IL TAR DEL LAZIO E L’INSEGNAMENTO DELLA RELIGIONE

Lino Prenna

1. Una sentenza discutibile

Assicurata ma facoltativa è il titolo di un libro sull’insegnamento della religione, pubblicato dall’AVE 12 anni fa, con la prefazione di Pietro Scoppola. Nel titolo avevo cercato di sintetizzare l’ambiguità della nor­ma­tiva che regola questo insegnamento, a partire dall’Accordo di revisione del Con­cordato del 1984 e dal­l’Intesa del 1985 con successive modifiche. È un’ambiguità con­trad­dit­to­ria, poiché risulta dal tentativo dei contraenti, Chiesa cattolica e Repubblica italiana, di coniugare in un profilo unitario, confessionalità e lai­cità, per dare legittimazione scolastica e proporre come og­get­to di studio ciò che per la Chiesa cattolica è verità di fede. Così, l’oggetto di questo inse­gna­men­to è la religione cattolica ma da impartire secondo le finalità della scuola; la scuola pubblica ha il dovere di assicurarlo ma gli studenti hanno la facoltà di non sceglierlo; è disciplina curricolare, con pa­ri dignità rispetto alle altre, ma non è materia di esame; è legittimata dalla rilevanza culturale del fatto religioso ma dispone di una sola ora…

L’ambiguità della normativa ha finito per consegnare alla scuola una disciplina scolasticamente a­ti­pi­ca, con un alto potenziale di contenziosità e terreno di esercitazioni interpretative alla giu­ri­spru­den­za interpellata. Si spie­ga, così, la discutibilità delle sentenze dei vari Tribunali amministrativi e, per ultima, quella del TAR del Lazio.

Purtroppo, anche questa volta, la sentenza è stata accolta e commentata con parametri ideologici e, per­ciò, inevitabilmente pregiudiziali: condivisa e difesa come rivendicazione della laicità della scuo­la; contestata e attaccata come lesiva della libertà di fede degli studenti. In realtà, la sentenza re­perisce le sue motivazioni nella natura confessionale dell’insegnamento e sostiene che, “quella di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica” è “una scelta di carattere religioso degli studenti e dei loro genitori”. Perciò, “un insegnamento di carattere etico e religioso strettamente attinente alla fede individuale non può assolutamente essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico”. Queste affermazioni hanno portato il Coordinamento Genitori Democratici a sostenere che “la scelta di frequentare l’ora di religione attiene ai convincimenti personali e non può essere misurata come una materia di insegnamento”.

Dunque, la sentenza ha trascurato del tutto il profilo scolastico dell’insegnamento di religione cat­to­li­ca, definito più che sufficientemente nella normativa attuale. Tra gli elementi di novità, introdotti dal­l’Accordo di revisione del Concordato, rispetto al dettato del 1929, c’è l’esplicito riferimento alla declinazione scolastica dell’insegnamento che la Repubblica si impegna ad assicurare, isti­tu­en­do­lo “nel quadro delle finalità della scuola” (art. 9.2). L’Intesa tra il Ministero della Pubblica Istruzione e la Conferenza Episcopale Italiana (DPR 16.12.1985, n. 751 – DPR 23.6.1990, n. 2002) pre­cisa che tale insegnamento, “impartito nel quadro delle finalità della scuola, deve avere dignità for­mativa e culturale pari a quella delle altre discipline”. Di conseguenza, gli insegnanti incaricati di re­ligione cattolica sono equiparati agli altri insegnanti e “fanno parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri insegnanti”. Naturalmente, la loro par­te­cipazione alle valutazioni periodiche e finali è limitata ai soli avvalentisi.

Da questa normativa si deduce che l’insegnamento di religione cattolica è “materia curricolare” co­me, del resto, ha precisato il Consiglio di Stato nel 1987 (28 agosto, nn. 578 e 579) e che gli in­se­gnan­ti di questa disciplina hanno pieno titolo di partecipazione ai momenti valutativi della didattica sco­lastica. L’eventuale diversa modalità di valutazione non annulla o riduce la loro piena titolarità di docenti. Infine – ma avrei potuto dirlo agli inizi – va rilevato che l’insegnamento di religione cat­to­lica non è attinente alla fede individuale e che la scelta di avvalersene non ha carattere religioso. Forse lo è per alcuni e, comunque, non è intesa così dalla normativa.

2. Oltre la facoltatività: un insegnamento per tutti

La sentenza del TAR del Lazio denuncia anche una condizione discriminatoria delle altre religioni ri­spetto a quella cattolica e sostiene che lo Stato “non può conferire ad una determinata confessione una posizione dominante violando il pluralismo ideologico e religioso”. Non entro nel merito di questa affermazione, ineccepibile dal punto di vista teorico ma discutibile, se riferita all’attuale as­setto costituzionale delle relazioni fra Stato e confessioni religiose. Ricordo appena che i rapporti con la Chiesa cattolica sono regolati dai Patti lateranensi, recepiti nell’articolo 7 della nostra Carta co­stituzionale, mentre i rapporti con le altre confessioni sono regolati sulla base di intese, come re­ci­ta l’articolo 8. C’è dunque una differenza, non solo nella strumentazione giuridica, tra i vincoli con­cordatari, sanciti costituzionalmente, e quelli derivanti dalla legislazione delle varie intese. Peraltro, nell’Accordo di revisione concordataria si dice che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (art. 9.2): ciò che non si può dire, allo stesso modo, delle altre confessioni religiose.

Comunque, opportuno mi sembra il richiamo al pluralismo delle culture e delle fedi, per ripensare spa­zi e tempi del discorso religioso nella scuola, convinti più o meno tutti che la soluzione con­cor­da­taria è insufficiente e inadeguata ad accreditare la religione come cultura e a sviluppare il po­ten­zia­le educativo del discorso religioso.

Nella società plurale, quello che, forse enfaticamente, è stato definito “il ritorno di Dio” ha ac­cre­sciu­to la consapevolezza della rilevanza culturale e del ruolo pubblico della religione. Ma la società stes­sa, nei luoghi istituzionalmente incaricati dei percorsi conoscitivi e della elaborazione culturale, ap­pare fortemente carente di strumenti adeguati di conoscenza critica dei fatti religiosi e dei principi etici, già consegnati alla storia, e di quelli che, sempre più, si intrecciano con la nostra vicenda quotidiana.

Il Consiglio d’Europa da anni sollecita le politiche nazionali a mettere l’educazione al centro della costruzione di una società democratica e segnala il ruolo crescente che le religioni stanno as­su­mendo nella trama quotidiana della vita sociale e politica. Perciò, ritiene doveroso fornire a tutti i cit­tadini le necessarie conoscenze e competenze per comprendere l’universalità dell’esperienza re­li­gio­sa nella cultura dei popoli e le tavole normative dell’agire umano. Tuttavia, “lo studio delle reli­gio­ni nelle scuole non è ancora diventato oggetto di particolare attenzione” (Raccomandazione 1720 del 2005, 11).

Dunque, la scuola, luogo istituzionale delle conoscenze, non può non sentirsi provocata da quella che potremmo chiamare “domanda implicita di cultura religiosa” e non può non riappropriarsi della pie­na titolarità di competenza sull’intero universo culturale, nel quale rientrano i fatti religiosi. Da que­ste considerazioni mi sembra che si possa configurare il diritto-dovere della scuola stessa di ri­ser­vare tempi e modalità scolastiche adeguati allo studio dei fatti religiosi e delle convinzioni etiche, istituendo un corso curricolare di cultura interreligiosa, declinato sulle tre religioni del mediterraneo, ebraica, cristiana, islamica, da articolare su base storico comparata e con impianto fe­no­menologico-ermeneutico.

Già in passato, abbiamo avanzato proposte simili, sempre accolte dalla diffidenza e ostilità di varie parti. Oggi auspichiamo nuove e maggiori disponibilità, non solo da parte delle Chiese ma anche dal fronte che vorremmo davvero laico e non laicista. Giancarlo Bosetti, in un libro appena pub­bli­ca­to, parla del “fallimento dei laici furiosi” e sostiene che le religioni, nelle democrazie liberali, so­no non solo tollerabili ma benvenute e necessarie, perché inseparabili dal corso della storia e dalle vi­cende umane.

Questa allargata attenzione al fenomeno religioso può incoraggiare la Chiesa cattolica a liberarsi dal­la sindrome dell’assedio e a ritrovare il senso alto e originale della sua missione nell’accresciuta plu­ralità delle culture e delle fedi. Si tratta di far cadere tutti i pregiudizi, clericali e anticlericali, per svi­luppare una stagione di serena collaborazione al servizio del bene comune, come auspicato dal­l’Ac­cordo di revisione del Concordato.

Intanto, giacché il percorso per giungere a questa soluzione non sarà breve e per ovviare ad alcune si­tuazioni, oggetto del ricorso al TAR del Lazio, è necessario impegnare il Parlamento ad istituire per i non avvalentisi dell’insegnamento di religione cattolica, l’ora alternativa, come vera materia sco­lastica, attinente all’area sociale-etico-religiosa.