dunque la vitalità e la capacità di adattamento dell'antica liturgia israelitica e nello stesso tempo la sua tendenza conservatrice. Gli antichi testi non vengono eliminati, ma ne vengono inseriti altri. I nuovi testi fanno riferimento agli antichi e mirano solo ad adattarli alle nuove situazioni.

Dal punto di vista puramente sintattico si possono evidenziare anzitutto due parti:

1) 8,2-6: Ricordo della peregrinazione d'Israele nel deserto;

2) 8,7-20: Annunzio del comandamento principale per la situazione di benessere (con annessa una minaccia di sventura in caso di infedeltà).

Ma a parte questa forma sintattica fondamentale del testo, vale la pena di evidenziare in esso un'altra struttura. Noi l'abbiamo resa evidente col grafico che segue, dividendo il testo in diverse parti. Classificando queste parti, che abbiamo esposto, secondo i loro motivi di contenuto, 8,2-6 e 8,14-17 ci parlano soprattutto dell'esperienza d'Israele nel deserto, mentre 8,7-10 e 8,12-13 ci descrivono la vita d'Israele nella Terra promessa. All'inizio (8, 1), in mezzo (8, 11) e in fondo (8, 18-20) vi sono i testi propria­mente esortativi. In complesso si ha uno studiato schema concentrico d'una serie di motivi:

 

8,1

A

 

 

Esortazione

8,2-6

 

B

 

Deserto

8,7-10

 

 

C

Terra coltivata

8,11

A

Esortazione

8,12-13

 

 

C

Terra coltivata

8,14-17

 

B

 

Deserto

8,18-20

A

 

 

Esortazione

 

Questa successione chiastica di motivi viene sottolineata ricorrendo anche ad un altro espediente stilistico, attraverso la corrispondenza di espressioni. Così la voce 'oggi' appare in 8,1.11.19, vale a dire in ciascuna delle tre esortazioni. Analogamente i termini 'umiliare', 'provare' e 'manna' appaiono nelle due pericopi che contengono il motivo del 'deserto'. L'uditore israelita doveva avete una sensibilità particolare per questi continui richiami e avvertiva in essi quasi musicalmente l'unità d'un testo. La disposizione chiastica del testo ne evidenzia la struttura circolare concentrica che trova il suo centro nell’esortazione che possiamo definire anche come il comandamento principale nella situazione di benessere: “Guardati bene dal dimenticare il Signore tuo Dio così da non osservare i suoi comandi, le sue norme e le sue leggi che oggi ti dò” . (8,11)[15]

Deut. 8,7 s. è un commento o, se si vuole, una amplificazione di 6,10-14. Ora, 6, 10 s. ha la struttura della prima parte d'una cornice letteraria del comandamento, vale a dire una frase al condizionale nella cui protasi si parla del dono della Terra, e nella cui apodosi si enuncia il comandamento che deve essere osservato nella Terra. A questa struttura si ispira anche il nostro commento da 8,7 a 8,18. La protasi della frase condizionale si ha in 8,7-10, l'apodosi in 8,11-18. Nell'esegesi possiamo prendere in considerazione 8, 12 - 13 insieme con la protasi vera e propria 8,7-10.

La protasi in 6, 10- 11 aveva lo scopo ben preciso di presentare la Terra di Canaan e le sue ricchezze come puro dono del Signore. Nulla si doveva attribuire all'opera d'Israele, perché tutto era grazia. Qui, in 8,7-10.12-13, l'intenzione è un'altra. Si vuol descrivere la situazione di benessere nella quale il Signore pone il suo popolo. 

Se il Signore tuo Dio t'introduce in una Terra bella, una Terra con ruscelli, con fonti e con acque profonde, che scaturiscono nella valle e sulla montagna; una Terra di frumento, orzo viti, alberi di fichi e di melograni; Terra di alberi d'olivo che producono olio, e di miele; Terra nella quale tu non devi mangiare il pane a stento, nella quale a te non mancherà nulla; una Terra le cui pietre sono ferro e dalle cui montagne tu estrai rame (8,7-9).

L'elenco s'inizia coi beni naturali della Terra. In primo luogo sta l'acqua, che nell'Oriente, con i suoi numerosi deserti e le sue steppe, è la fondamentale ricchezza d'ogni paese. Il termine tradotto con acque profonde può anche significare la fonte originaria o il grande abisso, l'oceano sotterraneo dell'antica cosmologia, cioè l'increata massa d'acqua, che nella terra di Canaan, così specialmente benedetta, affiora in certo modo alla superficie. In secondo luogo vengono nell'elenco le piante coltivate, che la Terra nutre, ed il miele. Infine si parla delle risorse minerarie della Terra. In realtà la Cisgiordania propria non ha ricchezze minerarie. La descrizione si riferisce qui alla Transgiordania e soprattutto alle zone del Negev e all' Aravah, dove soprattutto nel periodo dei re d'Israele furono attive miniere di rame. Questa presentazione completa delle ricchezze di Canaan è fatta in stile innico. Per cinque volte si pone all'inizio il termine Terra, al quale ogni volta segue una attribuzione.

“.. quando tu mangi e quando diventi sazio, quando tu benedici il Signore tuo Dio a causa della bella Terra, che Egli t'ha concesso...” (8,10).

In questa «bella Terra» (8,7), il Signore dunque introduce Israele, che ora viene descritto verbalmente come Israele che si sviluppa nell' agiatezza. Israele mangia, diventa sazio e quindi può giungere a lodare il Signore per la sua Terra (8,10). Qui non si pensa alla preghiera sul cibo, ma al culto d'Israele in genere. Una legge come Deut. 26,1-11 può attestarci come il culto d'Israele divenne una lode al Signore per il dono di questa «bella Terra».

“... una volta che hai mangiato e che sei diventato sazio ed hai costruito le belle case e le abiti, e che i tuoi bovini e le tue pecore si moltiplicano, e che si moltiplica l'argento e l'oro, e che tutto quel ch'è tuo s'accresce...” (8,12 s.).

Deut. 8,10 descrive per così dire l'inizio della vita d'Israele nell'abbondanza della Terra. Israele si appropria delle ricchezze naturali, mangia e beve, e loda il Signore datore dell'abbondanza. Presto però si verifica un nuovo atteggiamento verso la ricchezza. Inizia la coltivazione. Israele si dà da fare adesso per aumentare la sua ricchezza, come è detto in 8,12 - 13: questi versetti sono caratterizzati dal verbo moltiplicare, che ricorre tre volte. Israele mangia e non solo diventa sazio, ma si costruisce anche belle case e le abita: è la cultura urbana. Inoltre si moltiplica il bestiame, che così non è più per il semplice sostentamento, ma rappresenta una proprietà, una ricchezza. Questa aumenta sempre più, tanto che ormai non consiste più in beni di natura, ma in capitali: argento ed oro. La situazione d'Israele ormai cresciuto in una pronunciata società del benessere non potrebbe essere tratteggiata in uno modo più conciso ed esatto. Manifestamente questa situazione è presupposta in Israele, per il quale fu scritto il no­stro capitolo. Questa situazione per l'Israele così interpellato sarà una prova: “...allora guardati dal dimenticare il Signore tuo Dio, col non osservare i suoi precetti, decreti e statuti che io oggi ti prescrivo......affinché allora il tuo animo non si inorgoglisca e tu dimentichi il Signore tuo Dio, che ti ha condotto fuori dalla terra d'Egitto, dalla casa di schiavitù, che ti ha guidato nel deserto....

...e così tu allora non pensi: La mia forza e la robustezza del mio braccio mi hanno procurato questa ricchezza!, ma allora ti ricordi del Signore tuo Dio, che Lui t'ha dato la forza di guadagnare la ricchezza, per adempiere così il suo giura­mento dell'alleanza, che Egli ha giurato ai tuoi Padri, come avviene ancora oggi (8,11.14.17 s.).

Deut. 8,I7 indica esplicitamente il pericolo nel quale Israele si trova. Il popolo potrebbe pensare: «La mia forza e la robustezza del mio braccio mi hanno procurato questa ricchezza». Se reagisse così, Israele non si affermerebbe in questa prova. La reazione giusta è proprio quella descritta in 8, 18: ricordarsi del Signore, poiché «Lui t'ha dato la forza di guadagnarti la ricchezza». La convinzione che Israele doveva nutrire nella situazione d'agiatezza, corrisponde a quella che il popolo s'era formata nel deserto, in seguito al miracolo della manna, ossia che l'uomo non di pane soltanto vive, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Qui si accenna di nuovo ai Padri d'Israele: il nutrimento della manna era stato una realtà che «i tuoi Padri non conobbero» (8,3. 16), come non conobbero questa magnifica abbondanza della Terra eletta. Un'abbondanza che risale al giuramento dell'alleanza, giurato dal Signore ai Padri (8,18), ma soltanto 'oggi' (8,18) questo giuramento si è realizzato. Nell'agiatezza data oggi, Israele deve dunque ricordarsi di Colui, dal quale proviene il benessere. Ecco la formulazione del comandamento principale per la situazione del benessere. L'espressione sempre ricorrente è ricordarsi (8, 2,18), e rispettivamente non dimenticare (8,11.14. 19). C'è riferimento a Deut. 6,12, dove questo termi­ne - senza che sia sottolineato in modo particolare - introduce la formulazione del comandamento principale. In Deut. 8 è il termine conduttore dell'annunzio del comandamento principale, mentre le altre formulazioni di Deut. 6 sono state relegate nell'ultimo versetto (8,19).

Il peccato, ch'è considerato come il vero e proprio pericolo della fede nella situazione di benessere, è l'autoesaltazione dello spirito (8,14). Nella ricchezza di cultura e di civiltà attivamente autocostruitasi, la coscienza si gonfia. L'esperienza della propria attività accantona il pensiero di Dio. Dio non viene combattuto, ma dimenticato. Egli è dimenticato, e quindi viene meno anche l'osservanza dei suoi comandamenti. Per questo il comandamento principale suona qui come un invito a ricordare. Se nello stato di agiatezza Israele si ricorda del suo Dio, lo seguirà anche, andrà sempre dietro a lui solo, e non dietro ad altre divinità (8,19), cioè, Israele osserverà il classico primo comandamento, e con esso tutti gli altri, e camminerà sulle vie del Signore (8,1.11).

Per questo motivi la presenza degli estranei o stranieri è un segno provvidenziale perché evoca in modo permanente la vera dimensione della condizione dell’uomo sulla terra, che rimane pur sempre quella di cittadino e nello stesso tempo di straniero. Da qui il comandamento “Amate lo straniero, perché anche voi siete stati stranieri nella terra d’Egitto”. (Deut 10,19).

Le categorie della città e del deserto, dell’identità e dell’alterità, della cittadinanza e dell’estraneità tornano di grande attualità di fronte al nuovo grande fenomeno delle migrazioni.

La città torna così ad essere il cuore della riflessione : essa può salvare o uccidere, accogliere o emarginare, creare opportunità o nuove miserie, essere fonte di diritto o covo di arbitrio, far nascere un nuova cittadinanza o generare altra esclusione. Lo status di cittadino è infatti, dal tempo della polis greca, la condizione massima in cui si esprimono i diritti e i doveri individuali e collettivi.

Questa nuovo diritto alla città o cittadinanza che l’unione Europea deve elaborare per i suoi cittadini di antica data come per i nuovi arrivati, non può essere se non il risultato della ricerca di una nuova identità culturale. L’identità dell’Europa è nella sua cultura, ereditata da una lunga storia, fatta di invasioni e di incroci, di popoli nomadi provenienti da est e da nord che si sono inseriti su una cultura che già rappresentava una sintesi dialettica tra Atene, Roma e Gerusalemme. L’Europa più degli altri continenti è prodotto di un grande meticciato etnico, culturale, sociale e religioso. Proprio questa identità plurale e dunque debole ha fatto dell’Europa la culla nella quale hanno potuto nascere la pluralità delle arti e delle scienze, dei sistemi politici, la tolleranza e la conflittualità religiosa, la democrazia e i totalitarismi,l’affermazione delle libertà e delle tirannidi, i liberismi economici e i socialismi delle macroeconomie dello stato, la rivoluzione francese e la rivoluzione d’ottobre, le riforme e le controriforme, i monasteri e i gulag, l’umanesimo laico e il pensiero razionalista. L’Europa è tutto questo. Essa è cresciuta da molte radici: lo spirito della Grecia e la romanità, gli apporti venuti dai popoli latini, celtici, germanici, slavi e ugro-finnici, la cultura ebraica e gli influssi islamici. Ma nessuno può negare che la fede cristiana appartenga in modo decisivo al fondamento perenne e radicale dell’Europa. E’ in questo senso che parliamo di «radici cristiane dell’Europa», non già per sostenere una coincidenza tra Europa e cristianesimo. Si può affermare che il cristianesimo ha dato forma all’Europa, imprimendo nella sua coscienza collettiva alcuni valori fondamentali per l’Umanità, principalmente l’idea di un Dio trascendente e sovranamente libero, ma anche definitivamente entrato, per amore nella storia umana mediante l’incarnazione di Cristo suo Figlio. Tutta l’Europa mostra il volto umanizzato da Dio in Gesù Cristo, in tutta la sua tradizione umanistica, filosofica, letteraria, poetica, artistica. Possiamo dire che l’antropologia europea è stata scavata e segnata profondamente dalla cristologia, l’uomo europeo ha da più di un millennio attinto alla concezione fondamentale della vita e del mondo della rivelazione cristiana, che ne ha informato e permeato le istituzioni familiari e sociali, da essa sono scaturiti il concetto nuovo e centrale della persona e della dignità umana e la fondamentale fraternità umana, come principio di convivenza solidale nella stessa diversità degli uomini e dei popoli.

Questa nuova fase sarà possibile solo attraverso un dialogo interculturale, con uomini e donne di altre religioni e culture presenti ormai in maniera massiccia in Europa, che permetta di riconoscere il ruolo prominente dei valori, cioè di quei contenuti tematizzabili di ordine ideale, che offrono gli orientamenti di fondo al comportamento delle persone e delle comunità. Essi saranno i parametri per la formulazione di un nuovo diritto di cittadinanza[16].

Lo spirito di dialogo sincero con le altre culture e religioni, non é frutto di relativismo, né di confusione teologica, né tanto meno tende a forme di sincretismo religioso; affonda invece le sue radici in una solida spiritualità biblica ed evangelica, vissuta giorno per giorno nella città in rapida trasformazione. La spiritualità propria di chi vive l’incarnazione della fede nelle contraddizioni della città è per natura sua una spiritualità del conflitto: un conflitto insolubile tra città e deserto, tra cittadinanza ed estraneità. La città senza il deserto, senza il nomadismo della libertà, senza il vagabondare dietro la verità diventa luogo disumano del potere arrogante; d’alta parte il deserto senza la città diviene luogo di paura, di disperazione e di morte.

Non è marginale il fatto che i vangeli sinottici pongano come inizio della vita pubblica di Gesù l’evento delle tentazioni che, iniziate nel deserto, si concludono nella città. La tentazione della città, lungi dal risolversi in una fuga per un nostalgico ritorno al deserto, si trasforma per il cristiano in un vivere in essa da cittadino- sempre-straniero, da immigrato e pellegrino con il solo permesso di soggiorno (cfr. 1 Pt 2,11). Cittadinanza ed estraneità, impegno per costruire una città a misura dell’uomo (= politica) ed invocazione-contemplazione del regno di Dio sono i poli di questa spiritualità del conflitto che caratterizza l’autentica laicità.

  • Un’ immagine della città disumana: la Babilonia

Babilonia nella Bibbia è il simbolo della prima megalopoli sulla terra ormai popolata (Gen 11,1-9).

Il suo nome accadico Babilonia (bab-ilani = la porta degli dei) evoca immediatamente l’orgoglio e la tracotanza di chi vuole possedere ed invadere il mondo divino, dunque l’idolatria. Il suo nome ebraico Babele (balal = confusione) evoca immediatamente il disordine, la frantumazione, la dispersione, il caos. Essa diviene la personificazione stessa della città del male perché essa si è compiaciuta della propria forza (Is 47,7-10), si è levata con orgoglio ed insolenza davanti a Dio (Ger 50,29-32), ha moltiplicato i suoi delitti (Is 46,1), divenendo il tempio della malizia (Zacc 5,5-11) e la città del nulla (Is 24,10). Da essa è necessario liberarsi attraverso un nuovo esodo. “Uscite da Babilonia(Is 40,9; 48,29; 52,7; Ger 50,8) è il grido che prorompe dai profeti e che genera esultanza nel salmista “Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion ci sembrava di sognare…” (sal 126). Anche dopo la sua storica caduta essa permane il simbolo del mistero dell’iniquità, in opposizione alla città della giustizia e della pace, Gerusalemme. Il dramma delle due città, Babilonia città di satana e Gerusalemme città di Dio caratterizza tutta la storia della salvezza, anche nel Nuovo Testamento. Di fronte alla Gerusalemme nuova (Gal 4,26, Apc 21) la Babilonia continua a levarsi minacciosa ad ogni istante: il mistero dell’iniquità e il mistero della giustizia sussistono nell’unica città degli uomini. Babilonia e Gerusalemme non sono due città ma due paradigmi diversi di concepire e di vivere nell’unica città. A partire dalla persecuzione di Nerone Babilonia assume l’aspetto concreto della Roma imperiale. Pietro conclude la sua prima lettera, scritta con ogni probabilità da Roma con le parole “ vi saluta la comunità che è stata eletta con voi e dimora in Babilonia” (1 Pt 5,13). Nell’Apocalisse avviene l’identificazione Babilonia-Roma imperiale come simbolo della potenza escatologica del male. Essa è la città che siede sopra i sette colli (Apc 17,9), la grande meretrice (Apc 17,1; 19,2) e madre delle meretrici e delle abominazioni (Apc 17,5) che si avvicina al giudizio divino ubriaca del sangue dei santi che in essa furono uccisi (Apc 17,3s).

Il linguaggio duro di condanna e di denuncia di Roma-Babilonia, dei suoi mali e delle sue perversioni, delle sue ingiustizie e delle sue violenze, lungi da pericolose interpretazioni fondamentaliste ed integraliste, rimane il linguaggio della parola profetica. L’invito ad uscire da Babilonia (Is 48,20), ripetuto per Roma in Apc 18,4, è un forte appello ai cristiani a riprendere la strada del deserto, il cammino della liberazione, della conversione. In questo senso la visione cristiana dei mali della città non indirizza verso uno sconsolato e rassegnato pessimismo, quanto piuttosto verso una continua autocritica personale e comunitaria, che deve trarre origine dalla conversione del cuore. Per questo pur critico verso sistemi e progetti storico-politici che rendono disumana la Città, il cristiano rimane uomo di ottimismo e di speranza; è convinto che, mentre le ideologie e i sistemi erronei resistono al cambiamento, gli uomini, lui per primo, possono cambiare vita, liberarsi dall’oppressione del potere, convertire il cuore; per questo i suoi avversari politici non sono nemici da distruggere, ma sempre uomini da amare. Per tutti infatti c’è un posto nella città a misura dell’uomo, universale e cosmopolita, la città di Dio, la nuova Gerusalemme. 

  • Un’immagine della città a misura dell’uomo: Gerusalemme, città della pace retta con giustizia

Il suo nome accadico, preisraelitico Urushalim evoca l’ebraico shalom – pace. Il suo re Melchisedech, il cui nome significa re di giustizia, accoglie lo straniero e nomade Abramo offrendo a lui pane e vino (Gen 14,18). Divenuta al tempo del re Davide centro dell’unità nazionale (2 Sam 5,6), Sion, la sua collina, diviene il cuore del potere religioso (il tempio) e del potere politico (la reggia). Essa è celebrata come luogo in cui Dio ha posto la dimora della sua gloria (Sal 78,68; 132,13-18). Ma anche Gerusalemme, sede della teocrazia davidica, è divenuta corrotta e idolatra come Babilonia (“perché e diventata prostituta la città fedele?” (Is 1,21). Per essa, su cui si abbatte provvidenziale il castigo divino della deportazione (Ez 11,1-12), risuonano parole di consolazione e di speranza, quando i suoi abitanti “torneranno ad adorare Dio in Sion” (Ger 31,6.12) ed essa tornerà ad essere sposa di Jahveh (Is 54,4-10). Dopo la restaurazione e la ricostruzione del tempio (Esd 1-3) è chiamata a svolgere un ruolo universale per tutti i popoli della terra (Agg 2,6-9; Is 60;62).

In questa sua funzione simbolica di centro religioso dell’universo, Gerusalemme è celebrata. nei salmi. In essa è piacevole dimorare (Sal 84), verso di essa si va esultanti in pellegrinaggio (Sal 122) perché essa è madre di tutti i popoli (Sal 86). La santità unica di Gerusalemme risiede nella sua natura universale e cosmopolita: in essa nessuno è straniero o estraneo perché “di te si dicono cose stupende, città di Dio. Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: L`uno e l`altro è nato in essa e l`Altissimo la tiene salda” (Sal 86,4-5). Lo stesso salmo presente in forma grandiosa un ufficio anagrafico di tutti i popoli della terra, in cui Dio stesso riconosce ad ognuno il diritto di cittadinanza, perché in Gerusalemme nessuno è straniero: “Il Signore scriverà nel libro dei popoli: "Là costui è nato". E danzando canteranno: "Sono in te tutte le mie sorgenti".

  • L’amore di Gesù per Gerusalemme

Nella bibbia Gerusalemme non solo è lodata, edificata, cantata, ma è soprattutto amata.. Anche Gesù amò Gerusalemme, la sua città, anche se essa gli oppose duramente il rifiuto. “Gerusalemme, Gerusalemme… quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali e voi non avete voluto “ (Mt 23,37; cfr Lc 14,35s; 19,28-41). Il dramma di un amore rifiutato, l’indurimento del cuore, l’opposizione al messaggio evangelico sono espressi nel lamento e nel pianto di Gesù su Gerusalemme. Eppure è in questa città e non altrove che si deve compiere l’evento salvifico. “Non conviene che un profeta perisca fuori di Gerusalemme” (Lc 13,33).

Nel Nuovo Testamento Gerusalemme diviene icona ed allegoria del nuovo popolo dei salvati, la Chiesa (Apc 21,1-22,5) e il salmo 86 assume, nella liturgia battesimale, il senso dell’universalità della comunità cristiana: in essa nessuno è straniero. Essa, la Chiesa, è l’erede delle promesse divine (Gal 4,31), i battezzati sono i cittadini di questa nuova città (Ebr 12,21 ss), nella quale c’è un nuovo tempio non fatto da mani di uomo (Ebr 9,24) di cui l’antico è solo copia o immagine (Ebr 8,5, 10,1).

  1. Una conclusione provvisoria: relativizzare i confini e le frontiere vivendo consapevolmente la città e il deserto, l’identità e l’alterità, la cittadinanza e l’estraneità, il locale e il globale, il particolare e l’universale

Il mistero di Babilonia e quello di Gerusalemme coesistono nell’unica Città degli uomini.

Il cristiano nella città è sottoposto ad una duplice tentazione: quella di cedere al suo fascino idolatrico (polilatria) e la tentazione di fuggire da essa (alienazione). Egli è invece invitato a vivere nella città, ma da straniero in quella permanente spiritualità del conflitto derivante dalla duplice fedeltà a Dio e alla terra che fonda l’autentica spiritualità cristiana. Tale conflitto deriva dalla natura stessa della condizione in cui è posto a vivere il cristiano, collocato in modo permanente sulla frontiera, sul limite tra città e deserto.

Infatti c'è un lato dal quale la frontiera unisce: frontiera, confine, limite, bordo, margine sono anche l'insieme dei punti che si hanno in comune. Con un altro paese si ha la stessa frontiera perché la linea di divisione è anche il tratto in comune che si ha con esso, il luogo dei punti in cui ci si tocca.  

Con-fine vuole dire infatti anche contatto, punto in comune e le guardie di frontiera condividono il paesaggio anche se lo tengono diviso. Insomma ci può essere un lato debole del confine, un confine che unifica e non contrappone, un confine in cui la prima parte della parola (con) vince sulla seconda (fine), una separazione che si contraddice perché per gestire la separazione si ricorre ad uomini, e questi, si sa, possono anche tradire, parlare con il nemico. In tutte le zone di frontiera quando la tensione non è esplosiva possono nascere complicità e connivenze, indebolimenti con sensuali del confine. C'è un'economia illecita che spesso collega le popolazioni di frontiera e indebolisce la sacralità dei confini rendendoli permeabili.

È inevitabile che laddove c'è separazione si affollino anche tutti i verbi e i sostantivi che inizio con trans: si transita, si attraversa, si trasporta, si trasferisce, si trasmette, si trapianta e si trasloca, si transige; si possono incontrare trafficanti, traduttori e traditori, traghettatori di transfughi e trasgressori travestiti. Insomma la tendenza alla separazione si fa valere, ma la forza contraria quella che associa non rimane a guardare e si vale anche di mezzi illeciti: è la stessa debolezza degli uomini che li salva dall'integralismo degli stati. Di notte, quando lo sguardo degli stati è più debole, si può passare il confine ed esistono esperti passeurs che conoscono valichi e passaggi. Ogni frontiera porta con sé come un'ombra la sua violazione, qualcosa che è contro il bando degli stati.

Ma molte cose premono contro questa politica che tende, grazie alla debolezza degli uomini,a superare o a indebolire le frontiere. Chi costruisce il proprio stato nazionale costringe gli altri a desiderarlo e a battersi per costruirlo: è un vero e proprio processo di disseminazione delle frontiere. Dopo aver sterminato o cacciato gli altri ognuno avrà il proprio stato, la piccola casa di cui chiudere la porta in faccia ai vicini. Il sogno dell'abolizione delle frontiere è molto lontano da qualcosa che rassomigli ad una sua realizzazione: i giovani curdi perseguitati da tre stati non sognano di superare ogni frontiera ma di aggiungere a quelle esistenti quella del loro stato nazionale. Si è profughi, o sfollati o senza terra per disgrazia e mai per scelta e appena si può la condizione di senza patria la si abbandona per salvarsi da soli. Non si cerca di unificare i popoli ma di organizzare il proprio. 

La strategia più efficace per indebolire la divisione che viene dai confini non è certo quella di una loro abolizione per decreto. L'universalismo sogna un mondo senza confini, ma spesso la sua fiducia nelle proprie buone ragioni lo conduce a creare nuovi confini, diversi e più forti di quelli aboliti. Il sogno comunista pensava ad un mondo senza frontiere, ma questo mondo si doveva corazzare a Berlino con un muro alto sei metri e all'interno con il ferro spinato dei gulag.

Quella strategia di unificazione nonostante il grande dispiegamento di mezzi è stata sconfitta dalle stesse linee di divisione che proclamava di star superando. Il marxismo ha giocato con il nazionalismo pensando di poterlo usare astutamente ma tutti sappiamo chi è stato a giocare l'altro. Ben prima del crollo del Muro il sogno era definitivamente svanito in quel mattino del 1979 in cui gli eserciti di due rivoluzioni «internazionaliste» (la Cina e il Vietnam) si erano ritrovati armati sul confine l'uno di fronte all'altro. Quel giorno un intero vocabolario si rivelava impotente a nominare quello che stava accadendo.

  • Diventa allora naturale chiedersi: la possibilità di indebolire e superare i confini esiste anche fuori del sogno cosmopolita ed universalista?

L'Occidente dovrebbe cessare di guardare con un orrore comodo e superbo alla barbarie del fondamentalismo, del nazionalismo e dell'economia criminale e tentare di combatterli iniziando con il controllare il proprio fondamentalismo, quello dell' economia. Solo limitando l' homo currens si può sbarrare la strada allo sradicamento e agli usi reattivi della tradizione, al suo ritorno violento e soffocante. Prendere atto del lato oscuro e aggressivo della propria cultura significa finalmente uscire dall'etnocentrismo.

Ciò comporta prendere atto della relatività di ogni singola cultura, compresa quella occidentale, per ricavare da un allargamento del patrimonio culturale generale dell'umanità, le premesse di una coscienza planetaria adeguata alla nostra «comunità di destino terrestre» [17], un incrocio alto delle libertà che travalicano i confini e delle protezioni che esigono le frontiere.

La chiesa è chiamata a farsi serva di questa convergenza planetaria, compito non facile ma per essa non nuovo nella sua storia bimillenaria.

“Infatti l'essere cristiani rettamente inteso, include sempre una certa trascendenza della situazione particolare dello specifico carattere nazionale, della singola lingua, della particolare condizione (e non pertanto il loro consolidamento sacrale). Esso pone una realtà che può adempirsi sempre e soltanto nella convergenza verso l'universalità. La società di oggi, mobile, concentrata ed anonima, se vuol vivere ha bisogno proprio di tali elementi di convergenza. E una simile conseguenza non può acquistare realtà in quanto tesi ideale, ma soltanto nella positiva pazienza di quelli che stanno realmente nei luoghi della mobilità e dell'anonimità come uomini dedicatisi, con i fatti, all'esecuzione di questa convergenza.

Ora infatti si deve ricercare da dove prenda la sua identità la chiesa, perché essa possa tentare di essere la stessa in ogni tempo e in ogni luogo e possa aiutare l'uomo a raggiungere, nella mobilità, la sua identità. Essa lo può fare soltanto a partire dal suo punto centrale, dalla fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che è nello stesso tempo l' «ultimo uomo», cioè il progetto definitivo dell'uomo e la ricapitolazione nel loro omega di tutti gli abbozzi umani. A partire da Cristo essa sa che esiste un solo Padre di tutti gli uomini. Da lui è venuta a conoscenza dell'identità inviolabile dell'essere uomo e di conseguenza della dignità umana di tutti gli uomini, che purtroppo non è un dato di fatto nella storia reale, ma tanto più diventa l'imperativo pressante per un credente, che non può accontentarsi (tanto è importante) di una generale fraternità ontologica. Nell'imitazione di Dio, che ha creato di persona la realtà ed è entrato persino nella positività della vita e del soffrire umano, essa deve lottare piuttosto per la realizzazione del compito principale, di svelare cioè agli uomini la loro fratellanza e di vivere proprio di questa scoperta. Il credente dovrebbe essere spinto dall'irrequietezza di uno scopritore, che deve render nota la sua conoscenza, sovvertitrice della storia, la deve far accettare e portare ad una realizzazione pratica.”[18]

Alla luce di questo rapporto dialettico fra trascendenza e immanenza, fra Parola e storia è possibile trarre alcune conseguenze anche per la prassi cristiana nel sociale e nel politico, sulla quale la comunità ecclesiale si sente costantemente interpellata.

  1. 1. in primo luogo, alla luce della Parola di Dio, e soprattutto del Vangelo della Croce, risulta chiaro che il messaggio cristiano non può essere identificato con nessuna proposta mondana, con nessuna ideologia, e perciò anche che la Chiesa, creatura della Parola, non accetta di essere identificata con alcuna forza storica, gruppo di interessi o partito che sia. Il danno che deriva alla credibilità del messaggio da una simile identificazione è incalcolabile.
  2. 2. In secondo luogo, va precisato come questa libertà critica non possa equivalere in alcun modo ad una sorta di “fuga mundi”, di latitanza spiritualista, che contraddirebbe alla forza scandalosa ed inquietante del Vangelo della Croce, e negherebbe la dialettica città-deserto caratteristica della vita cristiana.

Quest’azione critica suppone però al contempo un’opera positiva di pedagogia della fede: è necessario che alla denuncia si saldi sempre l’annuncio, come formazione delle coscienze all’esercizio del discernimento, ispirato dalla Parola di Dio. In questa luce, una solita educazione politica non potrà prescindere dai valori espressi dalla Dottrina sociale della Chiesa quali la scelta della pace e il rifiuto della violenza, il primato dell’uomo sul lavoro e del lavoro sul profitto, quale fondamento di etica sociale (cfr. le tesi della Laborem exercens di Giovanni Paolo II), la scelta della democrazia, la laicità della politica, intesa come antidoto ad ogni riduzione ideologica della politica stessa. Risultato di questo ricco e complesso rapporto col politico sarà non una politica della testimonianza, che riduce quest’ultima a un’etichetta, ma la testimonianza nella politica, la fatica di vivere la fedeltà al cielo nell’umile, quotidiana fedeltà alla terra, secondo la splendida intuizione della Lettera a Diogneto: I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per i territorio, né per la lingua, né per il modo di vestire. Non abitano mai città loro proprie, non si servono di un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita. Abitano ciascuno nella propria patria, ma come immigrati che hanno il permesso di soggiorno. Adempiono a tutti i loro doveri di cittadini, portano i pesi della vita sociale con interiore distacco. Ogni terra straniera per loro è patria, ma ogni patria è terra straniera” (A Diogneto, V,1.2.5.)




[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Dei Verbum, 8

[2] “Post civitatem vel urbem sequitur orbis terrae, in quo tertium gradum ponunt societatis humanae, incipientes a domo atque inde ad urbem, deinde ad orbem progrediendo venientes; qui utique, sicut aquarum congeries, quanto maior est, tanto periculis plenior”;S. Augustini , De Civitate Dei Liber XIX,7.

[3] Le Goff ,Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino, 1977. 

[4] J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L'impatto dei media elet­tronici sul comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1993.

[5] K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.

[6] E. J. Hobsbawm-T. Ranger (a cura di), 1987, L'invenzione della tradi­zione, Einaudi, Torino.

[7] Rivista Il Regno Documenti, n. 674, ED Bologna, gennaio 1992, p. 32.

[8] ibidem p. 36

[9] Il testo è una sintesi del discorso tenuto da J. Ratzinger a Monaco il 25/4/1970 nel 75° anno della fondazione dell’Unione per la protezione della giovane, sorta per opera di Padre Frohlich e della contessa Preysing per prendersi cura delle giovani lavoratrici immigrate. Il testo completo si può trovare nel capitolo dedicato alla Chiesa in J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974 pp 198- 232

[10] J. Ratzinger, A dieci anni dall'inizio del concilio: a che punto siamo? Monaco, 1975.

[11] Dietrich Bonhoeffer, Viderstand und Ergebung, Munchen 1949 (tr. It. Bompiani, Milano) p. 236.

[12] Nel diritto romano la funzione di misurare la terra, tracciando le linee per la costruzione delle città, era originariamente funzione sacrale esercitata dagli auguri. Quando, con la laicizzazione del diritto, perse ogni implicazione religiosa, il compito passò a tecnici laici che nelle fonti sono chiamati a volte metatores, a volte finitores, a volte mensores, a volte infine gromatici, dal nome dello strumento per tracciare le linee rette, detto appunto groma. La procedura consisteva nel congiungere gli estremi del territorio da nord a sud e da est a ovest, tracciando le linee delle due strade principali, dette rispettivamente cardo maximus e decumanus maximus, e nel suddividere successivamente il territorio tracciando le strade minori, secondo una procedura chiamata centuriatio se il terreno veniva diviso in quadrati e scamnatio o strigatio se veniva diviso in rettangoli.A Roma, l'agrimensura era considerata una professione liberale e pertanto il gromatico non riceveva una paga (merx) ma un compenso detto remuneratio.

[13] R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1989.

[14] G. Simmel, Sociologia, Comunità, Milano 1989.

[15] N. Lohfink, Ascolta, Israele, Paideia, Brescia 1968 p. 81

[16] cfr. Battista Angelo Pansa, Parrocchie d’Europa per il mondo, in Presbyteri , aprile – maggio 2003

[17] E. Morin-A.B. Kem, Terra-Patria, Cortina, Milano1994.

[18] J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, p. 201.

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