Post-democrazia e classe dirigente

dalla relazione al 68° Corso di studi di Assisi

di Gian Enrico Rusconi
1 Ottobre 2010 

 

Si parla drammaticamente di «fine della democrazia», di «post-democrazia» - senza riferirsi in modo specifico all'Italia. Il termine è stato coniato per altre esperienze nazionali. È suggestivo, ma merita una riflessione critica. L'uso e l'abuso della particella post applicata alla democrazia e a quasi tutti i fenomeni attuali segnala l'incapacità di definire la condizione specifica del nostro tempo. Rischiamo di essere epigoni che si definiscono soltanto per differenza da ciò che c'era prima – un prima spesso idealizzato.

Nel caso italiano parlerei più banalmente di «democrazia che c'è». O che ci meritiamo.

I milioni di italiani che accettano il politico esistente sono dei turlupinati o degli sprovveduti? Stento a crederlo. Sono complici? Ma di che cosa sono esattamente complici? Nel nostro paese - dove quasi tutti gli studiosi (salvo i berlusconiani) offrono diagnosi sulla soglia del catastrofismo - c'è stato mai un momento storico in cui ha funzionato una buona democrazia? La risposta è affermativa a patto che si cancellino o si sdrammatizzino le critiche dure che gli stessi analisti di oggi (o i loro maestri) avevano fatto a suo tempo. Abbiamo dimenticato la «democrazia bloccata», la «democrazia di massa», la «democrazia senza alternanza», «l'ingovernabilità» e poi il «decisionismo» (craxiano) e «la democrazia dell'applauso» (secondo un'espressione di Bobbio del 1984)? Non era forse unanime fino a qualche anno fa la denuncia che «i partiti» avevano espropriato «i cittadini» di ogni autentica possibilità di partecipazione democratica?

 

La democrazia populista

Si dirà che adesso siamo arrivati ad un punto rispetto al quale i difetti denunciati ieri appaiono persino veniali. Ma allora dobbiamo chiederci se si è trattato di un accumularsi irreversibile di vizi di struttura che non sono stati corretti quando si potevano correggere. Oppure di un «salto di qualità» imputabile a nuovi fattori strutturali generali che elenchiamo come una giaculatoria (globalizzazione, de-industrializzazione, precarizzazione del lavoro, tracollo dei movimenti operai tradizionali, elefantiasi dei sistemi mediatici, e quindi populismi di varia natura).

Ma perché soltanto nel nostro paese questi fattori hanno prodotto l'ascesa irresistibile di un personaggio come Silvio Berlusconi? Il monopolio mediatico-comunicativo e la sovrapposizione degli interessi privati e pubblici (con l'irrisolto conflitto di interessi) sono stati la causa o non piuttosto il sintomo di una insensibilità democratica diffusa e pregressa che aveva cause e motivazioni precedenti?

Nel frattempo il berlusconismo ha realizzato il ricambio di classe politica più radicale dall'immediato dopoguerra senza che si sia creata un vera cultura politica alternativa (per tacere di una politologia che, ai tempi del suo fulgore, si sentiva criticamente organica ad una grande idea di democrazia). Soltanto la cultura clericale è felice (considerando tra l'altro Berlusconi «il vero politico cristiano perché da solo in Europa ha difeso il Crocifìsso in aula» - come si è sentito recentemente in un Tg in diretta dal Meeting di CL. Evidentemente, tutto il resto non conta).

L'impoverimento della riflessione politica è strettamente connesso all'onnipervasivo sistema mediatico-televisivo rispetto ad ogni altra forma tradizionale di trasmissione/mediazione sia dell'informazione che della cultura. La politica è diventata parte dell'intrattenimento dei cittadini. Come intermezzo, o meglio come capo e coda del flusso mediatico.

Che razza di democrazia è questa? Quale rapporto ha con il «popolo» dei cittadini? Da tempo è stato coniato il concetto di «populismo mediatico» che presuppone quello di «democrazia populista». Fermiamoci un istante a riflettere.

Per decenni a sinistra nel nostro paese la critica alla democrazia si è basata sulla distinzione tra «democrazia formale», legata alle elezioni e alle procedure del suo funzionamento (riconosciute necessarie ma insufficienti), e «democrazia sostanziale» orientata ai valori e giudicata sempre insufficiente, sempre carente, sempre attesa, sempre invocata. Oggi questa distinzione ha perso ogni efficacia esplicativa. Basti pensare al profondo cambiamento che ha subito il concetto di diritto/diritti che da espressione «formale» (addirittura «sovrastrutturale nel gergo marxista) è diventata espressione di qualcosa di sostanziale.

 

Chi è popolo?

Per quanto riguarda l'idea di democrazia in generale l'innovazione più significativa nel linguaggio politico è avvenuta nel concetto di «popolo» - il depositario degli interessi sostanziali della democrazia. Pensiamo alla denominazione di «Popolo della libertà» adottata dal partito maggioritario berlusconiano e alla retorica della Lega Nord. In entrambi i casi il riferimento al popolo è usato in senso polemico contro il sistema democratico esistente e le sue regole di rappresentanza.

Di più: Berlusconi ha introdotto la novità del «popolo-degli-elettori». Il «popolo» è chi lo vota. Non è la nazione o la etnia (vera o inventata) ma un evento politico. La democrazia del voto diventa la democrazia tout court. Più la stratificazione sociale nasconde i suoi connotati di classe tradizionali, complessificandosi nella diversità delle fonti di reddito e delle posizioni di lavoro o di precarietà, nella pluralità degli stili di vita e di consumo, nell'autopercezione personale e sociale - più si crea la finzione del «popolo» che persegue i suoi interessi sostanziali seguendo gli interessi del leader. Ancora: nelle intenzioni del leader se questo «popolo» vince le elezioni può pretendere di modificare a suo piacimento la Costituzione. Prende il posto del demos sovrano che è il fondamento stesso della democrazia.

Se questa nostra osservazione è giusta, più che ad un dopo-democrazia siamo davanti ad una mutazione genetica del concetto di demos. Il problema è antico: il demos nato come alta finzione di cittadini liberi, maturi, responsabili è entrato a partire dal XIX secolo prima in collisione, poi in competizione con la classe sociale, trovando quindi faticosi equilibri nelle varie forme di democrazia sociale.

Oggi si annuncia una nuova fase innescata dalla destrutturazione delle classi e dal ruolo decisivo assunto dalla comunicazione di massa. Il demos è socialmente destrutturato e frammentato, ma una parte consistente di esso si polarizza politicamente verso il leader.

 

La società civile

Facciamo un altro passo in avanti nella nostra analisi. Spesso per spiegare l'anomalia italiana molti analisti (a sinistra) parlano di una estraneità tra «il sistema politico» (inefficiente, inadeguato o appunto di semplice «democrazia formale») e «la società civile» (vitale e ricca di risorse e di energie, portatrice di «democrazia sostanziale»). Non a caso oggi molti fanno appello ad una «società civile» italiana che si contrapporrebbe a Berlusconi.

È un errore. Il berlusconismo infatti è esso stesso espressione della «società civile» italiana. O se vogliamo, della sua disgregazione e disorientamento. Molte patologie sociali (generalizzata assenza di senso civico e senso dello Stato, endemica complicita di molte regioni e gruppi sociali con la criminalità organizzata, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non provengono dal di fuori, ma dal ventre della società civile. Naturalmente, non si tratta di negare l'esistenza di gruppi, settori, parti di «società civile» attivi, generosi, preziosi per la realtà concreta della democrazia. Ma si tratta appunto di «pezzi» in senso letterale. È inaccettabile la contrapposizione di principio tra «la società civile» e il «sistema politico» come se fossero due entità autonome.

 

Esiste ancora una classe dirigente?

A questo punto si pone un altro interrogativo. Nel rapporto privilegiato tra popolo dei votanti e leader, che fìne ha fatto la classe dirigente? In Italia esiste ancora una classe dirigente, degna di questo nome?

L'interrogativo viene spontaneo osservando la paralizzante litigiosità della politica, il lamento continuo da parte di tutti i gruppi più o meno organizzati, in una società che tira avanti con alti e bassi, aspettandosi dalla politica soltanto aiuti particolari, facilitazioni, deroghe anziché un disegno complessivo di carattere generale.

Naturalmente questa constatazione provoca l'irritata accusa di disfattismo da parte dei politici della maggioranza che sono convinti di dirigere il paese. E dei gruppi sociali che strettamente li sostengono, anche in campo cattolico. Anzi questi ultimi additano gli avversari e gli osservatori critici come i veri colpevoli della mancata trasmissione della loro sicura guida generale. Denunciano il sistematico ostruzionismo al loro ruolo dirigente del paese.

Ma come può esistere e funzionare una classe dirigente in un clima di reciproca delegittimazione e disconoscimento di autorevolezza? Come si è arrivati a questa situazione? Dov'è la classe dirigente in senso ampio?

Alla classe dirigente appartengono i responsabili dell'economia e della finanza, delle organizzazioni del lavoro, i responsabili del sistema educativo, i gerenti del complesso mediatico e i soggetti culturali in tutte le loro espressioni (quelli che una volta si chiamavano gli intellettuali); nel nostro paese dovremmo aggiungere anche gli esponenti della Chiesa, cui di fatto è demandata la definizione dei contenuti dell'etica pubblica e la cui dottrina svolge il ruolo surrogatorio di religione civile nazionale.

Che fine ha fatto, in questo contesto, il ceto politico in senso stretto cui compete il ruolo dirigente in modo specifico in quanto dispone della competenza legislativa e di governo che dovrebbe guidare l'intera comunità nazionale?

Il ceto politico italiano che detiene oggi la maggioranza offre una impressione singolare: da un lato fa quadrato attorno a quello che rimane il suo leader insostituibile (nonostante le sempre più evidenti e insidiose contestazioni); sembra impegnato a tempo pieno a risolvere i problemi del Cavaliere che sono dichiarati prioritari per l'intera comunità nazionale. Dall'altro lato è esposto a tutte le strattonate che provengono dalla società più o meno organizzata. Da questo punto di vista il ceto politico di maggioranza da l'impressione di essere soltanto reattivo alle pressioni esterne.

Ma in questa situazione che cosa fanno gli altri soggetti che sopra abbiamo ricordato come componenti legittime della classe dirigente nazionale (agenzie della comunicazione e della cultura, sindacati, confìndustria, sistema educativo inteso non già come una dependance del ministero ma come luogo autonomo di formazione delle generazioni future)? Non parlo della loro azione di promozione degli interessi da loro legittimamente rappresentati, che sono parte integrante dell'interesse generale. Non parlo degli frustranti sforzi di tenere testa ad una situazione sempre più precaria - come è il caso della scuola. Mi riferisco ad una grande idea orientativa di carattere generale che dovrebbe caratterizzare «una classe dirigente» degna di questo nome. Nessuno degli attori sopra ricordati ha idee di grande respiro, tanto meno ha la determinazione di attuarle. Ognuno persegue obiettivi limitati, adattati e adattabili allo stato presente. È questa una classe dirigente?

 

In dialettica con l'opposizione

Il discorso torna alla politica. Non si tratta certo di aspettarsi dalla politica un esercizio autoritativo del suo ruolo che sarebbe incompatibile con una democrazia. Al contrario un governo e le forze politiche da esso espresse devono esercitare il loro ruolo dirigente interagendo con un'opposizione che a sua volta dovrebbe essere politica forte e capace. Un paese ha una democrazia autentica quando chi è al governo realizza i suoi programmi in dialettica con l'opposizione. Non è idealizzare impropriamente il passato (contraddicendo quanto dicevamo all'inizio) se ricordiamo che nel nostro paese ci furono momenti in cui l'antagonismo tra le forze politiche (democrazia cristiana in tutte le sue combinazioni e sinistra comunista) ha dato luogo a dinamismo politico-sociale e culturale anziché a paralisi. Esprimeva una classe dirigente nel suo insieme.

Perché oggi - ovviamente in una situazione inconfrontabile con il passato – questa prospettiva appare impraticabile? È davvero la persona di Berlusconi il grande ostacolo insuperabile? Perché questo fenomeno ha un effetto tanto paralizzante anche al di fuori della ristretta logica politico-partitica?

Il berlusconismo ha inciso in modo irreversibile sulla mutazione della democrazia italiana. Ha creato un nuovo ceto politico che tuttavia non pare in grado di far funzionare in modo democraticamente virtuoso i contrasti di visione e di comportamento che pure sono legittimi e caratteristici della democrazia. Abbiamo insomma un ceto politico che non sa essere «dirigente» nel senso che sarebbe giusto attendersi. Rimane da chiederci perché gli altri soggetti sociali che di fatto hanno ruoli di responsabilità nella comunità nazionale stentano ad assumersi essi stessi questo ruolo con iniziative pubbliche e mobilitazioni culturali - senza naturalmente supplire con questo il mestiere della politica. È il segno che la tanto evocata vitalità e autonomia della società civile è diventata una finzione.

 

Cesarismo e democrazia di massa

Concludiamo riprendendo la prospettiva storica. Nei primi due decenni del Novecento Max Weber, facendo un bilancio della fine della democrazia liberale e spingendo lo sguardo in avanti, parlava di «tendenza cesaristica della democrazia di massa». Cesarismo e democrazia di massa sono dunque strettamente legati. Poi Weber ha insistito (forse troppo) sugli aspetti personali carismatici eccezionali della leadership cesaristica. Noi oggi più realisticamente riteniamo che il cesarismo del nostro tempo conti di più sulla potenza della comunicazione di massa e dei mezzi mass-mediatici che non sulle (presunte) doti carismatiche personali del leader. Si tratta di un mutamento di prospettiva decisivo.

Rimane essenziale il rapporto con il popolo. Il popolo del Cesare storico è la plebs acclamante ma anche un gruppo consistente di amici, collaboratori, mediatori, clientes e senatores del regime precedente. Il popolo del Cesare contemporaneo è il popolo-degli-elettori che lo votano, è il popolo mediatico monitorato con strumenti demoscopici. Ma c'è anche una solida rete di «amici di Cesare», insediati non solo nella politica ma soprattutto nella società civile. In questo senso il cesarismo è davvero popolare.

«Gli amici di Cesare» (compresi i leader di altri partiti gli sono «amici» prima ancora che «alleati») surrogano di fatto il partito tradizionale. Il «partito del popolo» infatti ha la funzione esclusiva di mettergli a disposizione consenso e risorse. Offre personale esecutore, realizzatore, implementatore delle idee del leader. Non deve sollevare problemi, tanto meno competizioni o alternative interne. Il partito del leader cesaristico è o meglio deve essere assolutamente unitario. Deve attendere e sostenere le soluzioni dei problemi ipotizzate dal leader. Se queste non si realizzano la colpa è delle opposizioni che le ostacolano o degli ambiziosi disturbatori interni al partito che non sono più «amici». Ma soprattutto la colpa è del sistema istituzionale - in particolare giudiziario – che frena e boicotta. Da qui l'inderogabile necessità della riforma delle istituzioni che non si presenta come sovversiva (anche se retoricamente si sente «rivoluzionaria») ma come loro sistematica forzatura sempre al limite della legalità costituzionale.

Mentre scriviamo questo sistema sta entrando in una fase di turbolenza inedita. C'è chi da mesi ne prevede la fine. Personalmente - come analista - sarei molto cauto.