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Mino Martinazzoli: l’intelligenza degli avvenimenti, il carisma della parola
12 Ottobre 2011
“Impolitico non perché ignorasse Machiavelli, ma perché non gli riusciva di comprendere un potere disgiunto dalla ragione morale. Impolitico perché la convinzione cristiana e l’attitudine liberale lo opponevano alla pretesa ideologica. Impolitico perchè era certo che la politica ripiega nella demagogia e nella finzione, se le si pongono domande eccessive. Sapeva, al contrario, che tocca a ciascuno affinare e condividere il proprio talento in modo che sia appagato il bisogno di giustizia e risulti persuasiva la regola comune, perché sia più umana la società e più veritiera la politica”.
Dunque, prima ancora che l’azione politica – comunque inevitabile per lui in quanto esito di una responsabilità, di una obbligazione -, la meditazione sulla politica, sulla sua grandezza e miseria, sulle sue ambizioni, sui suoi vincoli, soprattutto sul suo limite, alla ricerca delle “poche ragioni che possono giustificarla, nello scacco e nella speranza”. Da qui l’immagine falsa, del tutto fuorviante, di un Martinazzoli crepuscolare, “italo Amleto”, “Cassandra bresciana”, persino “cipressoso”, addirittura “uno degli uomini più oscuri del secolo”, come lo definisce un suo critico “sublime” vittima inconsapevole di una contraddittoria iperbole.
“Sarei tentato (…) di definire questa cifra lombarda come una sobrietà dell’intelligenza. Non un’angustia, un rifiutarsi alla passione e alla fantasia, ma la compiutezza, difficile e placata, di una conoscenza intera, di un’ostinata esperienza. Delle cose e degli uomini, dell’eccezione e della regola, della fatica e della festa, della lunghezza e della misura”.
Già all’origine, all’incipit di un lungo percorso, Martinazzoli esordisce da democristiano insolito, atipico più che “strano”, come titola il suggestivo racconto autobiografico, quasi preterintenzionale, raccolto recentemente da Annachiara Valle, giovane, valente giornalista di “Jesus” e direttrice di “Madre”. All’inizio è, infatti, amministratore locale “indipendente”, avido lettore di buoni libri – in primis quel don Primo Mazzolari che con la sua predicazione nella plaga ha lasciato semi fecondi –, animato non da spirito appetitivo di ruoli e di potere, ma dal sentimento di una testimonianza, dall’urgenza di un dovere, di un servizio da rendere nel nome della democrazia, insieme garanzia di libertà e tensione per la giustizia, pur consapevole che “fare politica, per un cristiano, vuol dire mettersi al centro di una contraddizione”. Martinazzoli, già direttore de “Il Cittadino”, l’organo di stampa fondato da Giorgio Montini deputato popolare e padre di Paolo VI, approda alla Provincia di Brescia prima come consigliere, successivamente diventandone Presidente.
Dal 1972 è al Senato dove rimane sino al 1983, poi alla Camera, per ritornare al Senato dal ’92 al ’94. Quindi Sindaco di Brescia, poi capogruppo per il centrosinistra in Regione Lombardia a partire dal 2000. Nel 2004 l’ultima, in realtà effimera, quanto generosa ed improbabile, avventura come presidente di Alleanza popolare-Udeur nel tentativo estremo, quasi vissuto a contraggenio e senza entusiasmi, come per la percezione di un ingombro, più per testimonianza, dunque, che per convinzione, di rendere ancora visibile la presenza sulla scena politica del Paese di una formazione di cattolici non immemori dell’eredità del popolarismo.
“Occorre il senso di una rivelazione. Come quella che, in un attimo di spessore esistenziale, sorprende il principe Andrey di Guerra e Pace sul campo devastato dalla battaglia di Austerlitz. Ferito e dolente, steso immobile sulla terra si volge con chiari occhi a un cielo ‘alto e infinito’ solcato da placide nubi bianche. E così inappellabile gli appare quella indifferenza, e così profonda l’impassibile verità di quel cielo, da convincerlo che nulla è vero fuorché quella visione, che tutto è ‘vuoto ed inganno’ se non si paragona su quella irraggiungibile lontananza. Certo, evocare l’assoluta metafora di Tolstoi, per dire il malessere e la crisi della politica, significa proporre una perentoria e persino sgradevole soluzione. Ma io credo che la grande letteratura non soffre mortificazioni anche quando si piega all’ufficio più umile. Essa può contenere tutto della vita e delle vite, proprie perché il suo ‘disinteresse’ la rende umanamente intera. E se la politica non ha cielo, conosce, tuttavia, una tensione che supera e trasvaluta la prigionia del potere e l’angustia delle ambizioni per assumere e intravedere un nitido traguardo umano di libertà e solidarietà”.
Appunto un traguardo umano di libertà e solidarietà: questo il senso di una presenza parlamentare, di tangibili segni lasciati da Martinazzoli nella sua attività di produzione della norma. Così la battaglia di civiltà per l’approvazione della legge “Valpreda” sui termini della carcerazione preventiva in nome della convinzione che “là dove vi è un processo garantito, (….) di parità tra le parti e di garanzia per la libertà personale, là vi è anche una risposta punitiva rapida, efficiente, tempestiva”, così nel caso del confronto parlamentare – un passaggio di straordinario spessore umano e culturale – in tema di riforma del diritto di famiglia, un appuntamento che dimostra come “in quegli anni era ancora possibile pensare che il diritto mantenga in sé un’autonomia morale, una capacità pedagogica nei confronti dei comportamenti”. Così nell’occasione della legge sul nuovo processo del lavoro secondo un impianto teso a guadagnare speditezza al giudizio, impianto poi assurto anche a modello per altre procedure del contenzioso civile. Così, infine, nelle preveggenti, lungimiranti proposte avanzate in tema di utilizzazione delle intercettazioni come strumento di prova cui ricorrere con avvedutezza e nel quadro di irrinunciabili, ineludibili garanzie. Del resto è proprio sul terreno della giustizia che Mino Martinazzoli, uomo di governo, lascia l’impronta più significativa e riconoscibile di un’ispirazione, al di là della frequente autoironia, di un’aneddotica persino stucchevole (il risparmio ottenuto con la riduzione del formato delle buste in dotazione al ministero). Esemplare di una disposizione, sintomatica di una sensibilità volta al recupero del diritto, al superamento della legislazione emergenziale prodotta negli anni del terrorismo, l’introduzione di misure tese alla graduale riduzione di un’afflittività frutto di una distorsione delle regole. Sarà la legge sulla “dissociazione”, nota come “legge Gozzini”, esito di un sapiente, quanto paziente, assemblaggio di iniziative di governo e parlamentari. Per Martinazzoli l’inveramento di una posizione ideale, di quell’orizzonte senza tempo che è la permanenza metastorica del valore, pur raffrontato agli accadimenti della storia, agli sviluppi talora tumultuosi, spesso disordinati della convivenza sociale. Insomma il recupero di quella regola che vuole esaltare, sulla scia del prediletto Rosmini, la persona come “diritto” – la persona che non solo ha il diritto, ma è il diritto – e lo Stato come “lo Stato del valore umano”. Ed insieme nella memoria mai dimessa della predicazione mazzolariana in quelle chiese di campagna frequentate da umile gente, “ch’erbose hanno le soglie” – “occorre un ritorno alla pietà. Pietà per me. Pietà per voi. Per i morti e per i vivi. Pietà per tutti” -, la restituzione alla politica della sua dignità, di un’amorevole intelligenza della condizione umana, di una volontà davvero convinta del suo volere, della sua vocazione civile. Perché – come ha lasciato scritto -, “se vale il soccorso della poesia, conviene ricordare Elliot: Per noi non c’è che tentare. Il resto non ci riguarda“. Qui anche l’inveramento, la redenzione dell’agire politico, di una politica che si trova a doversi misurare col tempo della società frammentata e degli interessi molecolari. Quasi un annuncio oracolare, più che una profezia:
“La politica riconquisterà invece la sua persuasione e la sua necessità per una calma intelligenza degli avvenimenti, per una pacata attitudine ordinatrice, per una tempestiva sensibilità agli annunci lontani, per una sagace intuizione dei nessi e delle relazioni, per la pazienza di un’attesa, per una volitiva percezione dell’occasione e del consenso”.
mentre “la parola popolo allude ad un che di organico, di paziente, evoca una durata e una memoria”, al contrario la “parola gente adombra un’anomia, un’inconsapevolezza della sorte comune, dice un’addizione di solitudini piuttosto che un sentimento comunitario”.
Molteplici gli interventi gli scritti, le relazioni in sede di partito, i contributi per le occasioni più disparate – persino premi letterari – cui si può fare riferimento. Due soprattutto: l’introduzione, assai impegnativa, del 1989 ai Discorsi parlamentari di Aldo Moro, nonché la raccolta miscellanea pubblicata nel volume edito dalla Morcelliana nel 1986 titolata Il limite della politica. Qui Martinazzoli si muove tra disincanto weberiano ed ethos democratico, qui, più che altrove forse, si pone all’apice di quella traiettoria tesa a coniugare cattolicesimo liberale della tradizione transigente-conciliatorista e cattolicesimo democratico - l’orizzonte della laicità dello Stato come valore positivo della fede e la valorizzazione della democrazia dei moderni come luogo di affermazione dell’uguaglianza dei diritti – secondo la sintesi operata dal magistero sturziano. Dalla consapevolezza delle tensioni irrisolte della politica, del “tragico” che la politica incontra e spesso produce, il suo rovello, persino quell’immagine di lui tormentata che osservatori superficiali e critici poco avveduti gli hanno appiccicato come una sorta di indelebile clichè, come ritornello degli “stenterelli” e dei “saltimbanchi” i quali possono credere che la riflessività sia indecisione. Qui sta invece la valenza più propriamente paradigmatica di un’intera biografia a maggior ragione paragone probante in un tempo di finzione, di metamorfosi della politica, in cui essa più che rappresentanza è rappresentazione e nel quale il potere resta opaco, mentre sovrabbondante, persino osceno, è il rito esibitorio di personaggi senza qualità che, in quanto frutto di invenzione, ostentano il nulla di sé, sino al compimento della parabola “dal troppo della politica al suo tendenziale niente”, come Martinazzoli spesso è andato denunciando. Di contro invece il recupero e la valorizzazione della continuità di una tradizione – da Sturzo a De Gasperi a Moro – comparata ai tempi nuovi della “cristianità perduta” come direbbe Pietro Scoppola, un maestro insigne di vita e di pensiero, con cui Martinazzoli ha avuto molteplici dissonanze, soprattutto in relazione alla prospettiva bipolare, riproponendo valorizzazione del “centro”, non come luogo geometrico equidistante da Destra e da Sinistra, ma come cultura della moderazione degli interessi- una moderazione non certamente innata, ma frutto di paziente educazione - in antitesi al moderatismo, alla neutralità, allo spirito conservatore, ed affermazione di valori personalistico-comunitari – in primo luogo una correlazione virtuosa tra politica e vita in un mondo “non tanto secolarizzato, come spesso si dice, ma più esattamente profanato”. In un mondo ove, caduti per fallimento i regimi totalitari, vengono imponendosi ragione calcolistico-strumentale e “pensiero unico” come forme di nuova totalizzazione olistica. In effetti
“C’è – ammonisce Martinazzoli - una grave ambiguità nella speranza che la politica pretende di elargire agli uomini. E questa ambiguità consiste nel dissimulare la circostanza della singolarità e irripetibilità del rapporto che ogni uomo contrae con la sua vita e con la solitudine della sua morte. Ora l’unico modo di illimpidire questa opacità consiste nell’intendere che il compito della politica deve essere prima di tutto rivolto piuttosto che alla congettura di un bene troppo alto, alla riduzione di un male, di una brutalità (….). La politica conta, ma la vita conta più della politica. Questa posizione anti ideologica, questo rifiuto di sottomettere alla plasticità della politica tutto il sentimento, tutta la libertà, tutte le tribolazioni e tutta la ricchezza irripetibile della vita, costituisce (…) il grumo di verità sul quale possiamo contare alla fine di un secolo che ha conosciuto le devastazione di una pretesa politica illimitata. Ma la questione di adesso è se il tramonto delle ideologie non coinvolga il tramonto della politica”.
Una politica che rischia di diventare – questa la preconizzazione – “un’intollerabile mistica senza religione”. Si percepisce qui netta l’eco della critica ad opera della tradizione cattolico-liberale dei miti del perfettismo - da Antonio Rosmini a Giuseppe Capograssi –, nonché il recupero, aggiornato criticamente agli sviluppi recenti delle ideologie oggi imperanti dell’anomia individualistico-appropriativa, della polemica anti totalitaria propria delle correnti cattoliche democratiche e liberal-socialiste della prima metà del secolo. Un recupero cui si accompagna, sulla scia di grandi maestri quali Norberto Bobbio e Isaiah Berlin, un’insistita sottolineatura della funzione civilizzatrice delle istituzioni pubbliche a partire – parallelamente ad uno svolgimento teorico-politico non sempre rettilineo da parte cattolica – dallo Stato moderno. Non senza una preliminare avvertenza che prende le mosse da uno scambio epistolare con il filosofo torinese, scambio attraverso il quale Bobbio, inviando a Martinazzoli il suo libro Elogio della mitezza ed altri scritti morali, esprime la propria convinzione secondo la quale “la mitezza non (è) un elemento della politica”. Ebbene nel leggere quelle pagine Martinazzoli, constatando “che Bobbio spiega come la mitezza è il contrario dell’abuso”, si rafforza nella propria idea “che sarà rara, ma occorrerebbe aumentarla la presenza della mitezza perché la politica ha a che fare con la capacità di impedire l’abuso del potere”. Torna dunque insistito il tema del limite della politica, di una pratica mite non perché arrendevole o inconsapevole della dimensione machiavellica del potere, della forza, persino della coercizione, ma perché riconosce il proprio limite che non le consente di esser invasiva, di occupare sfere che non le appartengono nè le competono, tanto del vivere quanto del morire, dunque inabilitata ad esprimere, a dare rappresentanza alla totalità della coscienza di ciascuno. Limite della politica da un lato, dall’altro riconoscimento, a partire dalla lezione morotea, della fluidità sociale – una realtà, dunque, in continuo movimento, non riconducibile a schematismi, sempre aperta a nuovi sviluppi – e insieme della necessità di definire, da parte della politica, un ordine, non come restaurazione nostalgica di un equilibrio perduto, ma come disegno, progetto, impegno a stabilire, in una società sempre più intersecata, mossa ed esigente, un equilibrio nuovo capace di comprendere piuttosto che di escludere. È dalla confluenza di queste polarità – soggettività politica e oggettività del sociale – che Martinazzoli tematizza la questione del potere e dello Stato. Vale a dire del potere o della libertà, dello Stato o della regola. La riflessione procede dalla dissociazione propria della modernità tra diritti della libertà e poteri della libertà.
“Oggi – più che mai - è cruciale il tema della libertà. Della libertà della persona. Per la ragione che nella società moderna all’individuo competono tutti i diritti della libertà, ma tutti i poteri della libertà tendono ad appartenere sempre più al gruppo, all’ organizzazione, alla corporazione, alla burocrazia ed io credo che solo qui – in questa sorta di liberazione della libertà – si può dispiegare il recupero della responsabilità e del dovere e dunque la possibilità stessa di ulteriore sviluppo dello Stato sociale”.
La politica ha, dunque, senso se reca in sé l’ambizione di una liberazione umana, ma deve riconoscere che non c’è liberazione senza libertà, senza una regola di libertà. La seconda anta della riflessione di Martinazzoli, quella più dilemmatica, che tocca il nocciolo duro costituito dall’interpretazione dello Stato, di nuovo s’incontra con la lezione di Moro e con i suoi evolutivi sviluppi. A proposito dello Stato infatti Moro ha teorizzato che “sembrerebbe giusto che il cristiano debba partire in lotta”, in quanto “il dominio necessario della forza, e sia pure della forza del diritto, sembra condurre almeno ad una esteriorità minacciosa della più profonda intimità umana”. Pur tuttavia lo statista democristiano assassinato dalle Brigate rosse, nelle sue Lezioni di filosofia del diritto teorizza pure il “farsi umano dello Stato”. Qui Martinazzoli – il riferimento è alla Relazione tenuta al convegno di S. Pellegrino del 6 settembre 1984 - procede dall’assunto che “lo Stato democratico non è lo Stato che avvilisce; è lo Stato che arricchisce la qualità umana della società. Lo Stato non è altro dalla società. È la sua regola”. Alla base sta l’esigenza di un’ integrazione reale, non puramente simbolica, nonché l’attribuzione allo Stato di un dovere di “inesausta comprensione”, di autentica e dinamica capacità rappresentativa “in un ancoraggio non revocabile al metodo democratico – parlamentare che lascia tutto il resto perennemente in gioco”. Ancora: agisce in Martinazzoli un ulteriore richiamo a Moro, al Moro di un editoriale di “Studium” del 1947, secondo il quale “c’è un valore che lo Stato ha in se stesso, una straordinaria efficacia del vincolo di solidarietà che in esso e per esso si stabilisce”. È questo il viatico per una sorta di rovesciamento delle teorizzazioni volte a perseguire la liberazione dallo Stato, teorizzazioni cui lo stesso Moro sembra aderire in un notissimo discorso alla Costituente nel quale richiama, fissando un punto centrale dell’elaborazione cattolico-democratica, la precedenza della società rispetto allo Stato. Un viatico che porta Martinazzoli a sostenere come “per questa strada diventerà sempre più salda e transitiva la visione del rapporto società-Stato e si chiarirà che lo Stato non modifica, ma arricchisce la società” e che infine – questa la conclusione perentoria, persino apodittica –“ non può esistere società senza Stato”. Restano a questo punto da chiarire ancora due svolgimenti, il primo compiuto, il secondo soltanto ipotizzato. Come ha avuto modo di sottolineare acutamente Ilario Bertoletti, in Martinazzoli perspicua era la consapevolezza del carattere artificiale dell’agire politico, consapevolezza ereditata da una tradizione di pessimismo antropologico di lontana ascendenza, largamente interiorizzata dal leader bresciano, secondo la quale non per natura l’uomo sa convivere pacificamente e virtuosamente. Questa artificialità mette in tensione perenne, sempre irrisolta, forse irresolvibile, una nozione tutta procedurale della democrazia ed una visione che, pur riconoscendo l’esigenza ineludibile della regola, raccorda la democrazia a valori e fini di libertà e di progresso, non essendo sufficiente a delineare, cogliere la natura del principio democratico, una pura descrizione storica del suo sviluppo, come esito di un costante processo di separazione della politica dalla religione, dello Stato dalla Chiesa, del mercato dal potere statuale, della legislazione dall’amministrazione, dell’attività giudiziaria dal comando dell’esecutivo. L’attenzione dell’ultimo Martinazzoli - per lui non solo un rompicapo intellettuale, ma un rovello etico -, attenzione che nel suo proposito avrebbe dovuto tradursi in un libro dedicato al noto paradosso di Ernst Wolfgang Böckenförde secondo il quale “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire”, si volge all’interrogativo circa le risorse morali della democrazia e i fondamenti antropologici della politica. Sullo sfondo la consapevolezza che nella contemporaneità ideologia, etica, antropologia sono venute via via costituendo l’impalcatura sulla quale regge la politica. Come ha testimoniato lo stesso Bertoletti: in che modo garantire le libertà plurali dei singoli quando la libertà viene sempre più univocamente intesa come arbitrio, privilegio, licenza, immunitas non come garanzia liberale, ma come prerogativa riservata a pochi, come coltivazione, senza limiti o responsabilità verso l’altro del proprio personale interesse, come negazione della prossimità, come libertà dei pochi che si ribalta in illibertà dei molti? Questo l’enigma teorico, politico-sociale che Martinazzoli avrebbe dovuto districare in un saggio dal titolo, emblematico per lui, Malinconia della democrazia, quasi a simbolizzare problematicità e caducità dell’odierna democrazia alle prese con ecatombe della politica, volontà di potenza dell’economia, della finanza e dominio della tecnica. Per l’“impolitico” Martinazzoli il problema di sempre e di una vita – il rapporto verità, etica, politica – reso ancor più complesso, carico di tensioni dalla circostanza che “oggi tiene il centro della scena e sembra dominarla un impotente crepuscolo” per cui – ed è questo l’approdo di un’autentica fede cristiana– non resta che aleggiare, contra spem, una, per quanto tenue, speranza, “la speranza umana cui il nostro stigma cristiano dà amore e valore”.
“L’aggettivo cattolico non è un aggettivo del politico. È più importante, è un aggettivo dell’impolitico. In politica il mondo cattolico non c’è. In politica ci sono i cattolici che scelgono di occuparsene, quelli che scelgono di non occuparsene e ci sono quelli che se occupano in un modo e altri in un modo diverso. E si qualificano così non perché sono cattolici”.
Insomma sul piano storico la convinzione che nella vicenda italiana abbiano avuto un ruolo e un peso, siano stati per lunghe fasi determinanti non i cattolici impegnati in politica in nome dell’Italia cattolica, ma coloro che hanno assunto responsabilità in quanto cattolici in Italia. Una valutazione che sul piano politico assume conseguentemente il valore di una prescrizione. Ma vediamo pure da vicino, per quanto in rapida sintesi, gli snodi più significativi, dall’assunzione della segreteria democristiana allorchè “più che per acclamazione”, viene eletto per “disperazione”, alla fondazione del Ppi sino all’ultima battaglia sostenuta in Lombardia. È ancora Moro ad essere periodizzante per Martinazzoli: la sua fine rappresenta la cesura di un intero tracciato, pone termine alla fase in cui è ancora data la possibilità di giungere al riconoscimento reciproco da parte dei grandi partiti popolari, della legittimazione a governare, inaugurando per la Dc anni di pura sopravvivenza prima e poi di progressiva decadenza, privandola di una politica all’altezza di una visione, di un disegno, di una durata. Ancora: diventa sì possibile l’alternanza, ma senza partecipazione, senza prospettiva strategica, quell’alternanza che è pienezza democratica, ma che viene raggiunta – ed è fenomeno di non breve periodo – attraverso l’antipolitica. Questa la diagnosi di Martinazzoli : “Volevamo un cambiamento che desse più spazio alla società, più equità ai cittadini, che ridefinisse le regole, la moralità, l’autorevolezza dello Stato democratico”, di contro ad una Dc che, nella fase del “preambolo”, si è ridotta ad un partito che “passa sempre più le giornate a contare le tessere e la sera a commentare le encicliche”, riducendosi “quasi ad un cimitero”. Questa, in definitiva la proposta per la Dc nella fase del suo epilogo, la possibilità, anzi il dovere “di essere più democristiani di prima”, “meno il nostro potere più il nostro progetto”, un partito che, liberato dalla damnatio gubernandi potesse finalmente autenticare la propria missione sulla base di una durata veritiera e permanente dell’ispirazione cristiana. Dunque un’idea rinnovata di partito retto sul volontariato degli iscritti, su di un alto grado di mobilitazione e responsabilità personale di militanti e dirigenti, in rapporto ad una competizione politica collocata sul terreno della appetibilità della proposta programmatica, anziché su quello delle pratiche di lottizzazione, di tessitura di compromessi e transazioni. In definitiva un “partito programma”, “progetto vivente”, d’ impronta neosturziana, anziché un “partito sistema”. “Io sono un democristiano – dichiara- interessato al superamento del cosiddetto sistema democristiano”. La nascita del Ppi rappresenta, dunque, non solo la testimonianza comprovata che “non siamo scomparsi e non siamo dissolti”, ma anche “un punto di resistenza”, un “fatto nuovo” il cui fulcro dovrebbe consistere “nel pensiero di una libertà solidale”. Secondo un’idea del tutto originale, quanto autentica, dell’essere solidali.
“La solidarietà umana – già aveva sostenuto all’indomani della sua investitura a segretario Dc – sarà sempre di più non tanto una disponibilità a dare, magari il superfluo, ma dovrà divenire sempre di più una disponibilità ad essere. Essere questa sensibilità, questa idea di storia umana, di obbligazione, di appartenenza ad un rosario infinito di creature”, un’obbligazione “che ciascuno di noi contrae e non solo con i viventi, ma con quelli che hanno camminato e con quelli che cammineranno sullo splendore e sul dolore della terra”.
Un partito all’opposizione che, dopo la vittoria riportata dal Polo della libertà e del buon governo, intende distinguersi dalle altre opposizioni, nè confondersi o illanguidirsi nel polo progressista perché, “allo stato delle cose la Destra si può sconfiggere solo con un’opposizione di centro”. Di fronte a Berlusconi e al suo partito, “una simil democrazia cristiana più dorotea che cristiana, un partito di massa più d’ordine che liberale (…) con gli ammodernamenti del caso, comprese le nuove radici delle antenne televisive e l’irresistibile narcisismo della leadership”, Martinazzoli ribadisce che “solo il popolarismo è l’antidoto per costruire una democrazia moderna dove il cittadino non si senta solo, ma in solidarietà con gli altri”. Come siano andate le cose è a tutti noto: il 30 marzo del 1994, con un fax, un gesto certamente impolitico, rassegna le proprie dimissioni, non una fuga, un abbandono, tantomeno una diserzione, piuttosto, come scrive su “Il Popolo” il giorno dopo, “poiché gli insuccessi elettorali portano inevitabilmente all’indugio sui processi delle responsabilità è bene che queste siano riconosciute e rispettate. Così è serenamente avvenuto, Per fedeltà.” Al di là della lezione di stile del tutto inusuale nel panorama politico, gioca nella scelta di Martinazzoli la consapevolezza di divaricanti, contrastanti valutazioni all’interno del Ppi, e nella stessa area cattolica, circa il significato da attribuire all’esito delle consultazioni – per taluni il preannuncio di una fine, per lui il cominciamento di un nuovo inizio –, nonché al ruolo da assegnare alla forza elettorale che il partito ed il “Patto per l’Italia” hanno riportato alle consultazioni.
“Quando mi resi conto (…) che le voci, non tutte per fortuna, ma troppe, delle persone che da me erano state avvalorate nella gestione del partito, si levavano per interpretare il risultato elettorale in termini di sconfitta o addirittura di disfatta, io ho percepito che se fossi rimasto là non sarei stato comunque in grado di dare una mano”.
Dirimente resta comunque la questione delle alleanze come risultanza dell’interpretazione da annettere alla vocazione centrista del Ppi. Martinazzoli non condivide l’ineluttabilità dell’evoluzione in senso bipolare del sistema politico; c’è, a suo giudizio, un fraintendimento di fondo in questa prospettiva di cui, da parte cattolica sul piano politico-culturale, si fa corifeo Pietro Scoppola. La polemica si arroventa lungo le linee di una contesa non certo attestata esclusivamente sul piano del giudizio storico.
“Mi sembra di capire che questo è vero nella tradizione anglosassone, ma non è per niente vero per le grandi democrazie continentali europee (…) e se Scoppola spiega che dobbiamo accettare di fronte all’elettorato un ruolo di parte nella dialettica democratica, dico che in questa esortazione vi è una vecchia idea del centro che non è la mia”.
L’impostazione martinazzoliana, certamente non equidistante da Destra e da Sinistra secondo la lezione degasperiana della Dc “partito di centro che cammina verso sinistra”, come documenta per altro lo schieramento che lo sorregge di lì a poco nella candidatura a Sindaco di Brescia, vale sia nei confronti del Pds, verso il quale comunque “non potremo far rivivere una preclusione di principio che significherebbe la sopravvivenza di una storia oltre se stessa”, al di là del fatto che gli ex comunisti pretendono “di aver ragione di aver avuto torto”, e sostengono che “non sono più quelli che sono stati in passato, ma non sono in grado di dire ciò che sono oggi”, sia verso Forza Italia, un partito di “scassinatori del consenso” i quali si avvalgono di “alcune denominazioni ripetute ossessivamente (….) ed utilizzate come talismani”, nonché del “potere più forte che è quello della menzogna”. Nè più indulgente è il giudizio nei confronti della Lega di Umberto Bossi, definito agli inizi della sua carriera politica, un “Paneroni della politica” vale a dire, per chi non conosce la vicenda di questo bresciano, “geografo” ciarlatano e visionario, un venditore di chiacchiere e di fumo.
“Quando sento un autorevole esponente della Lega spiegare che allo stesso modo come hanno fatto un’alleanza di là, potevano farla di qua, allora mi dico: questa è la borsa, non è la politica, è il linguaggio del Mibtel, del chi ha comprato chi, del chi ha venduto cosa.” E ancora: “non possiamo incontrarci con la provocazione della Lega che rappresenta esattamente la presunzione della nostra sconfitta politica e la pretesa del nostro fallimento ideale”.
Su questo centrismo non statico, ma dinamico, attivo, dialogante a sinistra, pur nella permanenza di riserve critiche - un centro inteso come luogo di sintesi politica tra costituzionalismo liberale e riformismo sociale - tenacemente sostenuto anche nel tempo successivo al ritiro dalla politica militante, Martinazzoli si attesta senza deflettere, convinto che la sua più, che un’ impossibile scommessa, sia “una verità”, tutt’al più “forse prematura”, adducendo motivazioni del tutto coerenti con il percorso compiuto. In proposito potrei addurre più di una testimonianza personale. Valgano comunque le sue ragioni. Così, ad esempio, motiva la sua candidatura a Brescia:
“Gli amici del Pds non sono venuti a chiederci dei voti. Erano infatti in grado di presentarsi da soli con una candidatura autorevole. Sono venuti invece a dire che assegnavano al Ppi un ruolo maggiore dei consensi che esprime. Questo è un riconoscimento del centro (….), di una polarità dei popolari”.
Una valutazione che anni dopo viene ribadita e confermata di fronte all’ipotesi di un “partito dell’Ulivo” cui Martinazzoli nega un fondamento comune ed una cultura unificante poiché la forza dell’”Ulivo” in quanto “alleanza politica di governo” sta, invece, a suo giudizio, “nella ricchezza delle sue diversità, non in un appiattimento conformistico destinato ad essere egemonizzato da una Sinistra che rifiuta il suo passato senza disporre di una idea precisa del proprio futuro”. Espressioni che per altro, al di là della retorica, della stessa leggenda diffusa ed alimentata da taluni all’indomani della scomparsa di Martinazzoli, fanno giustizia di una strumentale quanto del tutto improbabile attribuzione a lui di una sorta di demiurgico ruolo di “precursore” o addirittura – sino a questo punto qualcuno si è inoltrato – di “uno tra gli artefici del Partito democratico”. Partito nei cui confronti Martinazzoli mai è stato tenero od omissivo di critiche anche perentorie e assai dubitative di una probante plausibilità.
“Parole senza pudore e senza qualità intasano la chiacchiera dei partiti. Le fattucchiere del politichese riempiono di nulla questa infelice stagione politica. Forse non vale la pena di entrare nel fuoco della controversia, che è un fuoco fatuo. Conviene chiedere soccorso alle risorse dell’ironia e della pietà. Ci aiutano a ritrovare la misura umana della politica e risarcire la sua incompetenza della vita”.
Appunto la vita – come a dire che il metro di misura della politica non si riduce al suo successo –, quella vita che l’”impolitico” Martinazzoli si è sforzato di ricondurre all’orizzonte senza confini della Verità.