La centralità del “lavoro” al Convegno Cei di pastorale sociale ad Assisi

Ottobre 2009                                                                                                                                              Alvaro Bucci

Il lavoro è stato uno dei temi più rilevanti affrontati al Convegno nazionale di pastorale sociale dell’Ufficio per i problemi sociali e il lavoro svoltosi in Assisi la scorsa settimana. Un convengo che, nell’arco di quattro giorni, ha analizzato gli aspetti essenziali dell’enciclica “Caritas in veritate”, con l’impegno di “far risplendere attraverso la dottrina sociale della Chiesa la verità dell’amore di Dio per ogni uomo”.

Al tema del lavoro è stata dedicata innanzitutto una delle sessioni del convegno con una relazione di Sergio Belardinelli, ordinario di Sociologia dei processi culturali all’Università di Bologna. Nell’epoca post-moderna – secondo Belardinelli – segnata dal “lavoro come privilegio di pochi”, occorrerebbe “cercare di rimettere la persona umana al centro del mondo produttivo” perché “non avrebbe alcun senso parlare di vita buona senza che anche il lavoro diventi più umano”. Rilevante, quindi, la riproposizione, nell’enciclica di Benedetto XVI, di quel “lavoro decente” che sia “l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna”. E allora, secondo il sociologo, “c’è bisogno di una svolta culturale che sappia valorizzare il grande capitale culturale e sociale, oltre che economico, che si esprime attraverso il lavoro” attraverso, cioè, la competenza, l’inventiva e il senso del proprio dovere che “possono aiutarci a riconferire il giusto senso al lavoro”.

Ed il lavoro è ritornato ampiamente al centro della discussione alla tavola rotonda conclusiva del convegno attraverso gli interventi di Michele Tiraboschi, ordinario di Diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia, Laura Zanfrini, docente di Sociologia all’Università Cattolica di Milano, e di Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica all’Università di Bologna. Un confronto vivace e approfondito stimolato, oltre che dal tema sul Libro bianco “La vita buona nella società attiva” del  ministro Sacconi (interventuto il giorno prima), dal dibattito accesosi sul “valore” del “posto fisso” riproposto  dal ministro Tremonti.

Michele Tiraboschi ha subito precisato che “la stabilità vera è la stabilità dell’occupazione, non del posto fisso: la possibilità cioè, per il lavoratore, di avere continue proposte di formazione che gli consentano di essere sempre appetibile per il mercato del lavoro”. La garanzia di “un’occupazione buona, un’occupazione di qualità, un’occupazione stabile, che consenta alle persone di essere serene, sicure, di guardare con fiducia al futuro”  può realizzarsi “attraverso la formazione, le competenze, i saperi delle persone” nonché “un modo diverso di fare impresa, di fare sindacato, di fare relazioni del lavoro, di fare relazioni industriali”. Ed occorre capire  che “nell’impresa si possono realizzare delle convenienze reciproche tra imprenditore e lavoratori”.

Laura Zanfrini ha voluto tra l’altro precisare che “la qualità del lavoro non può coincidere solo con la regolarità, caratteristica pur essenziale per contrastare il lavoro nero e sommerso”. E’ infatti importante pensare anche al “lavoro decente”, richiamato dalla Caritas in veritate, perché “molte volte il lavoro è inaccettabile perché indecente” , come può esserlo per una donna che dovrebbe stravolgere  la sua situazione familiare a fronte di un lavoro di breve durata.

Stefano Zamagni, ricordato come la flessibilità sia stata imposta dalla globalizzazione e dal fatto che “le nuove tecnologie hanno creato una asincronia tra il ciclo tecnologico e il ciclo lavorativo”, ha precisato subito che la precarietà è la risposta errata all’esigenza della flessibilità”. Ed ha chiarito che è sbagliato ricorrere al posto fisso e che “quello che tendenzialmente dobbiamo garantire  è il lavoro fisso, cioè che in ogni fase della vita una persona possa avere accesso al lavoro”. Allora, considerato che la precarietà è un male perché “genera insicurezza e riduce gli spazi di libertà”, di cui un cristiano non può fare a meno,  e  che “al tempo stesso il posto fisso è anacronistico e, comunque, non è un obiettivo da perseguire”, Zamagni ha offerto in conclusione tre proposte: atteso che il settore capitalistico dell’economia non può occupare più del 70 per cento della forza lavoro, occorre “trovare gli altri soggetti d’impresa che possono occupare il restante 30 percento della forza lavoro” sviluppando il settore non capitalistico dell’economia[1]; arrivare a rendere possibile “la compatibilizzazione dei tempi del lavoro con i tempi della famiglia” attraverso la “flessibilità giocata nell’arco della vita delle persone”; “rapporto tra mondo della scuola e mondo del lavoro” che debbono dialogare e concorrere per la definizione degli obiettivi e degli schemi di organizzazione del lavoro.



[1] Si tratta delle imprese sociali, civili, cooperative che perseguono fini sociali di utilità collettiva. Per il loro sviluppo occorrerebbe cambiare il libro I del codice civile (la riforma è già pronta da un anno e mezzo, ma il Parlamento non riesce ad approvarla). Come pure si dovrebbe recepire la risoluzione del Parlamento europeo del febbraio scorso che invita i 27 paesi dell’U.E. a modificare le legislazioni del diritto commerciale per consentire alle imprese non capitalistiche di gareggiare ad armi pari con le capitalistiche.