Agire Politicamente

Settimana sociale dei cattolici italiani (46a)


2010 Reggio Calabria

  “Cattolici nell’Italia di oggi. Un’agenda di speranza per il futuro del Paese”

Collegamento al sito ufficiale: www.settimanesociali.it

  Documento conclusivo:

  • 11/03/2011: Comitato Scientifico e Organizzatore - Il documento conclusivo
    La memoria viva della 46ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani ruota attorno a tre parole chiave: unità, speranza e responsabilità. Il Documento conclusivo, presentato venerdì 11 marzo – alla vigilia del 150° anniversario dell’Unità d’Italia – ricorda le nuove prospettive di unità aperte dall’esperienza del discernimento ecclesiale; la forza della speranza, vissuta nel cammino di preparazione e di confronto; le grandi responsabilità poste oggi di fronte ai cattolici italiani, con riferimento a ogni ambito della vita della civitas."Unità, speranza e responsabilità" Un cammino che continua: … dopo Reggio Calabria

  Dizionarietto della Settimana Sociale di Reggio Calabria

  Documenti reperiti nel sito ufficiale:

Ulteriori documenti e video reperibili sul sito ufficiale

Dossier articoli ed interventi (dalla stampa)

 

Egregio Direttore,

i partecipanti al seminario di formazione politica promosso, in questi giorni, da “Agire Politicamente” sul tema “Cattolicesimo democratico e questione sociale”, nel condividere la lucida e coraggiosa linea della Sua rivista, di difesa dei diritti costituzionali e della legalità nonché di risveglio del senso civico di responsabilità dei cattolici nella vita sociale, Le esprimono affettuosa solidarietà per le scomposte reazioni al Suo editoriale dell’ultimo numero di “Famiglia Cristiana”

Leggi tutto: Agire Politicamente esprime solidarietà al Direttore di "Famiglia Cristiana" e RISPOSTA

Povertà, ricchezza e giustizia in una prospettiva biblico-teologica

(Relazione di Mons. Battista Angelo Pansa, letta al Seminario Estivo 2010 di Agire Politicamente in Massa Martana)

Mons. Battista Angelo Pansa

Massa Martana, 17 luglio 2010.

  1. LA POVERTÀ, UN MALE CHE OFFENDE L'UOMO E CHE DIO NON VUOLE

È necessario chiarire in primo luogo che la povertà in se stessa non è un valore. La povertà materiale implica e porta con sé penuria, fame, predisposizione alle malattie e a tutta quella gamma di limitazioni che solo eliminando detta povertà possono essere rimosse. Non mancano persone che giungono a fare riflessioni mistiche sulla povertà senza essere realmente consapevoli di ciò che dicono. Come molto saggiamente osserva Berdiaef, il problema della propria povertà si presenta sempre come una questione materiale, mentre per gli altri si presenta come un problema spirituale. In altre parole: quando realmente la povertà ci opprime e soffriamo le sue conseguenze, noi dimentichiamo ogni considerazione mistica, ostinandoci sul materiale, sulla infrastruttura della vita umana. In cambio, quando sono gli altri i minacciati dallo spettro della povertà, allora tendiamo a sublimare la loro situazione, giungendo magari a dire che "il baraccato o l'operaio senza lavoro sicuro è povero, sì, ma è felice; e vale di più la felicità nella povertà che la ricchezza con angustie".

Con tali apprezzamenti soggettivi e pseudomistici l'unico risultato che possiamo conseguire è di addormentare la nostra coscienza, mentre la mensa dei nostri baraccati ed operai continua a mancare delle cose più elementari e i loro figli continuano a essere sottoalimentati ed anemici; cioè passiamo sopra alla cattiveria umana, la quale appunto porta con sé la povertà materiale. Per la Bibbia è povero l'indigente, l'umiliato il debole il disgraziato il condannato alla miseria. Tutto ciò appare nella Bibbia come un male che umilia l'uomo e offende Dio. L'uomo è stato fatto signore della terra, non suo schiavo.

Fu creato a immagine e somiglianza di Dio: offendendo l'immagine si offende il suo autore, cioè Dio stesso. “Il povero e afflitto si dirige a Dio con una preghiera amara, irosa, a volte con tracce di bestemmia. Ciò suppone, naturalmente, che la povertà materiale produca un vuoto religioso nel cuore umano[1] 

L'Ecclesiastico osserva molto acutamente:

"Non distogliere lo sguardo da chi chiede e non offrire a nessuno l'occasione di maledirti, perché, se uno ti maledice con amarezza, il suo Creatore esaudirà la sua preghiera" (Sir 4,5-6).

L'Esodo si esprime con parole commoventi:

"Non molesterai il forestiero né l'opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto. Non maltratterai la vedova né l'orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l'aiuto io ascolterò il suo grido... Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando invocherà da me l'aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono pietoso" (Es 22,20-26).

E il Deuteronomio raccomanda:

"Poiché i bisognosi non mancheranno mai nel paese, io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e indigente nel tuo paese" (Dt 15,11).

Le imprecazioni e i lamenti del povero contro Dio non significano, nella Bibbia, rifiuto della sua persona ma non accettazione della povertà disumanizzante perché Dio stesso non la vuole, dato che contraddice al disegno divino. Pertanto Dio non le ritiene come peccato, ma come suppliche dolorose.

I profeti lotteranno contro la povertà degli umili. Isaia proclama questa tesi fondamentale:

"Non è forse questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi dal tuo simile?" (Is 58,6-7).

Il Messia sarà il liberatore "del povero che supplica, dell'infelice che nessuno protegge". Il Regno di Dio implica la liberazione dalla povertà e la realizza; infatti al suo instaurarsi i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, e sono beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati (Lc 4,2; 7,22). Negli Atti degli Apostoli si adduce come dato altamente positivo della Chiesa primitiva il fatto che "non vi erano poveri tra loro" (At 4,34).

In sintesi: la povertà è un male. Per la Bibbia essa è un modo di manifestarsi della morte nella vita umana, giacché per morte non si deve intendere solo l'ultimo istante della vita ma tutto ciò che sminuisce, limita, umilia, offende, abbrevia l'esistenza umana. La povertà contraddice il disegno storico di Dio e perciò non può essere il senso di un progetto umano. Nessuno è povero per la povertà in se stessa. Se uno si fa povero è per altre motivazioni, e non per esaltare la povertà come un ideale umano. Con ragione San Tommaso d’ Aquino diceva: “la povertà non è un bene in se stessa[2]. Nel Regno di Dio non ci sarà posto per essa. Deve, pertanto, essere bandita.

  1. LA RICCHEZZA, UN MALE CHE DISUMANIZZA E CHE DIO NON VUOLE

Presentare la povertà come un male significa allora che il suo correlativo opposto, la ricchezza, è un bene? E interessante costatare che sia nell'Antico Testamento come nel Nuovo, la ricchezza è condannata come un male che rende l’uomo incapace di Dio e del suo Regno.

Amos, il profeta pastore, rimprovera aspramente i notabili del regno del Nord:

"Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Questi notabili della capitale delle nazioni, ai quali si recano gli Israeliti... Essi su letti d'avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla...bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Gerusalemme non si preoccupano..." (Am 6,1-6).

Abacuc, altro profeta impetuoso, anatemizza egli pure le ricchezze:

"La ricchezza rende malvagi; il superbo non sussisterà; spalanca come gli inferi le sue fauci e, come la morte, non si sazia; attira a sé tutti i popoli, raduna per sé tutte le genti... Guai a chi accumula ciò che non è suo e si carica di pegni già dati in garanzia!" (Ab 2,5-6).

Il Nuovo Testamento è ancora più deciso nella condanna della ricchezza: "Guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che ora siete sazi, perché soffrirete la fame" (Lc 6,24-25). L'uomo ricco che dice dentro di sé: "Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia" riceve le seguenti invettive di Gesù: “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita; e quello che hai preparato per chi sarà? Così è per chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio" (Lc 12,16-21). Ed anche: "Nessuno può servire a due padroni... Non potete servire a Dio e alle ricchezze" (Lc 16,13). In san Luca Gesù qualifica la ricchezza come "ingiusta e cattiva" (Lc 16,9), e i farisei, che erano attaccati al denaro e si burlavano di Gesù, odono, in un contesto di critica alle ricchezze, questa sua sentenza: "Ciò che è stimabile fra gli uomini è detestabile davanti a Dio" (Lc 16,15).

Si dirà che il senso della ricchezza è di dare sicurezza e libertà all'uomo. Ma Gesù smaschera tale apprezzamento nella parabola del ricco insensato (Lc 12,16- 21). All'inizio della parabola Gesù propone in anticipo suo significato e la lezione che racchiude: "Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell' abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni" (Lc 12,15). E subito dopo la parabola esplicita alcuni ammonimenti molto opportuni sul senso della vita umana e della vera sicurezza, che risiede solamente in Dio: "La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito... e gli uomini contano assai più degli uccelli, che pure il Padre nutre" (Lc 12, 22-31). "Non accumulate tesori sulla terra" dice ancora il Signore (Mt 6,19; Lc 12,33); e san Paolo nella sua prima lettera a Timoteo esprime una condanna radicale:" L'attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali" (1 Tm 6,10).

  1. GIUSTIFICAZIONE DI UNA DUPLICE CONDANNA

La condanna uguale e congiunta della povertà e della ricchezza può sembrare sorprendente. Ma ha la sua profonda ragion d' essere.

3.a) Una dialettica di confronto

Sia l'Antico Testamento e sia Gesù non considerano mai la povertà e la ricchezza in astratto, come entità a sé stanti o come situazioni neutre e innocue. La ricchezza e la povertà non si producono per generazione spontanea. Leggendo attentamente la Bibbia è facile rilevare quanto poco si parla di povertà e ricchezza come sostantivi astratti. Al contrario, si parla molto di ricco e di povero come sostantivi concreti, come realtà storiche.

La povertà e la ricchezza nascono nel contesto concreto di alcune determinate relazioni interpersonali, attraverso la mediazione dei beni materiali. Povertà e ricchezza appaiono come elementi di una relazione dialettica: si coinvolgono mutuamente. La povertà è impoverimento; la ricchezza è arricchimento. C'è una ricchezza cui si giunge impoverendo gli altri, spogliandoli, conculcando la loro dignità, rubando i loro beni in conseguenza, privandoli delle condizioni materiali necessarie per una vita umanamente degna. Questa povertà denuncia una situazione di ingiustizia. come anche l’ esistenza di una ricchezza disonesta, giacché questo impoverimento non è se non frutto di uno smisurato guadagno dei ricchi. Detta povertà non è affatto un bene dal momento che proviene da un male.

Che qualcuno, in situazione di povertà, possa conservare la sua dignità umana, rinunciando a ogni spirito di vendetta e di cupidigia, è frutto non della povertà come tale, ma di quella inesauribile grandezza umana che è capace di superare e trascendere qualsiasi situazione concreta. Non è grazie alla povertà, ma nonostante essa, che l'uomo conserva la sua dignità.

Di conseguenza, non pretendiamo giustificare teoricamente la povertà a partire da questa dignità umana vissuta e conservata malgrado il male ch'essa comporta.

Piuttosto, a motivo dell'inviolabile dignità di ogni persona, si deve combattere la povertà e non per contrapporla alla ricchezza proponendo questa come ideale, ma per cercare relazioni più giuste tra gli uomini, relazioni tali che rendano praticamente inattuabile la esistenza di ricchi e poveri.

Vogliamo evocare alcuni testi biblici, in specie profetici, nei quali appare sufficientemente chiaro questo richiamo dialettico e autoimplicativo della povertà con la ricchezza e viceversa.

Il profeta Isaia proclama:

"Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per spogliare gli orfani" (ls 10,1-2).

Il profeta Amos denuncia che la povertà è frutto d'ingiustizia:

"Così dice il Signore: per i tre misfatti di Israele e per i quattro sarò inflessibile: perché hanno venduto il giusto per il denaro e il povero per un paio di sandali; essi che calpestano come polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri" (Am 2,6-7).

Giobbe segnala con indignazione profetica la causa della povertà:

"I malvagi spostano i confini. rubano le greggi e le conducono al pascolo; portano via l'asino degli orfani, prendono in pegno il bue della vedova. Spingono i poveri fuori strada, tutti i miseri del paese vanno a nascondersi. Come onagri nel deserto escono per il lavoro; di buon mattino vanno in cerca di vitto, la steppa offre loro cibo per i figli... Nudi passano la notte, senza panni, non hanno da coprirsi contro il freddo..." (Gb 24,2-12)

Abacuc segna col dito alzato gli usurai che ammucchiano roba non loro e accumulano beni già dati in pegno (Ab 2,6-8).

E tutta la letteratura profetica si presenta piena di accuse contro il commercio fraudolento, lo sfruttamento, l'occupazione violenta delle terre, le imposte e i gravami ingiusti, l'oppressione esercitata dalle classi dominanti.

La parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro chiarisce in modo definitivo la relazione antitetica tra i due stati (Lc 16,19-31). Zaccheo si converte e si redime restituendo quanto aveva rubato e con cui si era arricchito.

San Giacomo avverte con somma chiarezza: i ricchi opprimono i poveri e li trascinano davanti ai tribunali; non pagano il salario agli operai che hanno mietuto le loro messi; condannano e uccidono il giusto... (Gc 2,6; 5,4- 6).

Questi testi evidenziano che non si tratta né una condanna dei beni terreni né di un elogio della povertà. Si condanna la ricchezza perché è causa della povertà. E si rigetta la povertà perché è uno scandalo sociale e perché è segno ed effetto di una situazione di ingiustizia. I beni devono essere equamente ripartiti a tutti. La condanna della ricchezza e della povertà esprime, in fondo, una valutazione positiva dei beni materiali che, per l'inadeguata relazione degli uomini tra loro, non sono distribuiti con giustizia ed equità. L'ideale biblico e cristiano non consiste nel cercare o promuovere una società ricca, ma nel creare una società più giusta. Quando manca la giustizia, mancano insieme altri beni e valori e nascono le divisioni e le classi - i ricchi e i poveri - , prolificano gli odi, le ambizioni e l'idolatria. Con l'instaurarsi della giustizia non vi saranno più ricchi e poveri quale scandalo che umilia l'uomo e offende Dio.

San Luca nelle Beatitudini (Lc 6,20-26) si pone chiaramente dentro la concezione sopra esposta, secondo la quale sono recriminate tanto la ricchezza quanto la povertà a causa delle inadeguate condizioni di vita umana e divina a cui hanno dato luogo. Chiama beati i poveri, gli affamati, quelli che piangono, i perseguitati ed esiliati perché si farà loro giustizia e saranno saziati, rideranno, riceveranno la loro ricompensa. Con questo non si sta forse rifiutando la fame, la povertà, la tristezza la persecuzione? E immediatamente san Luca, alle quattro beatitudini contrappone le quattro minacce: ”Guai a voi ricchi, guai a voi che siete sazi, guai a voi che ora ridete, e guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi!”. Non si sta forse qui rifiutando e respingendo la ricchezza?

 

3.b) Una dialettica alienante

C'è una seconda ragione per cui sono da respingere, e si respingono di fatto, la ricchezza e la povertà. La ricchezza, per il potere che conferisce, tende a erigersi in valore assoluto. Il denaro esige d'essere adorato. Tende ad assorbire tutta la vita a causa delle preoccupazioni che comporta per conservarlo e incrementarlo. Di qui l'avvertimento di Gesù: "Non potete servire due padroni". Nel linguaggio attuale diremmo: non potete avere due assoluti nella vita: o Dio o il denaro (Lc 16,13; Mt 6,24). La ricchezza offre una falsa sicurezza, contro la quale Cristo ci previene (Lc 12,15). Ai ricchi di questo mondo l'autore della prima lettera a Timoteo raccomanda che "non pongano la loro speranza sull'inconsistenza delle ricchezze, ma in Dio" (1 Tm 6,7). La ricchezza disumanizza. I beni materiali materializzano lo spirito e distruggono la sua capacità di apertura agli altri e di comunione con Dio. La povertà, a sua volta, suole dar luogo a ogni tipo di miseria, di infermità e di fame, a turbamenti psicologici, a disarticolazioni negli individui e nelle famiglie; porta all' odio e alle risse, al furto e ad altri crimini, alla bestemmia contro Dio e alla disperazione. Essendo frutto del peccato, inclina e incita al peccato. I ricchi che sono tali ingiustamente, non sono forse responsabili della malvagità e della violenza perpetrati dai poveri e umiliati?

Concludendo, si può affermare che per i profeti, per Gesù e per i cristiani di oggi, il povero costituisce il punto di partenza per sottoporre a giudizio la società con le sue ricchezze e comodità. Nel povero percepiamo l'inumano e l'ingiusto della povertà e l'indegno della ricchezza.

Ci rendiamo conto che l'una genera l'altra. La radice della povertà non sta nella mancanza di fortuna né nella pigrizia né nella cattiva volontà circa il lavoro, ma sta nelle relazioni ingiuste, nell' eccessiva inquietudine per i guadagni, nel furto, nella frode, nell'estorsione e nello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Questo è lo spirito che genera le due classi di ricchi e poveri.

Non vi sarà una società più umana, più equa, più fraterna senza una profonda conversione nella rinuncia allo spirito di possesso di profitto di sicurezza, di accumulo di beni. Solo in una società dove si giunga a mantenere in pieno vigore le relazioni di giustizia e di amore tra gli uomini, la ricchezza giungerà a essere un bene. Però non per potere che offre, ma per il sollievo e la liberazione che conferisce. Ci libera infatti dalla necessita e dalla preoccupazione di vivere in vista di come sopravvivere; offre possibilità e garanzie di salute, di una adeguata istruzione di più facile comunicazione e comunione tra uomini, paesi e continenti.

L'ideale che il cristianesimo propone non è una società in cui si esalti la povertà o la ricchezza, ma una socIetà in cui si realizzi la giustizia e la carità fraterna. E’ l’ ideale che presenta san Luca nel capitolo quarto degli Atti degli Apostoli, quando descrive la comunità di beni dei primi cristiani, grazie alla quale non c'era povero tra loro (At 4,34). La proposta lucana non è il distacco e la povertà collettiva ma a carità fraterna. “Questo ideale si traduce non in amore alla povertà, ma in amore ai poveri e conduce non a farsi poveri, ma a vegliare perché nessuno soffra necessità".[3]

  1. BEATI I POVERI

Prima di analizzare lo spirito nuovo con cui si tenta di superare tanto la povertà quanto la ricchezza - spirito animato dalla sete giustizia e dalla carità fraterna - sarà conveniente studiare una questione che è stata e continua a essere causa di non poche incomprensioni, avendo messo in moto i meccanismi di una giustificazione teorica e idealizzatrice della povertà. La questione è questa: Che significato hanno le parole di Gesù, secondo la versione di san Luca, quando dice: "Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio" (Lc 6,20)?

4.a) Chi sono i poveri?

È il primo quesito che si presenta: Chi sono i poveri? Sono forse gli indigenti di beni materiali in relazione ai quali si definisce il nostro dovere di fare elemosina, secondo ciò che dice lo stesso Gesù al giovane ricco: “Vendi quello che hai e dallo ai poveri”? (Mc 10,21; Le 18,22; cf pure altri testi: Mc 12,42; 14,5-7; Mt 26,9-11; Lc 16,20-22; Gv 13,29).

"Si può credere che Gesù abbia proclamato beata una classe sociale? Presenta forse in qualche circostanza, il Vangelo, l'apparenza di un manifesto sociale? Nessuno stato sociologico è stato canonizzato da lui, né in quanto sociologico è stato mai da lui posto in relazione col Regno. Solamente una situazione spirituale può accogliere un dono spirituale. Solamente la fede fiduciosa apre l'uomo alla grazia di Dio. E questa apertura si denomina apertura di povertà spirituale". [4] Cristo si è diretto a tutte le classi sociali e non solo ai poveri. I poveri ai quali annuncia il vangelo sono coloro che presentano una disponibilità e sono aperti di cuore, senza legami con una situazione di classe economicamente sfavorita. I poveri, secondo questa interpretazione, sono i veri poveri di spirito.

Però questa interpretaziione sembra inesatta, moralizzante e spiritualista. Non sembra situarsi nel testo e contesto lucano delle beatitudini. Di fatto in esse non si parla solo di poveri. Si parla anche di chi ha fame, di quelli che piangono, dei perseguitati, calunniati o esiliati (Lc 6,22). In altri passi si fa allusione ai ciechi, zoppi, lebbrosi e variamente oppressi (Lc 4, 18- 19; 7,22). La missione di Cristo è in relazione con tutti questi umiliati e offesi. Egli è venuto per liberarli. La salvezza si manifesta già con la liberazione da tali situazioni, certamente dure e per nulla spiritualizzanti la vita umana.

Pertanto, sono considerati poveri, qui, quelli economicamente tali, gli emarginati a causa della loro infermità o a causa di pregiudizi sociali e i religiosi. Joachim Jeremias, uno dei migliori specialisti circa la problematica sociale ed economica ai tempi di Gesù, ha scritto:

"Con tutta certezza i poveri sono per Gesù gli oppressi in ogni senso: coloro che, umiliati, non possono difendersi; i disperati; quanti non hanno salvezza... Per Gesù povero ha il senso, già usato dai profeti, d'uomo disgraziato o sfavorito, che include gli oppressi e i poveri che sanno stare totalmente a disposizione dell' aiuto di Dio. Tutti coloro che soffrono per qualche necessità - gli affamati e assetati, i nudi, gli stranieri, gli infermi, i carcerati - figurano tra i più piccoli e sono suoi fratelli" (Mt 25,31-46).[5]

La beatitudine afferma che di questi poveri concreti è il Regno di Dio. Qui sta il segreto che ci apre, alla comprensione del perché del privilegio dei poveri. E necessario non perdere di vista le immagini o rappresentazioni che l'espressione Regno di Dio destava nel popolo giudaico all'udirla dalle labbra di Gesù. Per tutto il Medio Oriente antico, come anche per Israele, la funzione primordiale del re consisteva nel far giustizia ai sudditi oppressi e sfruttati dai ricchi e potenti. Secondo i Salmi e i Profeti, particolarmente Isaia (61,1-2) e Michea (4,6-7), il Messia atteso sarà un Messia dei poveri:”Farà giustizia agli oppressi del popolo, salverà i figli dei poveri e abbatterà l'oppressore" (Sal 72,2-4). "Egli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto" (Sal 72,12-14). Sarà "consacrato con l'unzione dello Spirito di Jahveh per annunciare la buona novella ai poveri, per fasciare le piaghe dei cuori spezzati, per proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri... per consolare tutti gli afflitti e allietare quelli che piangono in Sion, per dar loro una corona invece di cenere, olio di letizia invece di abito da lutto, canto lode invece di uno spirito mesto" (ls 61,1-3; 11,1).

Il Re messianico assicurerà la giustizia del povero di fronte al suo oppressore. La magnanimità del Re si estenderà a tutti. Questa è la buona novella per tutti i Poveri: è arrivato il giorno della giustizia. Allora sarà rivelata l'iniquità della ricchezza e della oppressione e sarà manifestata insieme l'ingiustizia dello stato di povertà. Il Messia farà valere i diritti del debole contro il forte che l’opprime. Di loro è Regno di Dio significa che essi saranno i primi beneficiari dell'irruzione del Regno, che è un nuovo ordine di giustizia ed equità , di superamento delle classi ricche e povere.

4.b) La loro beatitudine

“La ragione del loro privilegio non deve ricercarsi nelle loro disposizioni spirituali ma nel modo in cui Dio concepisce la sua regalità. Beati i poveri, non perché essi siano migliori degli altri e siano meglio preparati a ricevere il Regno, ma perché Dio vuole fare del suo Regno una splendida manifestazione della sua giustizia e del suo amore in favore dei poveri, di quanti soffrono o si trovano in qualche travaglio. Il privilegio dei poveri ha il suo fondamento teologico in Dio. È un errore pretendere di porlo nelle disposizioni morali dei poveri, obbligandosi così a spiritualizzare la loro povertà. La povertà di coloro a cui Gesù annuncia la buona novella del Regno di Dio è colta come una condizione umana sfavorevole, che rende i poveri vittime della fame e della tirannide. E un male, e proprio per questo le sofferenze e le privazioni dei poveri si presentano come una sfida alla giustizia regale di Dio. Perciò Dio ha deciso di mettervi fine”.[6]

Inoltre il termine poveri ha un senso concreto e storico: quello di una situazione provocata dalla ingiustizia che offende Dio e umilia la sua immagine che è l'uomo. Predicando la buona novella ai poveri, Gesù garantisce loro che saranno liberati dalla disgustosa situazione in cui versano. Essere povero per san Luca non è un ideale: è un qualcosa che dev'essere superato, come deve essere eliminata l'ingiustizia e il peccato.

Allora, che significato ha l'altra versione dataci da san Matteo: "Beati i poveri di spirito perché di essi è il Regno dei cieli"? (Mt 5,3). Prima di rispondere a questa domanda converrà mettere in evidenza il fatto che, delle ventiquattro volte che la parola povero si trova nel Nuovo Testamento, ventuno volte vi compare con il significato di uomo necessitato di beni materiali e in conseguenza meritevole di aiuto. Così anche nella prima lettera di san Giovanni vi appare con questo senso: "Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude il cuore, come dimora in lui l'amore di Dio?" (1 Gv 3,17)

In san Matteo incontriamo invece un altro significato della parola povero: come un modo di essere spirituale e positivo. Essere povero è essere umile, mansueto di cuore, mendico davanti a Dio al punto che non avendo nulla di proprio, è capace di ricevere tutto dall’Altissimo. Tale senso era già presente nell'Antico Testamento; in esso, per esprimere questa disposizione spirituale, si usava il termine anaw. Questo nuovo significato assunto da Matteo si trova in tutte le beatitudini. Infatti, come parla di poveri in spirito, egli parla anche di coloro che hanno fame e sete di giustizia, dei perseguitati per causa della giustizia (Mt 5,10- 11). Ci troviamo quindi su un altro piano.

Perché Luca adotta un senso e Matteo ne adotta un altro? Per ora teniamo presente che l'uno e l'altro senso sono veri. L'esegesi conferma che la formulazione di Luca si riferisce ai poveri semplicemente: è la più antica, proveniente dal Gesù storico. A dire il vero, nemmeno Matteo disconosce questa formulazione semplice, senza l'aggiunta di in spirito. Lo dimostra quel passo in cui si narra che Giovanni Battista manda i suoi discepoli a domandare a Gesù se sia lui il Messia promesso, a cui Gesù dà questa risposta: "I ciechi vedono, gli zoppi camminano... e i poveri sono evangelizzati" (Mt 11,5). L'aggiunta "in spirito" è propria di Matteo e molto probabilmente non proviene dal Gesù storico, sebbene risponda, come vedremo, alla sua mentalità, poiché Gesù volle veramente instaurare uno spirito nuovo che rendesse impossibili la ricchezza e la povertà come dimensioni dialettiche contrapposte. Tale spirito resta chiaramente esplicitato e definito nelle beatitudini di Matteo. Del resto, ambedue i sensi della povertà erano già profondamente radicati nella tradizione teologica del giudaismo: povertà come oppressione e povertà come umile sottomissione a Dio.

Motivi o ragioni molto concrete dovettero muovere Luca ad adottare il senso dell' oppressione e Matteo ad adottare quello dello spirito di umiltà. Nella comunità di Matteo, nella quale vi erano molti giudei e giudaizzanti, si correva il pericolo di cadere nella tentazione del fariseismo, legato alla ricerca della propria giustizia, all' orgoglio e alla autosufficienza davanti a Dio. Di qui l'insistenza di Matteo sulla povertà-umiltà di spirito e sulla fame e sete di giustizia, che sono contrapposti a ogni specie di orgoglio. Nella comunità di Luca, invece, era palese la differenza di classi: vi erano ricchi e poveri e c'erano relazioni di effettiva oppressione. Di qui la forte accentuazione di Luca sulla povertà-ingiustizia e sulla necessità di realizzarsi del Regno di Dio, che è regno di giustizia, di amore e di pace e che è manifestazione del potere di Dio che ripara e rinnova le relazioni umane difettose, liberando i poveri dalla tirannia. [7]

Ma l'una e l'altra prospettiva, l'uno e l'altro senso, anche se differenti, sono essenziali e si coinvolgono reciprocamente. Da un lato, l'impegno a vincere la povertà-oppressione senza un atteggiamento i povertà-umiltà spirituale non sarebbe vera giustizia e liberazione dei poveri.

Dall’altro lato, l'atteggiamento di povertà-umiltà spirituale senza l'impegno per superare la povertà-oppressione non sarebbe che una mistificazione del senso evangelico della povertà e un modo raffinato di continuare ad essere ricchi facendo bei discorsi sulla povertà.

  1. LA POVERTÀ COME RICCHEZZA AMATA DA DIO E CHE NOBILITA L'UOMO

Qual è la povertà che piace a Dio che eleva l'uomo? Le espressioni precedenti hanno messo in chiaro che tale non è certo la povertà materiale in se stessa, date le condizioni ingiuste che suppone e le limitazioni disumanizzanti che provoca. La povertà che nobilita è quella descritta quando ci siamo riferiti al testo di san Matteo: la povertà di spirito, chiamata anche "d'infanzia spirituale". Forse l'espressione "infanzia spirituale" è più adatta che non l'espressione "povertà spirituale" ad evitare ogni specie di malinteso e ogni mistificazione teologica che abbiano la pretesa di giustificare tanto uno stato di povertà quanto uno di ricchezza materiali. Ma non è in nostro potere controllare il valore e la validità delle parole. Povertà nella tradizione biblico-cristiana ha anche un senso che non è immediatamente legato con l'avere e non avere e coi beni materiali dai quali si definisce il povero e il ricco come classi differenti: appunto la povertà come umiltà e atteggiamento d'infanzia spirituale.

5.a) Povertà come atteggiamento di umiltà

Povertà, quindi, significa anche capacità di accogliere Dio riconoscendo la radicale nullità della creatura, il vuoto umano davanti alla ricchezza dell' amore divino. Povertà è sinonimo di umiltà, di distacco, di vuoto interiore, di rinuncia a ogni atteggiamento di autosufficienza. L'opposto di povertà, in questo senso non è la ricchezza. E’ L’orgoglio, l’autosufficienza, l’autoaffermazione dell'io, la chiusura a Dio e agli altri.

Evidentemente In questo senso uno può essere povero materialmente e non esserlo spiritualmente perché orgoglioso e superbo. Al contrario, uno può essere ricco materialmente ed essere povero nello spirito perché aperto a Dio e agli altri, vivendo la solidarietà con i meno favoriti di beni e dando un senso alle ricchezze avute in eredità. La povertà sotto questo aspetto è presentata come un ideale dalla Bibbia e da tutti i maestri di spirito. Il profeta Sofonia ammonisce il popolo: "Cercate il Signore, voi tutti poveri della terra che eseguite i suoi ordini; cercate la giustizia, cercate l'umiltà" (Sof 2,3).

La povertà come umiltà, contrapposta all' orgoglio, si trova chiaramente attestata dallo stesso Sofonia:

“In quel giorno non avrai vergogna di tutti i misfatti commessi contro di me, perché allora eliminerò da te tutti i superbi millantatori e tu cesserai di inorgoglirti sopra il mio santo monte. Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero; confiderà nel nome del Signore il resto d'Israele”. (Sof 3,11-13 a)

Appare qui con chiarezza più che sufficiente l'opposizione tra l'orgoglioso e arrogante che confida nelle proprie forze e l'umile e semplice che pone la sua fiducia in Dio: questi e non quello è il povero.

Insistiamo su questo punto: non si tratta di una idealizzazione della povertà materiale. Povertà è presa qui in altro senso: un modo di situarsi di fronte a tutte le cose considerandole come venute da Dio; un atteggIamento ontologico, e non solo psicologIco, che rende l'uomo capace di mantenersi sempre unito e aperto a Dio, qualunque sia la sua situazione sociologica. Evidentemente colui che è povero di beni temporali si trova in una posizione che favorisce maggiormente l'apertura e la fiducia verso Dio. Non possedendo nulla, è più disposto ad attendere tutto dalla Provvidenza. Il ricco di beni materiali inciampa in maggiori difficoltà per confidare e sperare in Dio. Possiede beni che lo soddisfano, lo occupano e preoccupano, perciò non sente il bisogno di Dio per sopravvivere economicamente. Per questo Gesù avverte:

"Guai a voi ricchi, perché avete già la vostra ricompensa... Quanto è difficile per coloro che possiedono ricchezze entrare nel Regno dei cieli! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno di Dio" (Lc 6,24; 18,24-25).

La povertà materiale continua a essere un male. Tuttavia può offrire l'occasione di una insospettata fecondità religiosa, dando all'uomo l'opportunità di rimettersi fiduciosamente in Dio, che gli renderà giustizia.

I Salmi specificano ancor più il senso della povertà-umiltà.

Nel Salmo 34 si dice che i poveri sono “coloro che si rifugiano in Dio” (v 9), “coloro che lo cercano” “ (v. 11). Nel salmo 37 si ripete che i poveri sono quelli che “sperano nel Signore” (v. 9), “i giusti” (v. 17), “gli integri” (v. 18), “i fedeli” (v. 28), “i retti e incensurabili” (v. 37) e si afferma che “i poveri erediteranno la terra e fruiranno di ogni bene” (v. 11). Nel salmo 34 c’è anche l’affermazione che “quando il povero invoca il Signore, egli lo ascolta e lo libera da tutte le sue angosce” (v. 7).

5.b) Povertà materiale come ascesi per la povertà-umiltà

La povertà-umiltà non è questione di semplice desiderio o di pura volontà. Bisogna essere realisti, senza dimenticare il senso storico che la povertà implica. Di conseguenza, è necessario a portare le condizioni materiali che rendano possibile la pratica questa povertà-umiltà. E’ qui dove ha luogo l' ascesi, che non richiede disprezzo dei beni , il che sarebbe un male, ma un uso parco e moderato dei beni, restando liberi. Sia dalla miseria e sia dalla opulenza, ambedue schiavizzanti.

In questa prospettiva dovranno intendersi gli ammonimenti di Gesù contro l'accumulo di ricchezze, per l'eccessiva preoccupazione che porta con sé, per la dimenticanza di Dio che fomenta e per la tentazione di idolatria in cui fa inciampare con estrema facilità (Lc 12,15 e 22; 18,25). Il quantum dell'ascesi, per così chiamarlo, di fronte ai beni materiali non può essere determinato aprioristicamente. Dipende dal sistema economico vigente, dal luogo e dalle persone.

Ad ogni modo, questo quantum dovrà essere ciò che ci permette di ricordare e vivere costantemente Dio come l'unico Assoluto e Necessario ed il prossimo come la presenza dell’Assoluto nella storia. Solo in un atteggiamento di ascesi si può vivere realisticamente la povertà-umiltà. Questa ascesi può praticarsi. Anche da una persona che maneggia grandi ricchezze. Grazie a tale ascesi può essere libera di fronte ad esse e avere la possibilità di dar loro un senso sociale e di comunione con gli altri uomini.

5.c) La povertà come impegno contro la povertà

La povertà-umiltà come totale vuoto e completa disponibilità davanti a Dio non può a sua volta essere mistificata e idealizzata per nascondere una situazione storica in cui si danno pochi ricchi e molti poveri. Quando si è veramente aperti a Dio ci si sente spinti a impegnarsi alla instaurazione della giustizia nel mondo. L’incontro con Dio sollecita l’incontro con i molti nei quali Dio si sente offeso per la miseria, la fame , la violenza. L’incontro con i poveri costituisce, a sua volta, un’interpellanza per un incontro esigente con Dio. La povertà-peccato porta il povero-umile a un impegno e a uno sforzo per superarla. Lottare per la giustizia nelle relazioni interumane e nella distribuzione più equa dei beni terreni è una delle forme che assume, o deve assumere l’esperienza concreta della povertà-umiltà.

Abbiamo accennato come, per il Nuovo Testamento e secondo le beatitudini, i poveri siano dei privilegiati nel Regno di Dio, dato che per essi comincia a realizzarsi e a manifestarsi ciò che propriamente significa il Regno. Dio fa giustizia restituendo loro la dignità di cui sono stati derubati. Ci chiediamo ora: Come avverrà questo? Non pensiamo a un intervento divino, come se dovessimo sperimentare ogni giorno i suoi miracoli. Non è questo il modo normale dell' azione storica di Dio. Egli interviene sacramentalmente, cioè utilizzando l'impegno umano. I credenti dovrebbero essere, a maggior ragione, gli strumenti-sacramenti responsabili del superamento della povertà-peccato. E in quelli che si impegnano in tal modo, nel loro lavoro, che si nasconde l'azione di Dio. La nostra storia di liberazione è il luogo dove si concretizza la storia del Regno.

La povertà-umiltà reclama un impegno contro la povertà- peccato. Tale impegno si effettua su due piani distinti, avallati dalla stessa Sacra Scrittura.

Innanzi tutto, sul piano della elemosina. Il Nuovo Testamento abbonda di inviti alla elemosina come modo di solidarizzare con il povero: "Date in elemosina ciò che possedete, ed ecco tutto sarà mondo per voi" (Lc 11,41). Gesù inoltre consiglia di dare a chiunque chiede, senza speranza di ricompensa (Lc 6,30-38). Ma questo modo di impegnarsi ha molti limiti. Non sopprime, di fatto, lo stato di divisione tra ricchi e poveri. Arriva solo a fare del ricco un uomo generoso, il quale, però, continua ad essere ricco mantenendo la sua situazione di classe.

In secondo luogo, questo impegno si effettua su un altro piano, in cui si pretende di arrivare più lontano. È il piano dell' assunzione volontaria della povertà, distaccandosi dai beni. Questo lo si realizza, non perché si veda nella povertà in sé un bene degno d'essere cercato, ma come movimento e dinamismo impregnato di carità e come impegno con i poveri, per unirsi a loro nella lotta al fine di soppiantare la povertà in ciò che ha di disumanizzante. La povertà si cura con la povertà. Quando la povertà-peccato viene generata per mancanza di amore e di solidarietà, solo l'amore che si impegna e la solidarietà che si fa concreta, arriveranno a essere la sua effettiva forza di liberazione. Al riguardo scrive assai bene Gustavo Gutiérrez: [8]

"Non si tratta di idealizzare la povertà, ma, al contrario, di prenderla per quello che è: come un male, per protestare contro di essa e sforzarsi di abolirla. Come dice Paul Ricoeur, non si sta realmente con i poveri se non si lotta contro la povertà. Grazie a questa solidarietà - fatta gesto imprescindibile, stile di vita, rottura con la propria classe sociale d'origine - si potrà contribuire a che i poveri e gli espropriati prendano coscienza della loro situazione di sfruttamento e cerchino di liberarsene. La povertà cristiana, espressione di amore, è solidarietà con i poveri ed è protesta contro la povertà.

Il distacco totale esigito da Gesù deve intendersi dentro questa dinamica d'impegno, non meno totale, verso i poveri del Regno.

  1. GESÙ, IL RICCO CHE SI FA POVERO

I tre sensi positivi della povertà: come umiltà, come ascesi e come impegno furono vissuti radicalmente da Gesù. La sua famiglia era povera ed egli lo fu in tal modo, da non avere una pietra dove posare il capo (Lc 9,58). Egli vive di elemosine e del frutto della pesca dei suoi discepoli. Predica e va facendo del bene in ogni parte fino al punto di non disporre nemmeno di tempo per mangiare (Mc 6,31). E’ povero anche del suo tempo, dal momento che non cessa di ricevere ed accogliere tutti coloro che lo vogliono e lo cercano: "Se qualcuno viene a me, io non lo scaccerò" (Gv 6,36).

Senza dubbio, anche per Gesù il mancare di beni non costituisce un valore in sé. Come già abbiamo notato, se egli esalta i poveri non è perché non posseggono niente, ma perché possono ricevere tutto da Dio, che vuole far loro giustizia. Poiché è libero, Gesù accetta di mangiare con amici ricchi, fino al punto di rendersi sospetto (Mt 11,19). Accetta gli inviti dei suoi ospiti come un modo di concretizzare l'amore di Dio a tutti gli uomini, senza escludere gli stessi peccatori ricchi.

Figlio di Dio, egli si annientò accettando la condizione di semplice mortale (Fil. 2,6-7). Visse nella più intima relazione con Dio Padre, dal quale ricevette tutto: la missione, i discepoli, il Regno, la gloria: "Nulla faccio da me stesso" (Gv 5,30; 5,19; 8,29). Tutta una vita nella realizzazione della povertà-umiltà in un senso radicale e non solo morale. Vive in tal maniera dipendente da Dio che si sente e proclama suo Figlio. E, cosciente di aver tutto ricevuto dal Padre, tutto dona agli altri. Dà la sua vita e la sua morte. Conquista gli uomini, non con il potere arrogante che soggioga, ma con   il servizio generoso che affascina e seduce.

Cristo si impegnò con i poveri del suo tempo e li difese sempre, senza eludere per questo la polemica e i conflitti, difendendo, ad esempio, il cieco dalla nascita, i lebbrosi, la prostituta, la donna che versò sui suoi piedi il vasetto di alabastro e gli infermi, i quali erano considerati dai canoni d'allora dei peccatori pubblici. San Paolo evoca "la generosità di Gesù Cristo che, essendo ricco, si fece povero per noi, affinché con la sua povertà noi fossimo arricchiti" (2 Cor 8,9). La maggior parte delle circostanze che provocarono la sua morte si devono alla libertà che si prese in favore degli emarginati. La sua morte fu degna perché morì per i molti - per tutti - per coloro per cui nessuno muore. E lo fece per solidarietà, per la nostra causa, come sottolinea san Paolo.

Seguire Gesù è proseguire la sua vita e la sua causa; è "avere gli stessi sentimenti che egli ebbe" (Fil 2,5), che lo portarono ad assumere la situazione dell'altro (Fil 2,6), cioè del peccatore. E l'assunse non per idealizzarla, ma per superarla dal di dentro, per infondere una nuova mentalità che rendesse impossibile la situazione di ricchi e poveri, di oppressi e oppressori.

La povertà-impegno è la forma più elevata dell' amore,perché va incontro all' altro come altro e non come uno della medesima nostra classe o prolungamento di noi stessi.

Essere povero oggi, per la Chiesa e per i cristiani a livello personale, è entrare in un impegno per la giustizia delle grandi maggioranze economicamente impoverite e offese nella loro dignità di uomini e di fratelli. Mettere la propria conoscenza, la parola, l'influenza sociale, i propri beni e la propria presenza storica nella società, al servizio di questi "altri" che costituiscono i "molti" per cui anche Cristo visse e morì, è per la Chiesa un richiamo di coscienza che serve da criterio per valutare il carattere evangelico e liberante della sua azione nel mondo. Questo implica un piano personale - che è un non avere ed esige una ascesi - e un piano comunitario - che è un avere in comune nel senso di condividere; esso postula pure una dimensione spirituale - che è un mantenersi disponibili, nel senso di infanzia spirituale - e postula una dimensione socio- politica - che è un non avere per essere, per solidarizzare con i poveri, camminando insieme ad essi verso una società più giusta e più fraterna.

 


[1] José Maria Gonzales Ruiz, Pobreza evangélica y promocion humana, Barcelona, 1968, p. 31

[2] Contra Gentes, III, 134

[3] Jacques Dupont, I poveri e la povertà nei Vangeli e negli Atti, Bogotà, CLAR 1971, p27

[4] A. Gelin, Los pobres de Yahvé, Barcelona,1965, p 145

[5] J. Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, I, Brescia 1972, p 138

[6] Jacques Dupont, o. c. p. 37

[7] cfr J. Jeremias, o. c. p 134 ss

[8] Gustavo Gutiérrez, Pobreza, solidaridad y protesta, in Teología della liberación CEP Lima, 1971, p 370

Seminario Estivo 2010 di Agire Politicamente in Massa Martana: una nota

Alvaro Bucci

Massa Martana, 18 luglio 2010.

 Sintesi dei lavori

 

Si è tenuto da giovedì 15 a domenica 18 luglio scorso, presso il Convento “La Pace” di Massa Martana, il primo dei “Seminari estivi 2010” programmati dall’Associazione nazionale dei cattolici democratici “Agire politicamente”. “I poveri li avrete sempre con voi?” è stato il tema di questo seminario, dedicato alle tematiche della petizione “Povertà Zero” lanciata dalla Caritas Europea in occasione dell’anno europeo della lotta alla povertà e alla emarginazione. Il seminario si è aperto con una  presentazione del prof. Lino Prenna, dell’Università di Perugia nonché coordinatore nazionale di Agire politicamente, che ha richiamato il significato del 2010 come occasione per i paesi dell’Unione europea per riflettere e riprogettare la strategia di lotta alla povertà fissata a Lisbona nel 2000. Ed ha analizzato quindi le azioni del Governo italiano comprese nell’apposito Programma nazionale per il 2010, valutandone anche l’inadeguatezza delle risorse messe a disposizione.

I previsti lavori di gruppo sono stati coordinati dalla psicologa Maria Grazia Sanzi, dell’Università di Perugia, ed hanno discusso a partire dai quattro obiettivi proposti dalla Caritas Europea, da raggiungere entro il 2015, tra cui quello di garantire un lavoro decoroso a tutti e far scendere la disoccupazione sotto il livello del 5%.

Due le relazioni di approfondimento culturale. Il prof. Prenna ha approfondito la categoria della “giustizia “, essenziale per la lotta alla povertà e all’esclusione sociale, in quanto capace di sanare le disuguaglianze. Ne ha offerto varie definizioni, tra cui quella di “virtù del riconoscimento di ciò che spetta per diritto costitutivo del proprio essere”. Ed ha differenziato questo riconoscimento verso Dio, verso gli uomini (giustizia sociale) e verso la natura, distinguendo poi la giustizia sociale in distributiva, commutativa e legale.

Il sociologo Fabrizio Fornari, dell’Università di Perugia, che ha trattato della  “povertà”, dopo aver distinto la povertà assoluta da quella relativa, si è soffermato ampiamente ad analizzarla  attraverso tre approcci culturali: ontologico, epistemologico e sociologico. Ed ha concluso evidenziando come la sociologia della povertà possa, come funzione più importante, operare “perché la povertà diminuisca per evitare l’esclusione sociale”.

Significative le esperienze presentate dai responsabili per l’Umbria del Movimento dei “Focolari”,  Elio Giannetti  e Sergio Finetti, in particolare sull’economia di comunione che si propone di introdurre nelle attività imprenditoriali il principio della “fraternità” e della “condivisione” attraverso la distribuzione degli utili ai lavoratori  e, nella misura del 30 per cento, ai poveri. (A. B.)


Vedi dossier: Agire Politicamente: i seminari

CATTOLICESIMO DEMOCRATICO E QUESTIONE SOCIALE

vedi Seminari Estivi 2010 di Agire Politicamente

 

Folgarida (TN)

 

Relazioni disponibili:

Registrazioni audio disponibili:

Lino Prenna: “La sollecitudine sociale del la Chiesa italiana nella stagione postconciliare"



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Lino Prenna: “La sollecitudine sociale del la Chiesa italiana nella stagione postconciliare” - Repliche



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Lino Prenna: "Cattolici democratici: la responsabilità di un percorso"
Introduzione ad una discussione comune




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Lino Prenna: "Cattolici democratici: la responsabilità di un percorso"
Discussione comune




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Prof. Paolo Feltrin: La Lega e la questione settentrionale - 1



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Prof. Paolo Feltrin: La Lega e la questione settentrionale - 2



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"Questione sociale, associazionismo cattolico, cattolicesimo democratico"
Tavola rotonda fra Giancarlo Milanese, Lucio Turra, Franco Lorenzon, coordinata da Roberto Grigoletto




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"Questione sociale, associazionismo cattolico, cattolicesimo democratico" - Repliche agli interventi



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