VERSO REGGIO CALABRIA

Contributo alla 46° Settimana sociale dei cattolici italiani (Ottobre 2010).

Fondazione  “Persona, comunità, democrazia”

Il cammino verso la settimana sociale dei cattolici italiani, che si svolgerà a Reggio Calabria nel prossimo ottobre, le giornate del suo svolgimento e, soprattutto, gli orientamenti conclusivi, possono e devono rappresentare per i cattolici italiani, specialmente per coloro che sono impegnati nella politica e nel sociale, una importante occasione per  testimoniare, con coraggio e fiducia, la strada da intraprendere per costruire il futuro del nostro Paese.

Testimoni di speranza: compito arduo, ma tanto più inderogabile in questo particolare frangente nel quale, oltre alla crisi economica e sociale, di inedita gravità, esplode la crisi politica che è anche crisi morale.

Di fronte a questo stato di cose si sente il bisogno che si alzino voci autorevoli e sincere, in grado di parlare alle coscienze delle persone di buona volontà per richiamarle ad uno straordinario esercizio di responsabilità.

Noi cattolici che esercitiamo ruoli di responsabilità pubblica avvertiamo il bisogno che la nostra Chiesa sia la prima tra queste voci.

Le settimane sociali, nella loro grande tradizione storica, hanno, quasi sempre, assolto al compito di orientare magistero e laicato verso le grandi scelte che hanno fatto crescere l’Italia,  sino a farla diventare uno dei più importanti Paesi del mondo.  Ciò è stato possibile perché, pur con le contraddizioni ed i limiti insiti nella esperienza della Storia, la politica è stata vissuta, nella maggioranza dei suoi protagonisti delle diverse formazioni, come un servizio. Anche la visione del potere, anche l’aspra dialettica, pur molte volte piegati alle esigenze egemoniche delle ideologie, sono stati interpretati come mezzi per edificare la casa comune.

Per contribuire a realizzare davvero il bene comune come bene di tutti, nessuno escluso. E’ stato questo spirito, del resto, ad animare la preziosa stagione della Costituente e ad ispirare sui valori fondativi della Repubblica una convergenza capace di unire al di là delle divisioni tra maggioranza e opposizione.

Questo spirito contagiava la coscienza civile, sicché l’operosità dei cittadini era certamente dedicata al proprio personale interesse privato e famigliare, ma non era estranea alla costruzione del bene comune.

Si ha oggi la sensazione che la categoria del servizio, tutt’ora diffusa e presente in ogni parte politica, sia però assegnata, sempre più, al “lavoro” di pur qualificate minoranze, ma non costituisca la rappresentazione che i cittadini hanno della politica.

La crisi, naturalmente, non è solo della politica, anche se probabilmente è nella politica e nel potere che essa esercita che è possibile misurarne gli effetti più evidenti.

Ci sono, tuttavia, ragioni più profonde, che affondano le loro radici nelle pieghe di quella rivoluzione prodotta dalla rapidissima evoluzione della scienza, della tecnica e delle tecnologie e al loro declinarsi in rapporto ai tradizionali modelli di sviluppo e di consumo.

Una rivoluzione che ha cambiato il modo di vivere, di pensare, di comunicare e perfino di credere. E di pensarsi in relazione agli altri, nella dimensione sociale.

E’ in questo cambiamento, del quale appare ancora insufficiente la consapevolezza, che è emersa come ineludibile quella questione antropologica che giustamente la Chiesa mette al centro della sua attenzione e della sua proposta.

Le risposte a queste sfide inedite vanno ricercate dentro il tempo che ci è dato vivere, evitando l’illusione di poter replicare o restaurare modelli e culture – anche politiche – del passato.

La contemporaneità ha amplificato a dismisura le domande che interpellano la sfera individuale delle persone. Si è dilatata enormemente la necessità di scegliere e di pronunciarsi su questioni inedite: quelle fondamentali delle vita e della morte, certo. Ma non solo. Si sono moltiplicate anche le possibilità di scelta che riguardano, ad esempio, come e dove vivere. Stili di vita, modi consumare.

Questi cambiamenti hanno modificato anche i comportamenti sociali, economici, politici. Hanno cambiato il modo di essere delle nostre comunità.

L’ampliamento delle potenzialità individuali si è tradotta – su questo piano e non solo in Italia – in modelli culturali e politici che hanno messo al centro della loro proposta come valore preminente quello della libertà. Una idea di libertà, tuttavia, molto spesso pensata e vissuta al singolare. Mentre tutte le grandi culture democratiche sono state e si sono pensate al plurale, come grandi storie collettive, comunitarie. E su questa idea hanno costruito le loro identità.

La crisi della democrazia e delle culture politiche che l’hanno animata tradizionalmente ha a che fare anche con questi mutamenti antropologici.

 

E’ importante, certamente, stabilire quanto questa rappresentazione corrisponda alla realtà o quanto sia una forzatura strumentale; ma la misurazione reale del problema non risolve l’aspetto principale, quello cioè che questo è ciò che pensano i cittadini elettori.

Sicché, essi stessi sono coinvolti e partecipi del messaggio di allentamento del rigore etico e la società sembra, così, più orientata a ricercare egoisticamente il proprio particolare, indipendentemente dall’interesse generale. E’ così che una comunità si avvia verso il declino piuttosto che verso la crescita.

Nemmeno questo corrisponde del tutto alla realtà: la presenza di solidarietà, volontariato, assistenza sociale gratuita e privata sono grandi forze attive, tra le più significative, delle comunità territoriali Italiane; ma resta il fatto che la coltura dell’egoismo, del tornaconto senza reciprocità, della esclusione, sono predicate con troppa autorevolezza da parte di chi le propugna e con troppi silenzi da parte di chi le rifiuta!

A tutto ciò bisogna reagire riportando il bene comune e la persona al centro della vita collettiva, delle ragioni dello sviluppo, delle regole della convivenza.

 

E’ la condizione economica del Paese la prima emergenza e la cartina di tornasole della volontà politica di operare scelte che costruiscano ed uniscano il lacerato tessuto sociale.

La crisi ci interroga. Perché è profonda: intacca, cioè, la vita quotidiana di moltitudini; perché non sarà breve: ci sarà bisogno di tutte le migliori energie per tenere aperto e transitabile il ponte che ci consente di attraversarla; perché comporta mutamenti profondi negli assetti della società: solo una nuova governance, una rinnovata democrazia partecipativa ci consentirà di attraversare il guado.

Quando, due anni e mezzo fa, la crisi scoppiò in tutta la sua virulenza, ci volle poco a capire che non era una bolla finanziaria, che pure aveva acceso la miccia, ma una crepa nel modello di sviluppo esasperatamente fondato su una presunta crescita senza fine, sulla illusione  della autoregolazione dei mercati, sulla possibilità di crescere solo in una parte del mondo, contenendo le domande di sviluppo e libertà della maggior parte dei popoli.

Tutti, in quel momento, anche chi l’aveva prodotta, sostenne che ne saremo usciti diversi e si atteggiarono a convinti riformatori delle regole del gioco. Oggi sembra, invece, che stiamo perdendo la occasione che la crisi ci ha offerto. Il gioco finanziario ricomincia spregiudicato e le nuove regole faticano ad affermarsi. Anche in occasione della crisi greca, o, più ancora, pochi giorni dopo, quando i mercati finanziari hanno speculato sull’Euro, sottoponendo l’Europa ad una delle crisi più gravi della propria storia comune, abbiamo visto il ritardo e la rigidità con la quale si è trovata una soluzione.

Sicché, la domanda non è più tanto se ne usciremo diversi, questione che dobbiamo, comunque, dare per scontata, bensì se ne usciremo migliori!

 

A causa delle difficoltà strutturali che caratterizzano la nostra condizione, per l’Italia la crisi ha conseguenza più acute. Si è pensato il contrario in questi due anni, più a causa anche delle nostre debolezze, forse più che delle nostre, pur notevoli, virtù.

Ora ci si rende conto pienamente della gravità della situazione, ma si fatica ad individuare le ricette. Forse perché si guarda alla crisi con un approccio prevalentemente congiunturale, mentre è necessario un respiro strategico ed una autorevolezza politica di chi governa; condizioni entrambe che risentono invece della incipiente crisi morale e politica alla quale abbiamo accennato in esordio di questa riflessione e che deve costituire oggetto di denuncia e domanda di ricambio.

Nel frattempo la crisi colpisce e ci propone sfide alle quali non possiamo sottrarci e che debbono costituire l’impegno di tutta la società italiana, non solo, ovviamente dei cattolici, ma dalle quali la comunità ecclesiale deve trovare le ragioni di un rinnovato impegno civile.

Il lavoro, innanzi tutto. Il lavoro che viene meno, la sua frammentarietà che penalizza soprattutto giovani e donne, la diffusione di politiche basate sull’assistenza, piuttosto che sulle politiche attive, danno conto di una nuova questione sociale, a fronte della quale il più importante soggetto collettivo di riferimento ci appare la famiglia, che svolge anche il compito di principale ammortizzatore sociale.

L’impresa, immediatamente dopo. La produzione di beni e servizi che soffre della competizione globale, necessita di reti di collegamento e sostegno, di poderosi investimenti in ricerca e razionalizzazione, al quali non corrispondono l’azione del credito e una moderna politica industriale che non c’è; sottoposta ad un serio processo di ristrutturazione, probabilmente appena iniziato, evidenziano una seria questione industriale. L’imprenditore, soprattutto quello piccolo e medio è spesso solo di fronte a questa clamorosa dimensione di problemi e l’impresa diventa il luogo collettivo nel quale, più di altri, si misurano le difficoltà e si esercitano le sfide dello sviluppo e della crescita.

Il territorio, infine. Intendendo con esso la vasta e capillare rete degli Enti locali, dell’associazionismo, delle comunità. La vita quotidiana nei nostri territori, in particolare i comuni, che risente, sempre più, delle conseguenze  delle contraddizioni urbanistiche e sociali della crisi economica e produttiva.

Pur in presenza di un importante risparmio famigliare, la disponibilità di reddito si riduce e calano i consumi. Non solo quelli superflui, ma anche i beni essenziali sono intaccati. A questo proposito vale la pena dire che la crisi ci deve aiutare a distinguere tra  l’esasperato consumismo e le necessità essenziali. Si tratta di un dovere di sobrietà, in presenza della necessità di partecipare tutti, con equità, al risanamento del Paese, a cominciare dai suoi conti pubblici; ma tanto più in presenza di una crescita impressionante della povertà - che ancora colpisce prima di ogni altro la famiglia – che apre rilevanti problemi alle comunità locali. Infatti, la crisi rende più impellente la domanda di servizi ai cittadini.

Ma alla crisi si somma l’esito delle modifiche demografiche che aumentano, fortunatamente, in misura considerevole il numero degli anziani, per cui, per quanto razionalizzati e riorientati verso le nuove forme di welfare, derivanti dalla mutata composizione sociale, i servizi essenziali sono destinati a crescere. E questa è la principale sfida ala quale deve rispondere il federalismo! Le difficoltà dei bilanci locali, principalmente dei comuni, aggravate da un insostenibile patto di stabilità, riducono gli spazi per una politica sociale all’altezza del tasso di civiltà del nostro Paese.

Famiglia, impresa, territorio sono, dunque, i luoghi nei quali operare per uscire dalla crisi nell’ottica del bene comune.

E’ in questi luoghi, differenti tra loro, ma uniti da un comune destino, che incontriamo i soggetti più esposti alle intemperie del presente: i giovani, a cominciare dai figli degli immigrati nati nel nostro Paese che ancora non godono della cittadinanza; i precari, che sono privati della possibilità di progettare il loro futuro personale e famigliare. Le donne che sono ancora discriminate nel mercato del lavoro e continuano ad esercitare, ben più degli uomini, i servizi famigliari e di cura. I capifamiglia di mezza età, che quando perdono il lavoro sono considerati troppo anziani per venire ricollocati, ma troppo giovani per godere di una pensione e spesso precipitano, indipendentemente dalla condizione sociale e dalla professione che esercitavano, talvolta in condizioni di povertà, sempre di esclusione ed umiliazione. Gli imprenditori, quando da soli combattono onestamente per il lavoro loro e dei propri dipendenti; i casi di suicidio avvenuti in questi mesi sono un dramma che testimonia la dimensione umana che anima una visione non solo utilitaristica del mercato e degli affari. Gli anziani, soprattutto quelli soli o non autosufficienti, che dispongono di pensioni inadeguate e, più di altri risentono delle contraddizioni del territorio.

Famiglia, impresa, territorio sono anche i luoghi nei quali meglio si possono esercitare i valori della sussidiarietà e della solidarietà. Preziosi “strumenti” di impiego dei talenti nell’ottica propria del bene comune e della responsabilità individuale e comunitaria.

Prospettiva non solo valoriale, ma sempre più dettata da necessità. Infatti, per le ragioni sociali e demografiche accennate più sopra, possiamo prevedere che la domanda di beni e servizi sociali è destinata ad aumentare, non  a contrarsi.

Potrà lo Stato, nelle sue diverse articolazioni pubbliche, far fronte da solo alla quantità e qualità della domanda? Pensiamo di no.

Non solo lo Stato indebitato, come capita ora per molti Paesi europei, anche in ragione della elevata disponibilità di prestazioni sociali, ma anche lo Stato risanato si troverà di fronte ad uno squilibrio tra crescente domanda di welfare e disponibilità di risorse pubbliche.

Se, allora, non vogliamo ridurre la qualità del vivere ad una prospettiva di “Stato minimo”, intendendo con ciò una drastica riduzione delle prestazioni pubbliche e la possibilità che solo i più abbienti possano accedere a prestazioni integrative sempre più numerose e costose, dobbiamo prevedere una intensa collaborazione tra il pubblico ed il privato sociale.

Ma, proprio per questo, al fine di evitare che la gestione del welfare sia piegata alla logica stringente del profitto e del mercato, a danno della dimensione umana, è urgente che prevalgano i valori organizzati della sussidiarietà e della solidarietà.

Affermiamo, con ciò, la idea di una visione sociale, ma, prima ancora, politica della fraternità, come indispensabile completamento del processo storico di affermazione della libertà e della uguaglianza. Libertà ed uguaglianza non si realizzeranno mai pienamente se non sono “temperate” nella fraternità.

La fraternità come programma politico del XXI secolo globale è il contributo che i cattolici impegnati in politica e nel sociale debbono portare, con le loro idee e con la loro testimonianza, al rinnovamento della vita pubblica.

 

Un programma che trova nella famiglia la sua più naturale realizzazione. Le politiche famigliari sono insufficienti ed inadeguate. Una politica fiscale per la famiglia è l’impegno principale al quale dedicarci.

La famiglia con figli e con anziani a carico è il nucleo primo dello Stato sociale e dei rapporti interpersonali. Serve una riforma degli assegni famigliari e delle detrazioni a favore di un bonus crescente per i figli; un’attenzione alle famiglie numerose; una riforma previdenziale che non si limiti al risanamento, indispensabile, dei conti, ma sia accompagnata da un miglioramento dei trattamenti, con particolari incentivi per le famiglie che convivono con i propri anziani o gestiscono la loro assistenza.

Ma, va detto con chiarezza, che il primo modo per aiutare la famiglia è consentire che venga formata. E’ su questo punto che riscontriamo la più grave mancanza di interventi. La precarietà del lavoro giovanile, piaga ormai insopportabile e causa prima della non autonomia ed indipendenza dei giovani, deve essere risolta al più presto. La riforma contrattuale dell’accesso al lavoro ed il sostegno finanziario all’inserimento nel lavoro e alla emancipazione dalla famiglia originaria, per i quali andrebbe previsto uno speciale “piano casa”, sono i primi obiettivi da perseguire. E’ clamoroso constatare come persistano tutt’ora grandi difficoltà da parte del sistema bancario a concedere ai giovani mutui, prestiti d’onore, finanziamenti per nuove attività!

Un investimento sul futuro è ciò che manca alla società italiana, gravata, tra l’altro, da una forte denatalità.

 

Ma anche l’impresa, nel senso più ampio del temine, che è il luogo dove si esercita il lavoro e la collaborazione produttiva, è indispensabile far vivere la cultura della fraternità, nel senso politico al quale facciamo riferimento. Nell’economia globalizzata “il valore aggiunto” è dato, sempre più, dall’apporto della intelligenza individuale e dalla disponibilità a condividere e collaborare; dalla conoscenza e dalla coscienza del fine produttivo.

Non si tratta di una visione idealista. Sappiamo bene che nuove alienazioni e nuovi sfruttamenti sono presenti nel mondo del lavoro moderno; sappiamo che permangono le differenze e, talvolta, il contrasto degli interessi, ma vediamo le grandi opportunità che si aprono nelle nuove forme della produzione e che consentono di andare oltre la massificazione e la mercificazione.

Sono, dunque, le relazioni interpersonali nei luoghi di lavoro, pubblici e privati, piccoli e grandi, la risorsa che potrà far fruttare appieno il capitale umano. In Italia oggi siamo in una sorta di terra di nessuno: al di là di episodi clamorosi non è più l’antagonismo che prevale, ma alla sua crisi non è corrisposta la realizzazione di una solida partecipazione del lavoro ai destini dell’impresa.

In questo vuoto si annidano i rischi che l’apporto personale diventi individualismo sfrenato e l’affermazione di sé, positiva valorizzazione della persona, diventi cannibalizzazione dei rapporti umani; sicché, all’antagonismo di classe si sostituisce l’antagonismo tra le persone. La concorrenza nei mercati, salutare stimolo alla crescita e all’inventiva, diventa la competizione che annulla le regole del gioco e sottrae davvero la imprenditività al bene comune.

Un nuovo compito si apre, dunque, per tutti, ma principalmente per le associazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro. A loro spetta “capitalizzare” tutto ciò verso una prospettiva solida di partecipazione e di democrazia economica.

La politica deve favorire con appositi sostegni legislativi questi processi di trasformazione del capitalismo. La Chiesa con la sua recente dottrina sociale,  dalla Popolorum Progressio alla Caritas  in veritate, attraverso la Centesimus annus, e che ha trovato nell’incipit della costituzione conciliare “Gaudium et spes” il suo programma (“le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi” sono le nostre!) ha dato un grande contributo al discernimento.

E’ necessario che la Pastorale locale traduca questo insegnamento in una opera di educazione dell’imprenditore e del lavoratore nella idea che la riforma del capitalismo è ormai una matura questione economica e politica e che la visione morale che affermiamo del bene comune e del valore della persona non sono in contrasto con le esigenze della produzione e della crescita internazionale.

Nelle grandi contraddizioni che viviamo, questa è una fertile stagione per favorire una nuova stagione di emancipazione per il mondo del lavoro e della produzione. Emancipazione dal bisogno materiale e dalla povertà morale.

 

Infine, lo stessa cultura della fraternità deve vivere nel territorio, anche in ragione delle numerosissime associazioni che pullulano in ogni comune e che si occupano di tutti gli aspetti della vita umana e del suo benessere. Dallo sport al tempo libero, dalla cultura allo spettacolo, dalla educazione degli adulti alla crescita dei ragazzi, dalla assistenza dei poveri e degli anziani a quella degli anziani, dalla difesa  dell’ambiente alla emergenza in caso di calamità, dalla tutela dei consumatori alla produzione a km zero.

Anche la società di oggi si regge, per fortuna, sulla vitalità di molte organizzazioni laiche o religiose. Una rete, un patrimonio che necessita di legami, di sostegni, di progetti. Un mondo che si muove, un “mercato senza mercato” che rappresenta, però la essenza della nostra partecipazione alla vita pubblica.

Mentre, dunque, si abbassa la partecipazione politica, si estende la partecipazione civica. E’ un sintomo, ma anche una indicazione per la politica che deve ripensarsi rapidamente. Non deve sostituirsi alla società civile, ma deve ritornare ad essere popolare.

Le parole che da Reggio Calabria parleranno al mondo moderno e al nostro Paese  possano, dunque, essere efficaci e convincenti.

Una nuova epoca attende ciascuno di noi e tutti insieme. Siano, dunque, a ciò orientati i nostri “pensieri, parole ed opere”. Siano vigile le nostre attenzioni alle quotidiane “omissioni” nelle quali rischiamo di cadere.

Ma sia incrollabile la nostra fiducia verso le persone ed il loro agire, perché, come ha scritto Paolo VI, proprio nella Populorum Progressio:   “le civiltà nascono, crescono e muoiono. Ma come le ondate dell’alta marea penetrano più a fondo nell’arenile, cos’ l’umanità avanza nel cammino della storia” (Pp, 17)

Vedi dossier 46° Settimana sociale dei cattolici italiani in Reggio Calabria (Ottobre 2010)

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