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“UMANITÀ DOMANI”

SOLO UN DIO CI POTRÀ SALVARE?

Faenza

Martedì 13 Marzo 2012 - ore 20:45

Teatro Comunale “Masini” - Piazza Nenni

 

Manifestazione a conclusione dei Confronti d’Autunno 2011, con la partecipazione di:

Enzo Bianchi - Priore della Comunità Monastica di Bose

Massimo Cacciari - Filosofo, Università Vita e Salute, Milano

Introduce

MarcoFerrini - Teologo e parroco

Frammenti musicali di

VALENTINA SILINGARDI (oboe)  e SILVIA VALTIERI (pianoforte)


Organizzata da

SOCIETÀ COOPERATIVA DI CULTURA POPOLARE

BIBLIOTECA “ZUCCHINI”

in collaborazione con

CENTRO DIOCESANO PER LA CULTURA - C.I.D.I. FAENZA

 


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Vedi appuntamento

Volantino dell'iniziativa.

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Davide Turoldo: quanto ci manchi, fratello!

(nel XX anniversario della sua morte)

Ettore Masina

Gennaio 2012

Ero appena tornato dal Salvador, quel sei febbraio 1992, quando qualcuno ci telefonò che padre Davide era morto. Mi sembrò allora che egli avesse camminato con me, in quei giorni, le strade del vescovo Romero. Nessun uomo del Nord della Terra, infatti, che io sappia (e ho letto centinaia di pagine di libri, di giornali, di diari) ha mai vissuto con tanta intensità la carica rivoluzionaria della morte dell’Arcivescovo: la Chiesa dei poveri testimone sino al martirio, davanti a una Chiesa ”moderata”, spesso presidiata da sussiegosi teologi o da politicanti, da burocrati, da superstiziosi, da brontoloni più che da critici, da turisti di tecniche meditatorie più che  da cercatori di nuove solidarietà per chi soffre nei sotterranei della storia.

La morte di padre Davide era un evento annunciato: da anni lo aveva aggredito una tipologia di cancro a quell’epoca incurabile. Lui lo seppe da subito e sembrò sereno. Tra un ricovero in ospedale e un altro, amici e amiche gli si strinsero accanto con un rinnovato affetto ma lui non permise che la malattia oscurasse di “funebri veli” la loro convivialità. Imponeva i vini e i cibi che aveva gustato con loro “prima”: e lui che non poteva neppure assaggiarli era contento se li vedeva gustare.

Questo figlio di una terra di emigranti, più volte costretto all’esilio dalle paure di superiori travolti dalla sua tumultuosa vitalità, riuscì ad essere sempre punto di aggregazione per chi, sensibile al grido dei poveri, si impegnava perché giustizia  e libertà modellassero finalmente il nostro pianeta. Mi domando cosa direbbe oggi dell’acquiescenza di tanti cristiani di fronte a un’Italia in cui un quarto dei cittadini è segnato dalla povertà e a un’Europa in cui ancora una volta i poveri vengono schiacciati dalla violenza dei ricchi e  dei loro “esperti”. Sento la sua voce levata, come la ascoltai per la prima volta sessant’anni fa, nel duomo di Milano, contro la violenza del capitale, le paure del nostro egoismo, la nostra fede senza le opere. Quanto ci manchi, fratello!

*

Qui di seguito un piccolo intervento nel X anniversario della sua morte

DAVIDE TUROLDO: UN UOMO INGOMBRANTE

In “Poesie a Casarsa” Pierpaolo Pasolini ha un’immagine di straziante bellezza per indicare la inevitabilità dell’affievolirsi dei ricordi:

Al ven sempri pì sidìn e alt

il  mar dai âins

Si fa sempre più silenzioso ed alto

il mare degli anni.

E’ una realtà crudele che conosciamo bene: voci che ci sono state carissime, dalle quali abbiamo appreso le parole per vivere, un poco alla volta si riducono a bisbigli, come di malato, poi a povere ceneri nel vento. Tuttavia ci sono persone che per qualche loro caratteristica (per l’amore che gli abbiamo portato, certamente, ma non solo per questo) più tenacemente ci rimangono presenti e vicine.

Padre David Maria Turoldo, come si firmava, Davide, come lo abbiamo sempre chiamato noi amici, è, per molti, una di quelle figure. Come, dopo una sua visita, rimanevano nelle stanze in cui lo avevamo ricevuto, bicchieri vuoti, e libri che ci aveva donato, e carte spiegazzate nella forza di un discorso, e l’eco di grida, talvolta, profetiche, così, a dieci anni dalla sua morte, a me pare che Davide se ne sia andato ieri sera o il mese scorso; che non un mare profondo e silenzioso ci separi da lui, ma un’assenza che non si prolungherà oltre il tramonto o si protrarrà soltanto sino all’eucarestia domenicale. Egli era così ingombrante che è ben difficile persino allo scorrere del tempo riuscire a ridurlo a un’ombra.

Sì, ”ingombrante” è la parola giusta: se vuol dire “che occupa spazio a dismisura”. Davide era così, dal punto di vista fisico, e lo fu sin quasi alla fine del suo Calvario, quando apparve davvero come un crocefisso. Tutti che gli fummo amici ci riconosciamo nella descrizione che ne fecero, negli anni ’60, due suoi, e nostri, compagni: Luigi Santucci: "Altissimo e biondo come un covone, è un goffo arcangelo dalle mani enormi, che sono forse le sue ali mancate, a giudicare da come le sventola e le dibatte". E Nazareno Fabbretti: "Alto quasi due metri, biondo come un vichingo, con una voce dolo­rosa e violenta e due occhi pieni di fatica indistrutti­bile". Penso che non pochi di voi, del resto,  abbiano conosciuto Davide in questa sua torreggiante corporeità e dunque non insisterò sull’ argomento, ma non voglio rinunziare al ricordo sorridente di una certa sera, in casa nostra, a Roma. Era verso la fine del Concilio ed erano i giorni in cui andava emergendo l’impossibilità psicologica per papa Montini di procedere audacemente sulla via della collegialità. Il nostro, quella sera, era un salotto buono in cui un importante gesuita straniero ci parlava in maniera assai fredda di problemi vitali; padre Davide ci raggiunse, sul tardi, come faceva lui, che non tollerava di essere assente a riunioni di amici, anche se alcune si svolgessero in contemporaneità. Sedette in silenzio, ma si capiva che dentro lo agitava una moltitudine di sentimenti: e quando il gesuita nominò Paolo VI, ecco Davide balzare in piedi, spalancare le immense braccia e ruggire: “Questo papa bisogna ucciderlo!”. E il gesuita levarsi anche lui di scatto, guardare l’orologio e dire: “Si è fatto tardi, devo andarmene”…

(Inutile dire che padre Davide amava il papa e scrisse, più volte, su di lui cose toccanti).

Ingombrante fisicamente, e per vortice di passioni, talvolta anche per innocente gigioneria (lo ricordo rientrato dall’esilio londinese con lobbia e ombrello arrotolato, come un impiegato della City...), Davide seppe tuttavia riempire con delicatezza e con irruenza spazî pastorali che il clero italiano, vescovi compresi, sembrava, per lo più, trascurare. Non solo nel periodo della pace giovannea ma ben prima, nell’epoca delle scomuniche, mostrò sempre tenerezza e sollecitudine per i “fratelli atei”, come amava chiamarli, soprattutto per quelli che gli sembravano resi tali dallo scandalo di una Chiesa infedele al suo Fondatore. Seppe stargli accanto apertamente, senza indebite invadenze, come una amorevole presenza  (innanzi tutto laicamente amorevole, se così si può dire), ma che non nascondeva il suo sostrato cristiano; e anche  seppe ascoltarli, ammirarne le doti, cercarne, in una specie di macro-ecumenismo, le comuni ragioni di vita. Pasolini e Vittorini e Sanguineti e Fortini, tanto per fare qualche nome, conobbero in lui, non soltanto la lealtà del collega letterato, ma anche  il sacerdote che, senza aspirazioni predatorie, mostrava la grazia vivificante del vangelo sine glossa. E quando, per alcuni di quei cosiddetti “lontani” fu l’ora del dolore, Davide seppe calarsi come un fratello nelle loro vicissitudini.

Il mio discorso su Turoldo non può essere qui altro che un cenno, sia pure non frettoloso, e mi limiterò allora a qualche parola sulla sua poesia. Non sul valore letterario di essa, poiché tutto io sono fuori che un critico, ma sull’umiltà con la quale egli, poeta raffinato, lettore inesauribile di poeti, uomo di straordinaria cultura, e narcisista come sono sempre gli intellettuali, assetato dunque, di bellezza formale, non esitò a “sporcare” i suoi versi nel fango della Storia.

Perché non dirlo?  Quando si trattò di raccogliere tutti i suoi componimenti in quel volume “O sensi miei...”,  che fu presentato come la sua opera omnia, non tutte le sue composizioni vi furono raccolte. Gianfranco Ravasi, che a quell’epoca aveva grande influsso su Davide, con il quale aveva compiuto quella traduzione dei salmi che rimane la più alta opera della riforma liturgica in Italia, lo convinse a non inserirvi le poesie scritte, per così dire, in trincea, quelle che Davide definiva “ballate”:  Ravasi, fine critico, sapeva bene che quello era materiale grezzo, ganga aurifera appena raccolta nella violenza delle acque, non ancora sedimentata e filtrata nel silenzio claustrale. Ma noi continuiamo ad amare Davide proprio per quel suo gettarsi allo sbaraglio, lui e la sua arte, nelle tragedie e nelle nascite luminose del mondo “altro”. Davide non appese mai la sua cetra ai salici ma sforzò la sua voce seguendo gli oppressi nelle loro terribili lunghe marce alla ricerca di libertà e di giustizia: il Cile, il Vietnam, la Bolivia, il Nicaragua, il Sudafrica, il terrorismo dei disperati e quello, sapiente e feroce, della Cia, all’ombra, come lui diceva, di “un dio finanziere”… Con noi singhiozzò, nascondendo le lacrime, pregò, maledisse, sperò, cercò di costruire speranze.

La sua vena lirica tracimò gli argini dell’eleganza per fedeltà agli ultimi e alla loro storia. I dannati della Terra furono la sua bussola e la vera metrica delle sue composizioni. Per loro, non tacque, mai. “Il poeta è un crocefisso al legno della verità” diceva.  Anche quando i vescovi sembravano attenti soprattutto agli equilibri dello status quo, anche quando i superiori ecclesiastici gli chiedevano obbedienza alle loro cautele, e la sua incriminata disobbedienza (che era invece fedeltà alla propria vocazione monacale) comportava la condanna a esilii per lui durissimi, ed egli era costretto a contemplare l’apparente trionfo della banalità, della mediocrità, del conformismo mondano, Davide - come don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani e don Zeno Saltini e padre Ernesto Balducci - non ebbe mai dubbi: il vangelo non poteva che radicarsi nelle regioni in cui la sofferenza causata dall’ingiustizia stritolava la vita della povera gente. Egli non poteva (certamente non voleva, ma soprattutto per qualche misteriosa vocazione proprio non poteva) fermare il suo sguardo di monaco alle pareti della cella e neppure agli altari di pietra, né alle tanto amate solenni liturgie; non lì -. o non soltanto lì – era il suo Cristo, ma nella polvere delle sconfitte, nei ceppi dei vinti, nelle baracche degli oppressi. Davide aveva fra i suoi amici non pochi ricchi; entrava nelle loro case con l’aspersorio delle benedizioni, ma invece di donare loro le illusioni che gli ecclesiastici  hanno sempre elargito ai cosiddetti benefattori, poneva loro le dure richieste della spartizione dei beni, unica possibile scelta di salvezza. Poi riprendeva il suo posto, idealmente, nella casa dei suoi genitori, sospirata povertà, o nell’atroce miseria degli infiniti Golgota della Terra.

Seppe incontrare in quelle regioni anche una poesia sorella, da ascoltare con reverenza. Nella vita di quest’uomo sempre conteso fra la necessità del silenzio-contemplazione e il bisogno quasi primordiale del grido, vi sono spazî in cui egli scompare dietro il canto altrui, dietro le storie degli umiliati e offesi. Voglio ricordare qui il lungo, paziente lavoro di traduzione de “Il Serpente piumato”, il poema  di Ernesto Cardenal, “monaco rivoluzionario – come egli lo definisce, - mingherlino uomo con il basco, magro come una lucertola, che continua a cantare”; o le lunghe ore e attività dedicate con paterna tenerezza (e certo qui molti di voi ne sanno qualcosa) alla affermazione e diffusione del libro di Rigoberta Menchù, che gli parve, come parve a tanti di noi, storia sacra, incontro di cosmogonie che si ricompongono nel comune respiro del divino, nel lamento dell’uomo e della donna che non si arrendono al potere del male: lamento che è insieme grido di dolore e grido di sfida. Di resistenza,

E’ bello che il libro di Davide appena pubblicato, “La mia vita per gli amici”, abbia il sottotitolo bonhoefferiano di “Vocazione e resistenza”. Davide non visse soltanto la resistenza al nazifascismo, fu chiamato dalla Storia a vivere, come noi e insieme con noi, la resistenza al crollo di tanti ideali e di tanti miti; sentì la drammatica necessità di resistere al conformismo imposto con tecniche raffinate a creature ridotte, come lui diceva,  a “ombre sui muri”, coscienze torpide”, “anime malate e sconfitte”. E poi… poi ha dovuto e saputo resistere al male fisico, all’impazzimento delle cellule che sconvolgeva la sua vita. Ha saputo fare anche di più: ha saputo resistere alle tentazioni “religiose” del Dio tappabuchi invocato come dispensatore di salute. Infine, ha resistito alla disperazione: nel punto più alto della sua umana avventura ci ha lasciato un insegnamento che dice tutto della sua fede: “Vedere la luce attraverso il costato aperto del Cristo”. Ma questa vicenda meriterebbe ben altro approfondimento.

Così, per avviarmi alla conclusione, riprendo il tema delle ballate turoldiane, per dire che può ben darsi che in esse Davide non sia stato grande poeta: ma hanno pur sempre a che fare con la storia della letteratura italiana perché esse furono lette da decine e forse centinaia di migliaia di persone, molte delle quali ebbero, per la prima volta, la rivelazione che poesia poteva essere grido efficace. Nelle ballate di Turoldo trovarono in­vettiva, esortazione, omelìa, profezia. Con esse egli si accompagnava come cittadino e come sacerdote a chi non voleva arrendersi ai vecchi vizi italiani, ai vecchi e nuovi poteri. Di questi poteri scandagliò e descrisse l’obiettiva malvagità: dall’egoismo dei “garantiti” al crescere del razzismo, alla miserabile esosità delle teorie neoliberiste. Per questo mi piace collegarlo non solo agli altri grandi poeti “civili” italiani “laureati”, ma anche e soprattutto  al poeta operaio Ferruccio Brugnaro che già negli anni ’70  forava i fumi velenosi di Marghera  per denunziare il martirio imposto ai lavoratori del petrolchimico.

 L’uomo come metro per giudicare il sistema. E la poesia come strumento politico, necessariamente eversivo poiché non si adegua all’imperialismo della cultura consumista anzi con esso fatalmente confligge: Davide lo dice con aperta chiarezza in un suo brevissimo componimento, intitolato appunto "Poesia":

Poesia

è rifare il mondo, dopo

il discorso devastatore

del mercadante.

Notate la parola "mercadante" invece che "mercante". Davide, non usava se non  raramente parole arcaiche. Io credo che con questa egli abbia voluto ricordarci che c'è un'antica storia dietro il consumismo neo-capitalista, la storia di Caino che rifiuta di essere il custode di suo fratello, la storia di chi alla propria avidità di cose e di potere non esita a sacrificare vite umane.

 Noi non possiamo dire che cosa griderebbe oggi Davide. O sì? Hanno ancora senso quei quattro versi? C’è nel nostro presente un discorso devastatore fatto da qualche mercadante? Quanto ci manchi, fratello Davide.

6 febbraio 2002


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Vedi Le lettere di Ettore Masina

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Disarmo vuol dire futuro

Messaggio di Pax Christi dal Convegno di Brescia

Educare i giovani alla giustizia e alla pace vuol dire educarci tutti al disarmo delle menti, dei cuori e dei territori. Allontanare la paura. Plasmare una sicurezza comune. Costruire un futuro senza atomiche e un’Italia smilitarizzata nell’economia e nella politica, nella cultura e nel linguaggio, nelle relazioni umane, nelle nostre città.

Educarci alla giustizia e alla pace vuol dire disarmare la finanza e costruire un’economia di giustizia. Non spendere 3 milioni di euro l’ora per armamenti. Rifiutare l’idea di uscire dalla crisi economica con il riarmo. Tassare le transazioni finanziarie (aderendo anche alla campagna “zerozerocinque”). Lottare contro la corruzione e l’evasione fiscale. Promuovere un lavoro dignitoso per tutti.

Educarci alla giustizia e alla pace vuol dire tagliare le spese militari. Dire NO ai cacciabombardieri F35 Joint Strike Fighter (che costano 15 miliardi di euro), NO ai 100 caccia Eurofighter (10 miliardi di euro), NO a nuove navi di guerra. Rafforzare le spese sociali. Riconvertire l’industria bellica. Sviluppare la cooperazione e il Servizio civile.

Educare alla giustizia e alla pace vuol dire controllare, ridurre e fermare il mercato delle armi rafforzando la legge 185/1990 e la trasparenza verso tante ombre di corruzione in aziende private e pubbliche legate al mercato della guerra. Bloccare l’export militare in zone di conflitto o dove siano violati i diritti umani. Sostenere la campagna contro gli scudi spaziali, le mine antiuomo e le bombe a grappolo.

Educare alla giustizia e alla pace vuol dire chiedere alle proprie banche di uscire dal mercato delle armi. Diffondere negli Istituti di credito una Carta della responsabilità etica per il controllo-riduzione di operazioni finanziarie rivolte alla produzione e al commercio di armi. Realizzare le “tesorerie disarmate” negli Enti locali, nelle parrocchie, nelle diocesi.

Educarci alla giustizia e alla pace vuol dire ripudiare le guerre. Realizzare il disarmo come bene comune della famiglia umana. Riconvertire civilmente la nostra presenza militare in Afghanistan. Sviluppare una politica di cooperazione democratica nel nord Africa. Intervenire con la forza del diritto sia in Siria che in Iran per evitare disastrose avventure belliche. Avviare percorsi di disarmo per un Medio Oriente denuclearizzato .

Educarci alla giustizia e alla pace vuol dire cittadinanza attiva. Estendere la rete dei nuovi stili di vita sobri e solidali. Sviluppare nella comunità cristiana la conoscenza dei criteri etici nell’uso del denaro attraverso le banche. Attivare buone relazioni con l’ambiente. Difendere l’acqua come bene comune (con l’adesione alla Campagna di obbedienza civile “Il mio voto va rispettato” www.acquabenecomune.org). Edificare città dove nessuno sia straniero e possa dire “l’Italia sono anch’io”.

Educarci alla giustizia e alla pace vuol dire promuovere la festa della Repubblica attivando le “forze disarmate” della società civile.

Educarci alla giustizia e alla pace vuol dire pregare il Signore della pace che ci accompagni nel cammino per costruire ponti di umanità e contemplare la beatitudine della pace nel bambino disarmato.


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Vedi anche "Sintesi del Messaggio del Papa per la Giornata della Pace"

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Etica e politica


Lugo (RA)

Venerdì 2 Dicembre 2011 - 20:45

 Sala Riunioni della Fondazione Cassa di Risparmio e Banca del Monte di Lugo

Via Manfredi

 

Relatore:  Don Antonio Sciortino - Direttore Responsabile di Famiglia Cristiana

L'iniziativa è la diciassettesima di un percorso formativo che partito nel gennaio del 2008 ha inteso valorizzare, con il confronto e il dialogo, lo spirito democratico nella cornice dei valori cattolici. proponendo momenti  di riflessione e di dibattito.  La nostra vita politica è stata attraversata in questi ultimi decenni da una profonda crisi morale che richiede e sollecita non solo parole forti di richiamo e di denuncia ma un cambiamento radicale capace di stimolare un ripensamento e una mobilitazione morale di tutti. L'importanza del tema e l'autorevolezza del relatore rappresentano una valida occasione di riflessione e di discernimento per tutti coloro che sono impegnati nel mondo sociale ed istituzionale.

Mai come oggi  il nostro paese sente l'esigenza di una corresponsabilità per il bene comune e una testimonianza nella città, in coerenza con quanto ci ricorda Stefano Rodotà: “ contro malaffare e illegalità servono regole severe e istituzioni decise ad applicarle. Ma serve soprattutto una diffusa e costante intransigenza morale, un'azione convinta di cittadini che non abbiano il timore d'essere definiti moralisti, che ricordino in ogni momento che la vita pubblica esige rigore e correttezza”.

Evento organizzata da:

Associazione “Democrazia e valori” - Lugo


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Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza dei popoli

Mozione finale

Assisi, Rocca Maggiore, 25 settembre 2011

A conclusione della Perugia-Assisi, che abbiamo convocato a cinquant'anni dalla prima Marcia organizzata il 24 settembre 1961 da Aldo Capitini, vogliamo lanciare un nuovo appello per la pace e la fratellanza dei popoli.

Lo facciamo richiamando il primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che proclama: "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza".

La fratellanza dei popoli si basa sulla dignità, sugli eguali diritti fondamentali e sulla cittadinanza universale delle persone che compongono i popoli. I diritti umani sono il nome dei bisogni vitali di cui è portatrice ogni persona. Essi interpellano l'agenda della politica la quale deve farsi carico di azioni concrete per assicurare "tutti i diritti umani per tutti" a livello nazionale e internazionale. La sfida è tradurre in pratica il principio dell'interdipendenza e indivisibilità dei diritti umani - civili, politici, economici, sociali e culturali - e ridefinire la cittadinanza nel segno dell'inclusione. L'agenda politica dei diritti umani comporta che nei programmi dei partiti e dei governi ciascun diritto umano deve costituire il capoverso di un capitolo articolato concretamente in politiche pubbliche e misure positive.

Il nostro appello per la pace e la fratellanza dei popoli contiene alcuni principi, proposte e impegni:

Principi

Primo. Il mondo sta diventando sempre più insicuro. Se continuiamo a spendere 1.6 trilioni di dollari all'anno per fare la guerra non riusciremo a risolvere nessuno dei grandi problemi del nostro tempo: la miseria e la morte per fame, il cambio climatico, la disoccupazione, le mafie, la criminalità organizzata e la corruzione. Se vogliamo uscire dalla crisi dobbiamo smettere di fare la guerra e passare dalla sicurezza militare alla sicurezza umana, dalla sicurezza nazionale alla sicurezza comune.

Secondo. Se vogliamo la pace dobbiamo rovesciare le priorità della politica e dell'economia. Dobbiamo mettere al centro le persone e i popoli con la loro dignità, responsabilità e diritti.

Terzo. La nonviolenza è per l'Italia, per l'Europa e per tutti via di uscita dalla difesa di posizioni insufficienti, metodo e stile di vita, strumento di liberazione, strada maestra per contrastare ogni forma d'ingiustizia e costruire persone, società e realtà migliori.

Quarto. Se vogliamo la pace dobbiamo investire sulla solidarietà e sulla cooperazione a tutti i livelli, a livello personale, nelle nostre comunità come nelle relazioni tra i popoli e gli stati. La logica perversa dei cosiddetti "interessi nazionali", del mercato, del profitto e della competizione globale sta impoverendo e distruggendo il mondo. La solidarietà tra le persone, i popoli e le generazioni, se prima era auspicabile, oggi è diventata indispensabile.

Quinto. Non c'è pace senza una politica di pace e di giustizia. L'Italia, l'Europa e il mondo hanno bisogno urgente di una politica nuova e di una nuova cultura politica nonviolenta fondata sui diritti umani. Quanto più si aggrava la crisi della politica, tanto più è necessario sviluppare la consapevolezza delle responsabilità condivise. Serve un nuovo coraggio civico e politico.

Sesto. Se davvero vogliamo la pace dobbiamo costruire e diffondere la cultura della pace positiva. Una cultura che rimetta al centro della nostra vita i valori della nostra Costituzione e che sappia generare comportamenti personali e politiche pubbliche coerenti. Per questo, prima di tutto, è necessario educare alla pace. Educare alla pace è responsabilità di tutti ma la scuola ha una responsabilità e un compito speciali.

Proposte e impegni

1. Garantire a tutti il diritto al cibo e all'acqua.

E' intollerabile che ancora oggi più di un miliardo di persone sia privato del cibo e dell'acqua necessaria per sopravvivere mentre abbiamo tutte le risorse per evitarlo. Ed è ancora più intollerabile che queste atroci sofferenze siano aumentate dalla speculazione finanziaria sul cibo, dall'accaparramento delle terre fertili, dalla devastazione dell'agricoltura e dalla privatizzazione dell'acqua.

2. Promuovere un lavoro dignitoso per tutti.

Un miliardo e duecento milioni di persone lavorano in condizioni di sfruttamento. Altri 250 milioni non hanno un lavoro. 200 milioni devono emigrare per cercarne uno. Oltre 12 milioni sono vittime della criminalità e sono costrette a lavorare in condizioni disumane. 158 milioni di bambine e di bambini sono costretti a lavorare. Occorre ridare dignità al lavoro e ai lavoratori, giovani e anziani, di tutto il mondo.

3. Investire sui giovani, sull'educazione e la cultura.

Un paese che non investe, non valorizza e non dà spazio ai giovani è un paese senza futuro. La lotta alla disoccupazione giovanile deve diventare una priorità nazionale. Investire sulla scuola, sull'università, sulla ricerca e sulla cultura vuol dire investire sulla crescita sociale, politica ed economica del proprio paese.

4. Disarmare la finanza e costruire un'economia di giustizia.

La finanza, priva di ogni controllo internazionale, sta mettendo in crisi l'Europa politica e provoca un drammatico aumento della povertà. Bisogna togliere alla finanza il potere che ha acquisito e ripristinare il primato della politica sulla finanza. Occorre tassare le transazioni finanziarie, lottare contro la corruzione e l'evasione fiscale e ridistribuire la ricchezza per ridurre le disuguaglianze sociali.

5. Ripudiare la guerra, tagliare le spese militari.

La guerra è sempre un'inutile strage e va messa al bando come abbiamo fatto con la schiavitù. Anche quando la chiamiamo con un altro nome è incapace di risolvere i problemi che dice di voler risolvere e finisce per moltiplicarli. Promuovere e difendere sistematicamente i diritti umani, investire sulla prevenzione dei conflitti e sulla loro soluzione nonviolenta, promuovere il disarmo, contrastare i traffici e il commercio delle armi, tagliare le spese militari e riconvertire l'industria bellica è il miglior modo per aumentare la nostra sicurezza.

6. Difendere i beni comuni e il pianeta.

Se non impariamo a difendere e gestire correttamente i beni comuni globali di cui disponiamo, beni come l'aria, l'acqua, l'energia e la terra, non ci sarà né pace né sicurezza per nessuno. Nessuno si deve più appropriare di questi beni che devono essere tutelati e condivisi con tutti. Urgono istituzioni, politiche nazionali e internazionali democratiche capaci di operare in tal senso. Occorre ridurre la dipendenza dai fossili, introdurre nuove tecnologie verdi e nuovi stili di vita non più basati sull'individualismo, la mercificazione e il consumismo.

7. Promuovere il diritto a un'informazione libera e pluralista.

Un'informazione obiettiva, completa, imparziale, plurale che mette al centro la vita delle persone e dei popoli è condizione indispensabile per la libertà e la democrazia. Sollecita la partecipazione alla vita e alle scelte della collettività; favorisce la comprensione dei fenomeni più complessi che attraversano il nostro tempo, promuovere il dialogo e il confronto, costruisce ponti fra le civiltà, avvicina culture diverse, diffonde e consolida la cultura della pace e dei diritti umani.

8. Fare dell'Onu la casa comune dell'umanità.

Tutti nelle Nazioni Unite, le Nazioni Unite per tutti. Se vogliamo costruire un argine al disordine internazionale, i governi devono accettare di democratizzare e rafforzare le Nazioni Unite mettendo in comune le risorse e le conoscenze per fronteggiare le grandi emergenze sociali e ambientali mondiali.

9. Investire sulla società civile e sullo sviluppo della democrazia partecipativa.

Senza una società civile attiva e responsabile e lo sviluppo della cooperazione tra la società civile e le istituzioni a tutti i livelli non sarà possibile risolvere nessuno dei grandi problemi del nostro tempo. Rafforzare la società civile responsabile e promuovere la democrazia partecipativa è uno dei modi più concreti per superare la crisi della politica, della democrazia e delle istituzioni.

10. Costruire società aperte e inclusive.

Il futuro non è nella chiusura in comunità sempre più piccole, isolate e intolleranti che perseguono ciecamente i propri interessi ma nell'apertura all'incontro con gli altri e nella costruzione di relazioni improntate ai principi dell'uguaglianza e alla promozione del bene comune. Praticare il rispetto e il dialogo tra le fedi e le culture arricchisce e accresce la coesione delle nostre comunità. I rifugiati e i migranti sono persone e come tali devono vedere riconosciuti e rispettati i diritti fondamentali.

 

Queste priorità devono essere portate avanti da ogni persona, a livello locale, nazionale e globale, in Europa come nel Mediterraneo.

Per realizzarle abbiamo innanzitutto bisogno di agire insieme con una strategia comune e la consapevolezza di avere un obiettivo comune.

Per realizzarle abbiamo bisogno di dare all'Italia un governo di pace e una nuova politica, coerente in ogni ambito, e di investire con grande determinazione sulla costruzione di un'Europa dei cittadini, federale e democratica, aperta, solidale e nonviolenta e di una Comunità del Mediterraneo che, raccogliendo la straordinaria domanda di libertà e di giustizia della primavera araba, trasformi finalmente quest'area di grandi crisi e tensioni in un mare di pace e benessere per tutti.