Salario minimo: l'Europa c'è e noi?

Francesca Vagniluca

20 Giugno 2022

La bozza di direttiva sulla giusta retribuzione e l'estensione della contrattazione collettiva è stata approvata dai rappresentanti di tutti gli Stati con il voto contrario della Svezia e della Danimarca e l'astensione dell'Ungheria. Ora tocca al Parlamento europeo. Poi ci saranno due anni di tempo per applicarla.

L'Europa sociale sta prendendo corpo e forma con proposte ed azioni concrete.

Nel nostro Paese le forze politiche si dividono su questo tema, ma i sindacati, in particolare la CGIL, accolgono con favore la proposta di salario minimo inscritta nella contrattazione collettiva.

Infatti, l’obiettivo prioritario è proprio quello di arrivare alla definizione di una retribuzione giusta, al di sotto della quale un lavoro non può essere definito tale, attraverso un contratto stabilito tra le parti sociali. Ne consegue un tasso di copertura molto più elevato dei contratti collettivi nazionali e territoriali.

In Italia, ad oggi, si può essere poveri pur lavorando ed è una condizione che appartiene a molti lavoratori primi fra tutti quelli agricoli del centro sud, sfruttati e sottopagati.

Purtroppo però anche i dipendenti del terzo settore, i cosiddetti cooperatori sociali, hanno stipendi bassissimi  a fronte di specializzazioni e titoli  conseguiti di alta formazione.

Spesso le retribuzioni sulla carta non corrispondono a quanto effettivamente percepito perché il ricatto implicito ed esplicito a cui sono sottoposte alcune categorie di lavoratori è ormai una prassi decennale. Un esempio classico è costituito dal settore della ristorazione che infatti fatica a reperire forza-lavoro nel periodo della ripartenza a causa di retribuzioni inadeguate, non rispondenti ai livelli contrattuali o prive di tutele.

L'attenzione rivolta al salario minimo, che consenta ad una persona di vivere dignitosamente, deve andare avanti di pari passo con l'aggiornamento dei contratti scaduti da più di tre anni e con la lotta vera, incessante al lavoro nero.

In Italia i lavoratori irregolari sono più di tre milioni, un mondo parallelo che, secondo un recente studio della Confartigianato, "vale" 202,9 miliardi di euro e rappresenta l’11,3% del Pil e il 12,6% del valore aggiunto.

I settori con il maggior numero di lavoratori in nero sono le imprese edilizie, dell’acconciatura ed estetica, dell’autoriparazione, dell’impiantistica, della riparazione di beni personali e per la casa, del trasporto taxi, della cura del verde, della comunicazione, dei traslochi, del manifatturiero con particolare riferimento agli imprenditori cinesi.

Se ci fosse la volontà politica, il nostro Paese potrebbe ridurre le disuguaglianze sociali, inasprite duramente negli anni della pandemia ed acuite dall’inflazione crescente.

Una classe politica capace mette in campo tutte le azioni volte a far funzionare meglio la macchina dello Stato, si adopera per far rispettare le regole, per far pagare a tutti, in maniera progressiva e non proporzionale, le tasse che servono necessariamente ad alimentare i servizi essenziali su cui lo Stato democratico si fonda.

È triste e vergognoso constatare che la politica italiana non si occupi di come creare il lavoro e della redistribuzione della ricchezza quando ha ogni strumento per farlo.

A fronte di bonus e mance elettorali, i cittadini chiedono trasparenza, coraggio nelle scelte e giustizia sociale!