Art. 41 - Una mediazione verso la Dottrina sociale della Chiesa

Art. 41, manifesto solidale

Fulvio De Giorgi

9 Febbraio 2011



Tra i costituenti prevalse la linea democristiana, condivisa sia da Dossetti sia da De Gasperi: né liberismo né comunismo, ma solidarietà

L’ipotesi di una modifica dell’articolo 41 della Costituzione ha un valore ideale e culturale: mira a indicare la prospettiva valoriale in cui inserire e da cui far discendere una precisa politica economica. Si potrà dire che ciò viene fatto non tanto sperando nella reale possibilità di modificare la Costituzione quanto per avere una bandiera ideologica da agitare nelle eventuali elezioni anticipate o, comunque, nella lotta culturale. In ogni caso l’operazione è legittima ed averla comunque posta al livello 'alto' del fondamento costituzionale è apprezzabile per correttezza: non aggirare cioè la Costituzione , ma modificarne il dettato se si vuole dare un diverso indirizzo ideale e culturale. Ma allora il punto della discussione è questo: quale indirizzo culturale si vuole affermare e quale si vuole negare? La risposta, a mio parere, non lascia dubbi: si vuole affermare la cultura liberale e liberista (secondo le formule del neo-liberalismo, ormai periclitante sul piano mondiale, dopo un’egemonia durata decenni) e si vuole negare la Dottrina sociale della Chiesa.

L’art. 41 nacque da una serrata discussione, in seno all’Assemblea costituente, nella quale le posizioni liberali e liberiste di Lucifero, che non voleva vincoli alcuni per l’iniziativa economica privata, si contrapponevano a quelle del comunista Togliatti, che evidentemente partiva da una concezione sfavorevole alla libertà economica privata e puntata sul dirigismo dell’economia pianificata (anche se si rendeva conto di non poter proporre la collettivizzazione dei mezzi di produzione e di scambio: che era comunque l’obiettivo massimo dei comunisti). I democristiani, come Dossetti, La Pira e Moro, proposero dunque la mediazione, che in effetti si affermò, sulla base della Dottrina sociale della Chiesa, che aveva alle spalle la Rerum Novarum di Leone XIII, la Quadragesimo anno di Pio XI e i radiomessaggi di Pio XII.

In particolare, nella riunione della Commissione per la Costituzione del 3 ottobre 1946, Dossetti chiarì che, eliminata ogni ipotesi totalitaria (fascista o comunista), non rimaneva che scegliere tra due linee alternative: o quella liberale o quella solidarista democratica (cristiana). Se cadeva la seconda non rimaneva che la prima: aut aut. Affermava infatti: «Il dilemma che si pone ha due sole alternative, per cui se si sopprime una via non resta che l’altra, e cioè che la vita economica si debba svolgere spontaneamente, ritornando al sistema fondamentale dell’ottimismo liberale. Ora, l’esperienza storica insegna che il lasciare libero giuoco alle forze naturali ed economiche porta ad una sopraffazione».

Naturalmente so bene che una vulgata giornalistica ha fatto largamente circolare l’immagine, in realtà caricaturale, di un Dossetti cattocomunista, contrapposto ad un De Gasperi cattoliberale. Ciò è ovviamente sbagliato e falso sul piano storico: Dossetti non era comunista e De Gasperi non era liberale: erano entrambi cristiani, solidaristi, democratici, esponenti di punta dello stesso partito. Anche di De Gasperi, pertanto, si possono ricordare vari interventi 'ideali' sulla congiunzione di libertà politica e giustizia sociale. Basti, per tutti, il suo ultimo discorso (quasi a ricapitolazione di tutta la sua vita po-litica), il 27 giugno 1954, nel quale disse: «Anche per la scuola cristiano-sociale mi pare che le conclusioni della contemporanea esperienza si possono formulare così: né capitalismo né comunismo, ma 'solidarismo di popolo in cui lavoro e capitale si associno, con crescente prevalenza del lavoro, sotto il controllo e ove occorra con la propulsione dello Stato democratico' […]. Così va interpretata la nostra Costituzione che proclama la Repubblica democratica fondata sul lavoro: il quale fondamento dovrà però essere coordinato con tutti gli altri principii sociali della nostra Costituzione riguardanti le libertà sindacali, libertà dell’iniziativa economica pur con la riserva dell’utilità sociale, il riconoscimento della proprietà privata pur col diritto dello Stato di espropriazione per i servizi essenziali, il diritto per i lavoratori di collaborare nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi alla vitalità delle aziende, però in armonia con le esigenze della produzione. Si tratta dunque di una linea mediana, di un incontro fra due esigenze e due interessi». Proprio di questa linea mediana – sia detto per inciso – si sente oggi la mancanza: tanto nella politica economica quanto nella composizione del conflitto sociale.

Dire articolo 41 della Costituzione , nell’attuale formulazione, significa dire Dottrina sociale della Chiesa in alternativa al liberalismo dogmatico. Ma – si potrebbe osservare – son passati tanti anni! La Rerum novarum è del 1891, la Quadragesimo anno del 1931 e dagli stessi radiomessaggi di Pio XII ci separano ormai settant’anni. La Dottrina sociale della Chiesa è, però, mutata? Non direi: anzi con il Concilio e con il magistero sociale di tutti i successivi papi (dal beato Giovanni XXIII a Benedetto XVI) si è rafforzata e chiarita.

Il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa , pubblicato dal Pontificio consiglio della Giustizia e della pace nel primo decennio di questo XXI secolo, afferma: «Il principio della destinazione universale dei beni della terra è alla base del diritto universale all’uso dei beni. Ogni uomo deve avere la possibilità di usufruire del benessere necessario al suo pieno sviluppo: il principio dell’uso comune dei beni è il 'primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale' e 'principio tipico della dottrina sociale cristiana'. […] 'Tutti gli altri diritti, di qualunque genere, ivi compresi quelli della proprietà e del libero commercio, sono subordinati ad essa [destinazione universale dei beni]: non devono quindi intralciarne, bensì al contrario facilitarne la realizzazione, ed è un dovere sociale grave e urgente restituirli alla loro finalità originaria' (n. 172)».

«L’insegnamento sociale della Chiesa esorta a riconoscere la funzione sociale di qualsiasi forma di possesso privato, con il chiaro riferimento alle esigenze imprescindibili del bene comune. L’uomo “deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non unicamente come sue proprie, ma anche come comuni, nel senso che possono essere utili non solo a lui ma anche agli altri”. La destinazione universale dei beni comporta dei vincoli sul loro uso da parte dei legittimi proprietari. La singola persona non può operare a prescindere dagli effetti dell’uso delle proprie risorse, ma deve agire in modo da perseguire, oltre che il vantaggio personale e familiare, anche il bene comune' (n. 178). “Di fronte al concreto rischio di un’'idolatria' del mercato, la Dottrina sociale della Chiesa ne sottolinea il limite, facilmente rilevabile nella sua constata incapacità di soddisfare esigenze umane importanti” (n. 349)».

Orbene non ci sono dubbi sul piano di una nitida e limpida alternativa culturale: o il neo-liberalismo o la dottrina sociale della Chiesa. Il primo porta con sé il 'materialismo pratico' (di chi assume una gerarchia di valori dettata dalle dimensioni materiali) e l’individualismo assoluto. La seconda considera tale materialismo una grave menomazione della visione dell’uomo e l’individualismo come la via all’egoismo sociale (con giganteschi danni per il bene comune): afferma invece lo spiritualismo di un umanesimo plenario e il solidarismo della fraternità universale.

 

l’economista

Felice: «Però è in contrasto con l’ordinamento europeo»

Va riscritto solo in parte, «tagliando» la prescrizione di interventi di Stato e inserendo invece la tutela attiva dei consumatori e della libera concorrenza

Flavio Felice

Nel clima malsano dell’attuale politica italiana, consapevoli del 'disastro antropologico' denunciato dal cardinal Bagnasco, a molti sono parse quanto meno surreali le parole del presidente del Consiglio sulla proposta di riforma dell’articolo 41 della Carta costituzionale evocata dal ministro dell’Economia. Tale articolo rappresenta un architrave della cosiddetta 'Costituzione economica' del nostro Paese e consta di tre commi. Perché si possa cogliere fino in fondo il significato di questo articolo , compresi i limiti, credo sia necessario sottolinearne il retroterra culturale. In breve, gli articoli 41 , 42 e 43 della Costituzione risentono di una cultura economica quanto meno scettica nei confronti del sistema di libero mercato.

Tale cultura venne scossa dal processo di unificazione europea. È opinione diffusa che la concezione 'ordoliberale' dell’economia sociale di mercato tedesca influenzò significativamente la filosofia di fondo dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea. Entrò, dunque, in Italia, per via europea, il principio di concorrenza, la consapevolezza che il processo di mercato non rappresenta tanto un possibile disvalore da contenere, quanto un valore da far crescere e maturare. Negli articoli 81, 82 e 86 del Trattato che istituisce la Comunità europea del 1992 si afferma il principio di concorrenza come principio ermeneutico che esprime l’identità economica dell’Europa.

Sono vietati gli accordi tra le imprese, tra le associazioni, così come sono proibite tutte quelle pratiche che pregiudichino il mercato e che ne restringano o ne falsino la libera concorrenza, enunciando altresì l’irriducibile inconciliabilità tra la presenza di imprese che abusino della loro eventuale posizione dominante e il principio di concorrenza. Sulla base di quanto scritto, è possibile ipotizzare una riforma dell’articolo 41 , conservando tutto ciò che merita di essere conservato, in buona sostanza il primo comma, che sancisce la libera iniziativa economica, e il secondo, che stabilisce i limiti entro i quali ciascun privato è tenuto ad operare. Il secondo comma, in particolare, ci rinvia a un’affermazione di principio inderogabile, che per i cristiani significa riconoscere le condizioni minime affinché si possa cominciare a parlare di 'bene comune'. Non è un caso che proprio in questo articolo , e in particolare in questo comma, s’intraveda l’influenza esercitata dagli estensori del Codice di Camaldoli, alcuni dei quali poi divennero padri costituenti.

Qualche problema è posto dal terzo comma: «La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Qui andrebbe ricordato che proprio all’interno della Democrazia cristiana si confrontarono due anime, quella dossettiana, che vedeva nella Costituzione non uno strumento con il quale porre un limite al potere, bensì un piano di ingegneria sociale, e quella di Alcide De Gasperi (e invero di don Luigi Sturzo), per il quale nessun principio guida per la politica è migliore del noto aforisma di lord Acton: «Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto».

Con il Trattato di Roma del 1957 e quello di Maastricht del 1992, l’Italia ha fatto propria la prospettiva dell’economia sociale di mercato, in forza della quale si assume il carattere funzionale dello Stato alla costruzione dell’ordine sociale e non finalistico, in nome di un tanto meritorio quanto indefinibile concetto di 'utilità sociale'. In sintonia con i principi di sussidiarietà e di poliarchia, in materia economica, alla Stato spetterebbe il compito – non esclusivo – di stabilire le regole che consentano all’autonoma e creativa capacità delle singole persone e delle comunità di contribuire al perseguimento del bene comune. Un bene comune che consta di una pluralità di condizioni (beni), per i quali è necessaria una pluralità di istituzioni: è anche questo un modo per concretizzare l’invito del pontefice a guardare la politica come «la via istituzionale della Carità», avendo a cuore i principi di sussidiarietà e di poliarchia.

Per questa ragione, come centro studi Tocqueville- Acton, abbiamo pensato di offrire un contributo alla riflessione, proponendo una revisione dell’articolo 41 che lasci intatti i primi due commi e sostituisca il terzo con altri due commi. Questi ultimi riprendono letteralmente parti degli articoli 81 e 82 del Trattato di Maastricht. L’articolo verrebbe così riformulato:

«L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge garantisce la tutela dei consumatori e la fornitura dei servizi di interesse generale in regime di libera concorrenza, sanzionando chiunque operi per impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza.

È incompatibile con il mercato in regime di libera concorrenza lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul mercato nazionale o su una parte sostanziale di questo ».

Chi scrive, da anni sostiene l’opportunità di modificare l’articolo 41 , recependo i suddetti articoli del Trattato di Maastricht, ma altresì mette in guardia da coloro che presentano tale riforma come 'la frusta' che provocherà la ripresa economica. Non scherziamo! Si tratta di un chiaro 'articolo manifesto’, figlio di un’epoca e di una cultura politica. Una cultura politica alla quale va tutto il nostro rispetto, insieme alla stima nei confronti di uomini che eroicamente ci restituirono alla libertà e alla democrazia. Lo sbandieramento di una riforma costituzionale, in questa fase surreale della politica italiana, rischia di nascondere le ragione autentiche di una riforma auspicabile, offuscando le ragioni che spinsero Sturzo a lottare una vita intera per un mercato disciplinato – e per questo più libero e aperto – contro le «tre male bestie della democrazia»: «Partitocrazia, statalismo, abuso del denaro pubblico».

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