Speranza cristiana e laicità della politica

Giorgio Campanini

Come coniugare la  speranza cristiana, l’impegno politico e la laicità? Come rapportarsi oggi agli insegnamenti del Concilio Vaticano II sullo sfondo di un rapporto spesso strumentale e schematizzante tra cattolici e società e di un contesto che sembra aver perso di vista la prospettiva progettuale della politica? Si può partire dal recente convegno ecclesiale di Verona per fare il punto sullo stato della Chiesa italiana alla luce di questi quesiti.

Il «principio speranza» che era alla base della grande utopia del marxista, ma per certi aspetti anche cristiano, Ernst Bloch, sembra aver abbandonato gli attuali scenari della politica italiana. Alla stagione delle utopie fa seguito la stagione dei banchieri (e dei ragionieri). Le folle riempiono le piazze – a destra come a sinistra – per invocare ora meno tasse ora più finanziamenti alla propria parte ed alla propria categoria. La politica italiana sembra ormai incapace di «volare alto» e preferisce imboccare la strada delle presunte «cose concrete», come se concretissimi non siano stati gli ideali che hanno animato la Resistenza, gli anni della ricostruzione, la costruzione dell’Europa, la grande stagione dei diritti dell’uomo e dell’impegno per la pace.

In quello che sembra essere ormai diventato uno specchio di acqua stagnante, il convegno di Verona – con la sua forte apertura alla speranza, con la sua capacità di guardare lontano, con la sua (ragionevole e non acritica) apertura al futuro – ha rappresentato una salutare iniezione di fiducia, è stato un invito a guardare lontano, ad evitare di imprigionarsi nelle secche di una politica dal volo basso. Forse soprattutto per questo l’assise veronese ha rappresentato un’importante sollecitazione alla politica, ancor più delle pur significative cose che ha detto. Ma anche su queste mette conto di soffermarsi, come si tenterà qui di fare.

Sia consentita tuttavia, preliminarmente, una piccola notazione personale. Chi scrive queste note ha avuto l’onore di essere stato invitato al convegno dalla presidenza della Cei. Erano certamente note non le mie «appartenenze politiche», inesistenti, ma il mio interesse per la politica e il mio impegno civile; ma si è ritenuto, penso, che prevalesse la mia pur modesta figura di intellettuale. Così è avvenuto che sia stato, a Verona, su circa 2.700 partecipanti, uno dei pochi «politici» presenti, dato che, per decisione del comitato preparatorio, gli uomini e le donne della politica, pur cristiani, non sono stati invitati (per evitare strumentalizzazioni si è detto). Mi auguro che in futuro – come da più parti è stato auspicato – queste esclusioni non vi siano più e che, in forme e con modalità da stabilire, una rappresentanza di quanti da cristiani si impegnano in politica, ovunque schierati, possa partecipare ad un incontro che, per essere espressivo di tutta la Chiesa italiana, non può pregiudizialmente escludere i credenti che operano in quell’ambito della politica che il Concilio Vaticano II ritiene degno di lode: dignum opus («Gaudium et spes», n. 75), una funzione alta e nobile, un’eminente forma di servizio al prossimo. E come escludere pregiudizialmente da un convengo che vuol essere ecclesiale quanti si dedicano a questo dignum opus?

Uno sguardo d’insieme

Se si considera l’insieme degli apporti offerti dal convegno ecclesiale di Verona al problema del rapporto cattolici-società, si deve riconoscere che, rispetto ai tre precedenti convegni della Chiesa italiana (Roma 1976, Loreto 1985, Palermo 1995), a Verona si è verificato un non vistoso ma chiaramente percepibile mutamento di linea. Si è cioè delineato un nuovo modo di collocarsi rispetto alla politica: non nel senso del rifiuto del rapporto con la società o del disimpegno rispetto all’impegno per il bene comune, ma piuttosto in direzione di una più chiara presa di distanza da diretti coinvolgimenti nella politica propriamente detta, insieme con un forte appello all’impegno ed alla responsabilità dei laici. Sotto molti aspetti il baricentro dell’attenzione si è spostato dalla gerarchia al laicato, con un conseguente forte ed insistito appello all’impegno ed alla responsabilità dei fedeli laici. Nessuna delle relazioni fondamentali (Tettamanzi, Brambilla, Ruini) – su un altro piano il discorso del papa, che va considerato a parte e sul quale si avrà modo di ritornare – ha affrontato esplicitamente il problema delle forme e delle modalità della presenza politica dei cattolici in Italia: lo stesso intervento introduttivo a questo specifico ambito del convegno (la contestata relazione di Diotallevi) ha solamente sfiorato la questione. E questa lacuna è stata solo in parte colmata nei lavori dei gruppi chiamati a riflettere sulla cittadinanza, i quali hanno pure dibattuto il rapporto credenti-società con ampia partecipazione e grande vivacità. Il discorso del papa, che ha in qualche modo suggellato i lavori di gruppo, è stato da molti considerato definitivo e risolutore.

Si può dunque affermare che sul tema dell’impegno politico dei credenti Verona ha taciuto? Non lo si può affermare, dato che molti e importanti sono stati gli spunti in ordine alla presenza dei cristiani nella società, e forti i richiami all’iniziativa ed alla responsabilità dei laici. Ma certo la Chiesa italiana nella sua espressione gerarchica (e attraverso relatori che, sacerdoti e laici, erano in qualche modo, nelle loro «ufficialità», riconducibili ad una scelta dell’episcopato) ha ritenuto – nell’autorevole sede di Verona – di non dovere esplicitamente affrontare, se non in termini generalissimi, questo complesso e delicato tema. Di questa scelta di campo è possibile dare – e molte letture giornalistiche si sono mosse in questa direzione – un’interpretazione parziale e riduttiva, quella cioè che riconduce tale prudente orientamento dell’episcopato sia all’articolato e polimorfo collocarsi dei cattolici in ambito politico, e dunque alle preoccupazioni di non scontentare né gli uni né gli altri, sia al timore di rinfocolare, con indicazioni ritenute non pertinenti o addirittura considerate come intollerabili invasioni di campo, le polemiche anticlericali, e talora propriamente antiecclesiastiche che hanno avuto negli ultimi tempi una forte recrudescenza (in singolare parallelo con non disinteressate e non innocenti «rivalutazioni» strumentali del fatto religioso). Assai più corrispondente allo spirito complessivo dell’assise veronese è invece la constatazione dell’intervenuta presa di coscienza, da parte della Chiesa italiana, di non potere e di non dovere essere essa stessa soggetto politico, per riservare a se stessa soprattutto compito di annunzio e di testimonianza dei valori della convivenza civile, accompagnato da un forte impegno educativo e formativo nell’esercizio di una responsabile e matura cittadinanza. Anche la relazione che si è spinta più avanti in ordine alle tematiche della politica – quella di Savino Pezzotta – si è esplicitamente posta al di fuori e al di sopra di ogni possibile scelta di campo partitico.

L’emergenza della questione laicato

Sotto molti aspetti (e non solo per quanto concerne le tematiche relative alla cittadinanza) la questione del laicato è emersa come centrale di questo IV convegno della Chiesa italiana: ad essa infatti si è fatto riferimento in pressoché tutte le relazioni, e con particolare autorevolezza in quella introduttiva dell’arcivescovo di Milano, presidente del comitato preparatorio. Tettamanzi ha fortemente insistito su quella che ha chiamato una «triade indivisa e indivisibile», fondata sulle parole chiave di «comunione-correlazione-corresponsabilità» tanto all’interno della Chiesa quanto nei confronti della storia. Questa «corresponsabilità» della Chiesa nei riguardi del mondo si deve esprimere – secondo il pensiero del cardinale – soprattutto nell’ambito specifico della politica, attraverso l’impegno del laicato cristiano, al quale viene affidato il compito di «legare e interpretare i segni di senso o di speranza» presenti nel mondo e di «organizzare la speranza cristiana sotto il profilo comunitario e strutturale»[1]. Questo impegno dei cristiani nel mondo si esprime, secondo l’arcivescovo di Milano, in una duplice forma: attraverso il «discernimento evangelico», condizione necessaria per «scelte libere e responsabili», ed evitando il rischio di letture strumentali della fede: una felice citazione di un passo della Lettera agli efesini del santo martire Ignazio di Antiochia («meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo»[2]) è stata quasi unanimemente interpretata come una presa di distanza nei confronti di coloro che sono ricorrentemente tentati di un uso strumentale della fede.

Ad un forte impegno dei credenti nella società hanno fatto riferimento sia il primo relatore ufficiale, F.G. Brambilla (La speranza cristiana non può non sollecitare il cambiamento del mondo), sia, e soprattutto, Savino Pezzotta, che ha sottolineato il ruolo della politica in vista della costruzione di un mondo più giusto, attraverso un impegno a tutto campo[3]. Un passo molto applaudito dell’intervento dell’ex sindacalista è stato quello in cui ha invitato i credenti a «fare i conti con il bipolarismo, uscendo dalle nostalgie per costruire una nuova e plurale presenza dei cattolici nel campo politico”[4], dal momento – ha osservato – che «l’unità dei cristiani non si realizza in politica ma dall’essere chiesa»[5]. Importante anche l’indicazione fornita da Pezzotta in ordine al compito ed alle responsabilità dei cattolici, indipendentemente dai luoghi della loro militanza: «assumere un ruolo efficace e visibile nell’elaborazione politica  e programmatica», senza dimenticare che «esistono valori indisponibili»[6] sui quali la convergenza fra cattolici diversamente collocati dovrebbe essere ovvia e naturale. Ulteriori arricchimenti sono venuti dalle relazioni introduttive ai diversi ambiti, nei quali si è poi suddiviso il convegno, senza tuttavia che particolari spunti provenissero dalla discussa relazione del sociologo Luca Diotallevi che ha introdotto i gruppi di lavoro sulla cittadinanza; ma motivo conduttore di questi diversi interventi è stato il riconoscimento del valore della laicità.

Si può dunque nel complesso affermare che il convegno di Verona ha posto al centro della sua riflessione la particolare laicità di tutta la Chiesa in quanto attenzione al mondo, anzi «passione» per il mondo, sottolineando nello stesso tempo le specifiche responsabilità dei laici in quanto portatori di speranza nella storia. Significative, al riguardo, le puntualizzazioni del presidente uscente della Conferenza episcopale italiana, il card. Ruini (spesso accusato di eccessivo «presenzialismo»), allorché ha sostenuto che la Chiesa italiana non intende coinvolgersi in alcun modo in «scelte di partito o di schieramento politico» e che suo principale intendimento è quello di farsi promotrice nella società dei valori e dei principi della dottrina sociale cristiana, favorendo nello stesso tempo una laicità «sana e positiva»[7]. Anche alla luce del discorso veronese di Benedetto XVI, sembra essere questa la linea alla quale la Chiesa italiana si atterrà nel prossimo futuro. Resta tuttavia il problema di come passare dall’astratto e generico riconoscimento del «principio di laicità» al rispetto effettivo dell’autonomia dei laici. Le polemiche spesso pretestuose di quanti non esitano ricorrere ad un uso strumentale della fede contro i credenti ricorrentemente accusati di «cedimenti» o di «compromissioni» allorché pongono in essere, in una società pluralistica ed all’interno di coalizioni ideologicamente differenziate, necessarie mediazioni politiche, non rappresentano un segnale incoraggiante. La Chiesa italiana dovrà avere la lucidità e la saggezza di non farsi irretire in questa ragnatela polemica e di «volare alto», evitando di diventare di fatto, a causa di non felici prese di posizione, e contro le sue stesse intenzioni, quel «soggetto politico» che si rifiuta di essere.

Il discorso articolato del papa

La linea di presenza indicata a Verona alla Chiesa italiana è stata sintetizzata attraverso quella sorta di «bipolarità» che è stata al centro dell’importante discorso pronunciato il 19 ottobre da Benedetto XVI e che è stato, non impropriamente, definito come una sorta di «Lettera pastorale alla Chiesa italiana». Da una parte – ha affermato il papa - «la Chiesa non è non intende essere un soggetto politico»; dall’altra, essa «ha un interesse profondo per il bene della comunità politica». Apparente dicotomia che in realtà (con una chiarezza non sempre riscontrabile in precedenti, anche autorevolissimi, interventi registratisi in altri convegni ecclesiali) intende indicare lucidamente la scelta di campo di questo pontificato e, su sua sollecitazione, della Chiesa italiana: una scelta che senza separatezze ma anche senza confusioni e sovrapposizioni, afferma l’impegno di tutta la Chiesa per i diritti umani, la pace, la giustizia, ma che si situa a due distinti, anche se non separati, livelli: da una parte il piano dell’annunzio profetico delle speranze, della riproposta dei grandi valori evangelici attraverso la dottrina sociale della Chiesa, della formazione di coscienze cristiane mature e responsabili; dall’altra il piano della concreta assunzione di responsabilità in ambito politico e civile, all’interno di questo grande orizzonte valoriale ma nell’esercizio della legittima autonomia laicale e in atteggiamento di matura responsabilità. «Il compito immediato di agire in ambito politico per costruire un giusto ordine nella società non è dunque della Chiesa come tale, ma dei fedeli laici, che operano come cittadini sotto propria responsabilità[8], ha concluso, su questo punto, Benedetto XVI. Quale più alto, più chiaro, più autorevole appello all’esercizio di un’autentica laicità si sarebbe potuto ascoltare? E’ finito, augurabilmente, il tempo delle spasmodiche ricerche di stampelle ecclesiastiche a sostegno delle proprie scelte politiche e della frenetica ricerca di primogeniture di investiture clericali.

Emblematica, sotto questo profilo, la decisione assunta da Benedetto XVI nella scorsa estate di limitare i suoi incontri con personalità politiche a quelle fra esse che hanno compiti ed incarichi istituzionali e che, solo in quanto tali, chiedano di essere ricevute.  Può sembrare, questa decisione, un semplice accorgimento per evitare una sorta di intasamento permanente dell’anticamera pontificia; ma indubbiamente la principale preoccupazione del pontefice è stata quella di evitare, in quanto possibile, un uso improprio e strumentale delle udienze pontificie e, al limite, un abuso della fede. D’ora in poi i galloni di «difensori della fede» - se proprio di essi vi sarà bisogno – dovranno essere conquistati sul campo, grazie ad un comportamento coerente sia sul piano della vita pubblica sia su quello della vita privata: non saranno i minuti strappati al papa, le foto ufficiali di sorrisi e baciamano a decidere della coerenza cristiana degli uomini e delle donne impegnate in politica: sul piatto della bilancia conteranno soltanto le scelte politiche e lo stile della vita privata. Fare politica da autentici credenti è un’altra cosa rispetto ad un accesso più o meno frequente alle anticamere vaticane (ed alle sotto-anticamere ecclesiastiche di cui è ricco il nostro paese). Non resta, alla fine, che prendere sul serio l’autorevole appello del papa al pieno esercizio della laicità e raccoglierlo creativamente, in piena ed autentica responsabilità laicale. Su questo terreno la speranza cristiana – ideale punto di riferimento del convegno di Verona – si coniuga pienamente e felicemente, attraverso una convinta ripresa della lezione del Vaticano II, con la laicità politica.

(da APPUNTI di cultura e politica - n. 1/2007) 


[1] Si veda Una speranza per l’Italia. Il Diario di Verona, Edizioni di «Avvenire», Milano 2006, pp. 48-50.

[2] Ibid, pp. 49-50.

[3] Ibid., p. 90.

[4] Ibid., p. 95.

[5] Ibid, p. 96.

[6] Ibidem.

[7] Ibid., pp. 209-210.

[8] Ibid., p. 20.