Il cattolicesimo democratico. Una risorsa per il Paese e per la Chiesa

Relazione di Guido Formigoni

Guido Formigoni

Roma - 19 Novembre 2011

 

Un ennesimo incontro sul cattolicesimo democratico? Dobbiamo motivare la scelta e tentare di spiegare cosa ci sia di nuovo, quale sguardo al futuro ci proponiamo convocandoci in questa assemblea.

Non si può non partire da una convinzione: l’esistenza di «una prospettiva spiritual-cultural-politica», di una sintonia tra persone diverse basata su alcuni elementi essenziali comuni. Credenti fedeli e laici di Santa Romana Chiesa, cattolici che prendono sul serio la democrazia. Come metodo plurale di organizzazione della convivenza nella libertà, ma anche (in senso primo-novecentesco) come istanza di emancipazione, crescita e dignità dei «molti» non privilegiati in una società diseguale. Bastano queste prime note per cogliere le due lunghezze d’onda fondamentali intrecciate tra loro: nella sensibilità cattolico-democratica c’è da una parte un forte sentire ecclesiale vissuto nella laicità e nella libertà, cosciente dell’eccedenza della fede cristiana e della sua irriducibilità a religione politica o civile; e dall’altra parte una scelta politica per l’uguaglianza, la pace e la giustizia, innervata da un senso acuto delle mediazioni e della «giustizia possibile» da realizzare nella storia.

Quindi, cattolici diversi da altri. Cittadini diversi da altri. Che si collocano, si schierano, prendono appassionatamente parte. Non credo utile mettere paletti, dare il senso di una definizione più stretta e precisa: mi sembra molto più produttivo tenere un orizzonte ampio e inclusivo a definire i possibili incontri, anche dialettici. Diciamolo in altro modo: in questo orizzonte ci stanno persone che hanno fatto scelte anche diverse negli ultimi anni. Ci sono gruppi, fermenti, iniziative, percorsi, non del tutto omogenei. C’è un pantheon di miti e di padri nobili pluralistico e articolato. E’ bene in una prima fase che continui a essere così. L’evocazione di concilio, costituzione e cittadinanza (i C3 del titolo), traduce in riferimenti evocativi questa sensibilità: due «stelle polari» del passato e un impegno per il futuro. Per questo utilizziamo l’antica e nobile espressione di “cattolici democratici”. Per questo la frase che sta nel titolo dell’incontro: per una rete tra cattolici “e” democratici è stata inventata un po’ per sfida, per alludere a una ricerca che vada oltre un’identità strettamente delineata. Non equivochiamo questa frase: non intendiamo mettere insieme credenti non democratici o democratici non credenti (anche se nel dialogo anche questi mondi «altri» la sensibilità cattolico-democratica si affina). Quanto piuttosto delineare un campo di tensioni aperte, di ricerca senza vincoli, più che non un orizzonte dottrinale, o addirittura ideologico, circoscritto e preciso.

Non vorremmo piuttosto che si ripetessero gli equivoci consueti, che sono sempre dietro l’angolo: i soliti reduci della sinistra democristiana; i cattocomunisti; le anime belle dell’utopia. A scanso di ulteriori fraintendimenti, credo di poter dire che oggi sia difficile identificare il cattolicesimo democratico con una specifica posizione politica, con un discorso identitario o aggregativo utile nell’attuale contingenza della dialettica partitica. So che su questo punto ci sono sensibilità diverse: ne discuteremo in questi giorni e la discussione potrà anche continuare. Ma ritenere che il nome cristiano vada tenuto distinto dalla contingenza politica è istanza da tenere sempre assieme all’altra, per cui la fede cristiana ha qualcosa da dire anche alla politica e quindi tale fermento animatore e orientatore è sempre da riscoprire. In prima battuta, la sensibilità di cui parliamo stasera è da collocare in un orizzonte molto più ampio, rispetto a qualsiasi pur alta militanza politica.

 Vorrei anche dire subito che avverto un senso di urgenza nell’interrogarsi su questo mondo e il suo futuro. I singoli e i gruppi che si riconoscono in tale prospettiva e «sentire comune» hanno un interrogativo semplice di fronte: si tratta di vita o di morte. Non sono più i tempi della gestione tranquilla di un onesto declino o di una residuale rendita di posizione. Le condizioni sociali ed ecclesiali che si sono create nel paese rischiano infatti di emarginare totalmente questa sensibilità: l’hanno già fortemente indebolita e messa a repentaglio. Le sintesi culturali, del resto, sono plessi storici che condividono la sorte di tutto quello che passa sotto il cielo: nascono, crescono, cambiano, a volte si riproducono, possono anche morire. Un’ispirazione essenziale può sopravvivere spontanea e sotterranea nelle coscienze anche solo di pochissime persone, ma comunque se non avesse più visibilità sociale, sarebbe considerata ininfluente. Questo è il momento di prendere di petto il problema: Hic Rhodus, hic salta!

E’ bene anche dirci reciprocamente che porsi la domanda sul senso del cattolicesimo democratico nel contesto attuale è diverso che farlo dieci (o anche cinque o due) anni orsono. Serve sempre tenere uno sfondo ampio della nostra riflessione. Ricordare che viviamo un orizzonte di cambio d’epoca, con la crisi della centralità dell’Occidente e movimenti di popoli e Stati che stanno spostando la struttura del potere e della ricchezza nel mondo. Sperimentiamo un attacco senza precedenti all’euro e alla vitalità stessa dell’esperienza europea. Viviamo la difficoltà radicale di un modello economico, senza che si intravveda più che un balbettio rispetto alle strade per uscirne e costruirne un altro. Ma non si può nemmeno dimenticare il ritorno della questione religiosa al centro della scena pubblica, con tutto quello di esaltante, ma anche di terribile e rischioso che questa novità propone a livello globale. Sperimentiamo una crisi diffusa della democrazia dove essa è stata storicamente fragile, ma anche dove è antica e matura: ma al contempo emergono nuove istanze di partecipazione e cambiamento. Se ne parlerà, tra oggi e domani, ma cerchiamo fin da subito di tenerne conto.

Per stare all’Italia, l’uscita dalla stagione berlusconiana si profila per ora nell’emergenza del governo dei tecnici che ha il compito difficile di mettere argine alla frana, ma – a fianco oppure anche oltre questa stagione – ricostruire la democrazia chiederà un lungo lavoro di rifondazione della politica e della mentalità diffusa. Già sono in corso dinamiche di cambiamento, alcune aperte e altre sotterranee, con un complesso riposizionamento che fa baluginare una nuova stagione, tutta ancora da decifrare. In questo orizzonte civile, si colloca il confronto sul ruolo di cattolici. La nostra Chiesa è visibilmente in affanno rispetto alla possibilità di perpetuare una tradizione pastorale, ma contraddittoriamente spesso si culla nell’illusione di aver vinto la secolarizzazione, leggendo comportamenti sociali che testimonierebbero la persistenza di un ethos ispirato almeno lontanamente al cristianesimo dei padri. L’istituzione si sente ancora forte, anche se spesso in modo poco riflesso. Dopo anni di trascuratezza (funzionali a un certo equilibrio con la politica), l’insistenza recente su una nuova stagione di impegno politico dei cattolici, ha in sé virtualità ricche ma è ancora irrisolta tra protagonismo associativo e laicale e una malcelata tutela gerarchica (che aprirebbe problemi difficili da gestire). Si accavallano progetti e istanze diverse, in un gioco ancora piuttosto confuso: dalle velleità di costruire una nuova formazione cattolica da lanciare in politica (il neo-ministro Ornaghi ha parlato recentemente di una «identità guelfa»), fino all’idea ambiziosa di poter raccogliere l’eredità del centro-destra post-berlusconiano nella forma della cosiddetta «sezione italiana del Ppe». L’inveterato schema centrista che a tratti appare, ove non sia ingenuo, è certamente più vicino a questa seconda ipotesi. Rispetto a questi processi è bene riflettere e capire, anche se dovremo discutere e posizionarci (e proporrò una nostra posizione più avanti).

 In generale, sosterrei che in questa congiuntura – proprio perché i processi appaiono di portata «costituente» – i cattolici democratici possano e debbano essere una risorsa vitale e cruciale sia per il Paese, sia per la Chiesa che sta in Italia.

Nel Paese, in questa Italia che vive una crisi complessa e pur tuttavia è ricca di vitalità e speranza, c’è bisogno di credenti determinati a lottare per la giustizia e la solidarietà, innamorati promotori della libertà e dei diritti dei singoli e dei gruppi, capaci di mediazioni democratiche e di custodire un senso acuto della complessità e dei limiti della politica, oltre che un rigoroso approccio di laicità (ancor più necessario di fronte all’ambigua espressione «età post-secolare»). C’è bisogno di donne e uomini di dialogo, che contribuiscano a rivitalizzare un’area democratica e di sinistra dilaniata tra correnti esangui che scontano nel compatibilismo ad oltranza il complesso del loro estremismo giovanile, da una parte, e componenti irresponsabili vagamente alla ricerca di un altrove che li fa preda di un «benaltrismo» poco creativo, dall’altra. Contro l’acquiescenza, contro il mugugno, oltre la protesta, ci vuole inventiva, responsabilità, coinvolgimento. Come diceva Aldo Moro nel 1944: «Il cristiano dev'essere così idealista, da credere sempre e solo nella forza della carità; così realista, da volere con tutte le sue energie la giustizia ed il gioco delle forze politiche che la determina». In questa linea esigente sta un contributo da offrire al paese.

Nella Chiesa, c’è bisogno di cristiani che non confidino solo nella tradizione o peggio, che strumentalizzino la fede come religione civile, ma che, «radicati e fondati» sulla verità del Cristo (come direbbe l’apostolo, Col 2,7), siano capaci di interpretare il mondo, far reagire il Vangelo nelle situazioni concrete e aiutare le comunità a uscire dall’afasia e dallo sconcerto. C’è bisogno di laici che interloquiscano in modo maturo con i pastori, per camminare insieme nella ricerca del modo con cui l’esigente appello del Regno deve essere fatto reagire nella storia. «Camminare insieme» era appunto il titolo di una lettera pastorale del cardinal Michele Pellegrino, che giusto 40 anni fa, così scriveva: «Come si addice a uomini liberi, a fratelli in Cristo, membri corresponsabili del popolo di Dio, è doveroso promuovere nella comunità un dialogo sincero, animato dalla carità, che consenta a ognuno di recare il proprio contributo, “con quella libertà e fiducia che si addice a figli di Dio e a fratelli in Cristo “[cit da LG], per preparare le decisioni che l'autorità ha il dovere di assumere, nella “coscienza di essere servizio e ministero di verità e di carità”». Insomma, un contributo «adulto nella fede», al di là di tutte le ingiustificate polemiche che hanno recentemente accompagnato questa espressione.

 Siamo all’altezza di questo vero e proprio appello della storia? E’ solo un sogno illusorio? Proviamo a ragionare molto semplicemente di alcune condizioni di possibilità per poter sostenere questo ruolo vitale.

 La prima è l’ancoraggio all’essenziale, coltivato nella profondità delle coscienze e nella rigenerante continua capacità di abbeverarsi alle fonti della vita di fede, a partire dalla centralità della Parola. A questo livello si gioca ogni rivoluzione profonda, dobbiamo ricordarcelo sempre. La coerenza non è un portato di ideologie schematiche, è anzitutto questione di virtù vissuta, come ci ricordava sempre con Giuseppe Dossetti. Non quindi semplice adesione a uno schema di pensiero o, peggio, a uno schieramento preconcetto, a un’identità predefinita. E nemmeno semplice attitudine alla ripetizione delle posizioni di principio espresse dal magistero o dalla «dottrina sociale della Chiesa». Su questo ognuno di noi ha di fronte a sé un esame di coscienza da compiere, come c’è un enorme esame di coscienza collettivo della comunità cristiana da fare: riusciamo a privilegiare sempre l’essenziale o ci perdiamo in mille istanze più o meno dipendenti dalla «mentalità di questo secolo»? C’è attorno a noi fin troppa evocazione del nome cristiano e forse troppo poca seria e umile scelta di mettersi alla scuola della Parola.

In secondo luogo, occorre una severa lettura del passato e un’autocritica rispetto alle fragilità e alle inadempienze dei successivi vent’anni. La crisi della Dc non è ancora stata storicamente inquadrata, e come tutti i problemi rimossi, torna periodicamente a inquinare il nostro vissuto. Occorre ormai sedimentare un giudizio maturo su meriti e limiti di quella lunga cinquantenaria parabola, ma soprattutto rendersi conto che la crisi di quell’esperienza ha rivelato quanto tale sintesi fosse superata dalla storia. Non perché sbagliata o in sé discutibile, ma perché in parte realizzata (e quindi non più politicamente trainante) e in parte ormai ridotta a un incoerente discorso valoriale senza concretizzazione politica. Ma anche la storia successiva va ripensata. E credo possiamo dir forte che il cattolicesimo democratico non è stato assente dal percorso della seconda stagione della storia repubblicana, contribuendo in modo decisivo ai suoi passaggi più alti (si pensi alla proposta politica dell’Ulivo e in seguito alla stessa genesi del Partito democratico). Ma dobbiamo ammettere che dal punto di vista ecclesiale e culturale abbiamo rischiato, per debolezza, fragilità, individualismi, prudenze, divisioni, di compromettere le basi stesse di quella battaglia civile. Ci sono state condizioni negative forti, ma non possiamo consolarci dicendo soltanto che il mondo non ci ha capito. Da questa consapevolezza forse si può ripartire meglio, con lucidità e coraggio. C’è il tronco di un passato nobile cui ancorarsi, ma va depurato con un lucido processo di storicizzazione. Senza sclerosi ed evitando le ripetizioni stanche e le formule trite. Solo con questa attitudine sarà possibile coinvolgere le energie giovanili in una istanza di costruzione gioiosa del futuro, mostrando loro come la lezione della storia non ci vincoli, ma ci liberi. E quanto sappiamo che la trasmissione intergenerazionale è un punto di sofferenza critica nel nostro mondo!

 Terza esigenza. Dobbiamo costruire uno spazio di ricerca e innovazione, una circolazione di cultura e di opinione che entri profondamente nel tessuto ecclesiale e civile. Occorre moltiplicare i luoghi dove si costruisca in modo collettivo, corale, partecipato, orizzontale, un’attitudine al «pensare politicamente», come diceva sempre il maestro Giuseppe Lazzati. Dove i pilastri di ieri si sviluppino nei progetti per i domani. Senza confondere quello che è libera ricerca e capacità di correre i propri rischi sulle questioni opinabili (che in politica sono la regola e non l’eccezione!), con il vituperato «relativismo». Superando la tentazione dell’ovvio, la ripetizione dei grandi discorsi di valore senza concretizzazioni nell’attualità. Prendendo di petto le questioni di cosa sia il riformismo, di cosa voglia dire essere di centro-sinistra, di quali scelte prioritarie possano restituire legittimità a una politica drammaticamente lontana dai cittadini comuni, di come uscire dal trentennio «neoliberista» senza limitarsi a difendere un passato (spesso indifendibile…). E l’agenda si può e si deve moltiplicare. Un percorso capillare di questo tipo non nasce spontaneamente. Non nascerebbe nemmeno miracolisticamente a partire dalla presenza di un leader «federatore», che non c’è, mentre se ci fosse non basterebbe. Va piuttosto costruito con il necessario approccio corale, ma anche lucidamente imprenditoriale, senza elitarismi intellettualistici, ma anche senza velleitarie dichiarazioni di voler “ripartire dal basso” in modo sregolato e disperso. Di questa che chiamerei l’organizzazione di una élite popolare fa parte la costruzione paziente, con tutti gli strumenti più aggiornati, di una rete di comunicazione e integrazione tra energie diverse. C’è un patrimonio dilacerato e disperso, molto più ampio di quello che normalmente si pensa. La seminagione del Concilio e l’eredità della Costituzione sono vive e diffuse nelle coscienze e in centinaia di esperienze aggregative, che spesso non emergono, si sentono in minoranza, mancano di punti di riferimento nazionali. Questo lavoro va costruito quindi con attenzione mirata a raggiungere le vaste aree di persone potenzialmente interessate e spesso lontane dal nostro circuito: ne cito una a modo esemplificativo, il mondo del volontariato, la base delle esperienze Caritas, delle cooperative sociali e della lotta all’emarginazione dove spesso il generoso servizio e il radicalismo sociale va insieme a un disinteresse per la politica e a un risentimento antipolitico che è esiziale sia per la società che per la politica.

 Quarta istanza. Una partecipazione convinta e solidale alla vita delle comunità cristiane e alla loro ricerca sull’orizzonte civile. Se il presidente della Cei Bagnasco a Todi non ha suggerito ricette politiche, affermando «la comunità cristiana deve animare i settori prepolitici nei quali maturano mentalità e si affinano competenze, dove si fa cultura sociale e politica», credo che sia importante prendere al volo l’opportunità, con cordiale apertura. Come ha scritto Enzo Bianchi « Più volte in questi vent´anni abbiamo auspicato un "forum" che nelle varie chiese locali raggruppi tutti i cattolici per favorire la conoscenza e il confronto su temi che richiedono una traduzione politica. Abbiamo specificato che questo forum, aperto a rappresentanti di tutte le componenti della Chiesa, dovrebbe, in un dialogo libero e fraterno, cercare ispirazione dal Vangelo e confrontarsi con la dottrina sociale della Chiesa, restando tuttavia su un terreno prepolitico, preeconomico, pregiuridico, nella consapevolezza che la traduzione di queste ispirazioni cristiane messe a fuoco insieme appartiene ai singoli cattolici che devono confrontarsi negli spazi politici in cui sono presenti e con tutti gli altri cittadini.» Non si potrebbe dir meglio: si tratta di un metodo diverso da quello dei «Forum» istituiti dalla gerarchia per cooptazione di una serie di sigle convergenti. Si tratta di una questione aperta almeno dai tempi di Evangelizzazione e promozione umana, da molte parti sollecitata e ribadita in questi decenni, ma mai adempiuta. Si dovrebbe immaginare un percorso rappresentativo ampio, con una misura significativa di libertà e pluralismo. Ma alla fine solo così si potrà superare il rischio della dicotomia tra una gerarchia sovraesposta e una pastorale silenziosa sulle cose pubbliche (per evitare la temutissima espressione della varietà delle opinioni, che viene vista come germe della disunione ecclesiale).

 Quinta notazione. Se questa sensibilità si rafforzerà nella Chiesa e nella cultura, verrà naturale promuovere l’inserimento nella politica di energie nuove, verrà naturale sostenere chi in politica già offre il suo servizio, interloquire con la politica per suscitare verifiche e adeguamenti, arricchimenti reciproci. Non è una meta facile, ma è fondamentale costruire finalmente un circolo virtuoso tra il radicamento nella società, la dimensione culturale e le scelte di singoli e di gruppi per un impegno politico doveroso e necessario. Tale sbocco non deve esaurire l’orizzonte di ricerca comune o peggio strumentalizzare a fini di pur nobile protagonismo le energie sociali e civili che si mettono in moto. Circolo virtuoso vuol dire che ognuno deve fare la sua parte, e che i cattolici democratici impegnati in politica porteranno la loro capacità di cooperazione e di iniziativa intrecciandosi con altri contributi. Non siamo disponibili per il progetto, per vari aspetti politicamente e pastoralmente regressivo, di una eventuale «cosa bianca», ma nemmeno per una illusoria corrente cattolico-democratica del Pd o del centro-sinistra! Il fermento dei cattolici democratici continuerà ad animare lo schieramento riformatore del paese, e lo farà con ricchezza maggiore se potrà interloquire con una rete viva e forte di riflessioni e persone, di pratiche di progettazione e di partecipazione, di trasmissione di idee, memorie, saperi, competenze, aspirazioni.

 Riusciremo tutti assieme – allargando ovviamente con lungimiranza e tenacia il giro delle persone coinvolte – a costruire queste condizioni? Se tenteremo di farlo con leggerezza, vivacità, dedizione e – perché no – un po’ di allegria, penso che sarà un percorso arricchente e divertente, oltre che un servizio di spessore umano e di responsabilità storica.

Come diceva don Tonino Bello, citando Rostand: «E’ di notte che è meraviglioso attendere la luce. Bisogna forzare l’aurora a nascere, credendoci. Amici, forzate l’aurora. E’ l’unica violenza che vi è consentita» (30).

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Vedi dossier relativo all'Assemblea costitutiva