Saper servire l’unità

CELEBRARE I 150 ANNI DELL’ITALIA POLITICA, SENZA RETORICA E SENZA MIOPIE

di  Giorgio Campanini

Le celebrazioni dell’unità d’Italia, 150 anni dopo, appaiono inevitabilmente condizionate dalla retorica d’uso nei discorsi ufficiali. Potrebbero e dovrebbero tuttavia rappresentare un’occasione di riflessione sul passato, anche per trarne indicazioni circa il futuro. Un aspetto, in particolare, meriterebbe di essere maggiormente approfondito e sviluppato, anche perché concorrerebbe, riteniamo, a esorcizzare il rischio di una contrapposizione frontale fra 'laici' e 'cattolici' che una certa corrente di pensiero duramente anticlericale - fortemente minoritaria nella realtà sociale, ma fortemente presente nei mass-media - sta in ogni modo cercando di determinare, rispolverando l’ormai logoro bagaglio di un passato che si vorrebbe ormai morto.

Riflettere sul rapporto fra movimento risorgimentale e cattolici non significa riaprire antiche ferite ma contribuire a una più profonda comprensione della nostra storia. Vi furono, allora, due opposte miopie: quella di chi vedeva nel dominio temporale dei pontefici la condizione assolutamente necessaria per la stessa sopravvivenza di una Chiesa non sottomessa al potere politico; e quella di chi vedeva nella religione in generale e nel cristianesimo nella sua forma cattolica in particolare un ostacolo al progresso, alla modernizzazione del Paese, all’instaurazione di una società autenticamente liberale. Alla prima miopia devono essere fatte risalire ingiuste condanne, dolorose emarginazioni, persistenti diffidenze nei confronti della nuova Italia che il processo risorgimentale andava disegnando. Ma guasti non minori provenivano dalla seconda miopia - quella di pressoché tutta la classe dirigente del Risorgimento - che individuava come segnali di progresso l’espulsione delle monache dai conventi di clausura, l’incameramento di beni ecclesiastici trasferiti spesso per poche lire all’emergente borghesia, la proibizione di pressoché tutte le manifestazioni esteriori del culto, processioni comprese.

Occorre riconoscere che la prima miopia ha trovato, anche nella storiografia, uno spazio assai maggiore della seconda. Chi ancora oggi grida allo scandalo per l’otto per mille che lo Stato riconosce alla Chiesa cattolica - e in parte largamente maggioritaria concorre all’esercizio della carità e alla tutela del patrimonio ecclesiastico, spesso di alta qualità artistica, che non è della Chiesa, ma di tutti - mostra di avere (o finge di avere) una ben scarsa conoscenza della nostra storia.

Non è il caso, tuttavia, di rivangare antiche lacerazioni, bensì di prendere atto - proprio in occasione di questo cento cinquantenario - che la contrapposizione frontale non ha giovato a nessuno: né a una Chiesa allora prigioniera della sua intransigenza, né ad uno Stato tormentosamente privato del sostegno e dell’apporto dei cattolici. Chi, ancora oggi, opta per la contrapposizione frontale agisce, consapevolmente o meno, per l’in­de­bo­li­mento del Paese.

Ripercorrere la storia dei rapporti fra Chiesa e Stato in Italia rappresenta dunque una salutare immersione - al di là di ogni pregiudiziale ideologica - in una vicenda storica che pure dovrebbe insegnare qualche cosa e mettere in guardia contro la riproposizione di inutili lacerazioni. Ai cattolici il compito e la responsabilità di testimoniare un’esemplare forma di cittadinanza, a servizio di un Paese che, oggi e sempre, avrà bisogno di loro per beneficiare di quelle risorse etiche senza le quali la pura e semplice crescita del mitico 'Prodotto interno lordo' sarebbe non un arricchimento, ma un impoverimento.

da Avvenire 11 Giugno 2010