Centro e ceto medio: equazione non scontata

Nino Labate

da Europa - 29 dicembre 2011

La sociologia politica suggerisce che il centro nello spazio politico e nelle dinamiche del voto periodico è importante. Bipolarismo o meno, in tutte le elezioni i partiti “decentrati” cercano in ogni modo di stringere sulla gobba del centro per intercettarne i voti. Tutto allora sta ad intendersi sul centro dei nostri giorni. Un termine spesso assimilato a classe media, ceto medio, moderato, conservatore, popolare, piccolo borghese, se non addirittura ceto borghese. Grande confusione dunque. Che aumenta quando si passa al mondo cattolico.

È noto che la secolarizzazione connessa al passaggio della società contadina a quella industriale e a quella postindustriale, trascina il ceto medio italiano al disincanto dai valori cristiani. Senza riandare a Weber, basti leggere i recenti saggi di Garelli e Cartocci. Un ceto fai-da-te, cattolico all’anagrafe, e che anche nella sua versione moderata disattende i precetti della Chiesa a cui dichiara nei sondaggi di appartenere. Spesso chiuso nell’egoismo del proprio orticello dentro cui la tradizionale sobrietà diventa un optional, e la solidarietà si trasforma in paura del diverso. Oggi composto da famiglie impoverite e sfiduciate, con il 40% degli “under 30” disoccupati e precari.

Influenzato dai contenuti emotivi più che ragionativi della tele politica. Che delega. Dunque nelle mani dei “populismi della promessa” e dei loro leader carismatici. Un ceto medio insomma che, come sostengono De Rita e Galdo, ha fatto scomparire la borghesia virtuosa del fare, senza mai sostituirla. E una middle class, come ebbe a dire C. W. Mills «al suo interno divisa, atomizzata, e all’esterno i suoi membri costretti a dipendere da forze più grandi di loro». Domandarsi allora perché costumi, abitudini, strutture sociali e categorie sociopolitiche del Novecento sono diventati ai giorni nostri obsoleti, significa interrogarsi sull’ovvio. Il declino del ceto medio sul versante del reddito, è un dato di realtà acquisito. Ben esemplificato dai sacrifici, dai risparmi inesistenti, dall’assalto ai discount. Ma anche dalla crescente presenza nelle mense Caritas su cui si tace per evitare di parlare di nuove diseguaglianze.

Possono tutti questi motivi provocare la scomparsa del proverbiale moderatismo che continuiamo ad associare a questa classe di mezzo? È lecito supporre che avendo da fare con la precarietà, con la disoccupazione dei figli, con famiglie di “terza settimana”, una larga parte di questa fetta di società possa essere attratta dall’antipolitica, dal disinteresse, dall’indignazione estremista, dalla rabbia, anziché dal moderatismo? È in questo orizzonte che si è collocato l’incontro dei cattolici che si è svolto a novembre a Todi. Un incontro utile ma avventurosamente frainteso una volta costretto a saltare dal prepolitico al politico e dunque a guardare al ceto medio-moderato come serbatoio di voti cattolici.

Anche se in una intervista al Corriere Bagnasco ha precisato che «l’unità politica dei cattolici non si costruisce necessariamente tramite un partito». Una ulteriore sottolineatura che non frena tuttavia il desiderio strisciante di una nuova “unità politica” di centro. Come stanno al momento le cose? L’Ipsos ha rilevato che nelle politiche del 2008,circa il 27 % dei fedeli assidui alla messa domenicale, (da 4 a 6 milioni circa di elettori) ha votato con convinzione Pd, e in un più recente sondaggio per la Fondazione Grandi, ha evidenziato che l’80% dei cattolici praticanti pensa che una forza politica cattolica è sbagliata, non serve. Definirli cattocomunismi, cattolici democratici, dossettiani, lapiriani, lazzatiani, oppure popolari statalisti e antimercato, peggio centralisti antiliberali, significa ignorare il filo rosso che lega i 100 anni di storia del movimento cattolico alla dialettica democratica e alla non sempre arrendevole Dottrina sociale della Chiesa.

Questi dati ci fanno però capire che il cattolicesimo italiano non è omogeneo. Che c’è un praticante non conservatore, riformista, che guarda al bene comune declinandolo laicamente senza pregiudizi identitari. Da autentico laico cristiano consapevole del pluralismo possibile solennemente enunciato dal Concilio.

Se in onore di De Gasperi si esclude che un nuovo centro “guardi” alla destra deberlusconizzata per occuparla, è probabile che aiutata dalle contraddizioni del bipolarismo italiano e da qualche legge elettorale proporzionale si strutturi una nuova offerta politica centrale a cifra cattolica. Tuttavia quando si osserva questo centro sotto forma di Terzo polo, bisognerebbe subito chiedersi di che centro e cifra cattolica si tratti. E verso dove esso vuole “guardare”. Si pensa a un centro clerico-moderato conservatore? A un centro confessionale e intransigente solo sui principi irrinunciabili? Un centro laico-cattolico per attrarre voti, stili di vita, attese, personale politico ed elettori transitati dalla “rivoluzione” etica berlusconiana? Più che alla quantità del consenso, questo “centro” dovrebbe allora preoccuparsi di non rappresentare un “centro senza qualità”.

Se non si cerca l’approdo al partito di interessi o al partito piglia tutto, di opinioni immanenti e transitorie, tipici del marketing politico a prevalente uso del sondaggio, è allora a un paziente lavoro culturale “prepolitico” che bisognerebbe rivolgersi, come ha ben intuito la Chiesa di Bagnasco: «Occorre un soggetto culturale che interloquisce con la politica». Tutto il resto è gioco politico.

Anche perché è ancora vivo e vegeto nel tessuto culturale del cattolicesimo italiano il pluralismo della storica distinzione sturziana tra cattolici democratici e cattolici clerico-moderati, tra cattolici riformisti e conservatori, tra cattolici laici e curiali. Distinzione ribadita in un incontro romano dal titolo “Costituzione, Concilio, cittadinanza”, da 20 associazioni di tradizione cattolico-democratica e popolare non presenti a Todi. E nella galassia laica è presente un anticlericalismo ideologico pronto a sparare sulla Chiesa ad ogni occasione.

Tutto si potrà fare. Ma basta essere consapevoli dei rischi di rappresentanza che si corrono con il paese sfidato, a partire dal lavoro, da una nuova “questione sociale”. E di quelli sconosciuti che si possono fare correre alla Chiesa del dialogo e degli ultimi, una volta collaterale a questo progetto. Il futuro sul dopo Berlusconi è cominciato: pure se rimarremo in presenza per molto tempo del berlusconismo. Ma trasformare una più che giusta esigenza di formazione etica e culturale, di competenze, di spiritualità civica – di cui l’Italia ha molto bisogno – in un partito politico preoccupato della cattura del consenso e dei rapporti di forza, più che dei rapporti di saperi, significa preoccuparsi dell’oggi.