UN’ITALIA DIFFERENZIATA

di Pietro Pergolari

4 Febbraio 2024

Anche l’autonomia differenziata, come altre riforme, non è una scoperta del centrodestra di oggi.

Nel 2001 infatti il Governo Amato, di centrosinistra, sotto la spinta del ministro Bassanini, approvò la riforma del titolo V della Costituzione che ne fornisce i presupposti e che oggi gli esperti, e non solo, considerano sbagliata. Certo, c’è da ricordare che fu approvata per il timore che la Lega continuasse a portare avanti le spinte federaliste se non secessioniste (ricordate le discussioni se la Padania potesse comprendere anche l’Umbria, comunque escludendo il resto del centro sud?).

Oggi la Lega forse è meno interessata a quei temi ma deve comunque alzare la bandiera della autonomia differenziata, se non altro, per mantenere i consensi, un po’ ridotti rispetto ad allora.

Può sembrare strano che i partner di governo siano convinti della riforma, dato che il partito di maggior peso vuole un governo forte, che avrebbe scarsi contenuti se la proposta dell’autonomia fosse approvata.

Beniamino Deidda, già procuratore della Repubblica, componente del comitato scientifico di Questione Giustizia, traccia alcune linee critiche sui principali aspetti della riforma Calderoli.

Il giurista parte dall’art. 5 della Costituzione: ”La Repubblica, una e indivisibile, riconosce le autonomie locali, … attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo …. per i costituenti l’unità della Repubblica rappresentava il confine invalicabile di ogni decentramento di poteri e di competenze regionali”.

Ma la riforma del 2001 introdusse gli articoli 116 e 117 nella Costituzione rendendo immaginabili le previsioni che oggi sono al centro della proposta del Governo di centro destra.

Il testo originario della Costituzione individuava con precisione le competenze legislative regionali e quelle riservate allo Stato.

La riforma del 2001 invece, con un cambiamento radicale di prospettiva, elenca le materie di esclusiva competenza dello Stato e un elenco di materie di competenza “concorrente”, per queste e per ogni materia non espressamente riservata, lo Stato determina i principi fondamentali mentre le regioni dispongono della competenza legislativa.

Con l’art.116 si prevede l’attribuzione di “forme e condizioni particolari di autonomia” alle regioni, che è disposta con legge dello Stato a maggioranza assoluta, “sulla base di una intesa fra lo Stato e la regione interessata”, per le materie di competenza concorrente e alcune materie individuate tra quelle riservate allo Stato.

Nella proposta del governo sembra addirittura scontato, scrive Beniamino Deidda, che le nuove forme di autonomia potrebbero evitare l’esame di merito del Parlamento, che disporrebbe solo del potere di verificare la regolarità formale dell’intesa tra Governo e Regioni, e di approvarla o rigettarla ma non di modificarla.

E’ “davvero possibile ridurre il ruolo del Parlamento alla mera ratifica di quanto deciso da altri?” si chiede il giurista.

La proposta prevede che le risorse per l’esercizio delle nuove competenze non siano assegnate prima della determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, i tanto invocati LEP, che dovrebbero garantire i servizi essenziali per 14 materie, fissando un parametro minimo sotto il quale non si può scendere.

C’è da tener conto inoltre delle 9 consistenti materie per le quali non sono previsti i LEP, che con le altre porterebbero a 23 quelle trasferibili alle regioni; alcuni commentatori sottolineano che se tutte le regioni rivendicassero tutte le competenze attribuibili il bilancio e le funzioni dello Stato sarebbero drasticamente svuotati.

C’è inoltre da notare che la Costituzione attribuisce alla legge la determinazione dei LEP mentre una recente legge di bilancio prevede a tal fine atti governativi e occorre tener conto delle conseguenze possibili della determinazione dei diritti essenziali; per esempio è ormai generalmente riconosciuto che i LEA (diritti essenziali di assistenza per il diritto alla salute), anziché essere parametro minimo di prestazioni, si sono rivelati per alcune regioni un obbiettivo, un tetto al quale tendere (sembra che 10 regioni su 20 non riescano a conseguirli).

C’è anche il problema del finanziamento delle nuove funzioni. Il disegno di legge prevede una commissione paritetica, tra lo Stato e ciascuna regione interessata, per la definizione delle risorse, da derivare dai tributi erariali; le regioni in cui i cittadini pagano più di quanto ricevono per la spesa pubblica, quelle più ricche quindi, tratterrebbero, almeno in parte, le risorse versate al fisco.

C’è da osservare che l’art. 2 della Costituzione attribuisce alla Repubblica, allo Stato, la garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo e l’art.119 disciplina l’istituzione con legge dello Stato di un fondo perequativo “per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. A questi fini le persone pagano le tasse come cittadini dell’intero paese.

La solidarietà sociale, economica e tributaria, ai sensi degli articoli 2 e 53, deve operare a livello nazionale e non regionale; sembra quindi in contrasto con tale previsione che le tasse pagate dai cittadini, confluite nel bilancio dello Stato, aiutino ulteriormente le regioni più ricche, abbandonando ai loro scarsi bilanci le regioni più povere. Si accrescerebbero i divari, anche di cittadinanza, tra regione e regione già oggi pesanti.

Ma anche a prescindere da tale previsione le regioni più ricche non avrebbero problemi a fornire servizi anche superiori a quelli dei LEP mentre le altre, le più povere, dovrebbero sperare che lo Stato le soccorra, solo per raggiungere i livelli essenziali per ora non conseguibili.

Gianfranco Viesti, docente di economia applicata dell’Università di Bari ha definito, prima di altri, l’autonomia differenziata “la secessione dei ricchi”.

Forse ci sarebbero anche dei costi aggiuntivi, se non altro, dovuti alla moltiplicazione dei decisori.

Tutto ciò senza entrare nel merito delle materie trasferibili: per esempio l’istruzione. Le Regioni potrebbero, ciascuna a suo modo, determinare i programmi, la dotazione organica e l’assegnazione dei docenti, istituire posti in deroga, finanziare nuovi corsi universitari. Scuole diverse per cittadini diversi?

E la sanità, per la quale in tempi di pandemia si è detto che le funzioni dovrebbero essere esercitate solo a livello nazionale?

Per alcune funzioni trasferibili si è detto che forse non basterebbe nemmeno la dimensione nazionale.

E lo Stato? E l’unità di valori, i principi condivisi? E, anche, l’identità della Nazione su cui talvolta si insiste?