RIABILITARE LA FATICA

IL RUOLO DEL LAVORO MANUALE

Giorgio Campanini
20 Gennaio 2011

 

Nel fiume di commenti al caso Fiat, un tema è rimasto quasi del tutto in om­bra e merita invece di essere posto all’atten­zione dell’opinione pubblica. Al di là delle ra­gioni, anche degne di considerazione, che hanno determinato la «svolta» (prima fra tut­te la preoccupazione di reggere la concor­renza straniera), non vi è dubbio che l’esito finale della vicenda, soprattutto in termini di immagine, sia una ulteriore sottovalutazio­ne del lavoro manuale. Esso sarà – sembra – meglio pagato, ma sarà più condizionato dall’impresa, più duro, più stressante. Qua­le sarà l’attrazione che in futuro – per una sor­ta di effetto a cascata che sarebbe responsa­bile valutare – il lavoro in fabbrica eserciterà sui nostri giovani?
È ben noto il paradosso italiano: la disoccu­pazione giovanile coesiste, ormai da decen­ni, con mancanza di mano d’opera in setto­ri- chiave dell’economia e in particolare nel­l’agricoltura, nei servizi di cura alla persona, nella pesca, e così via... Per fare solo un e­sempio, se gli italiani e le italiane volessero dedicarsi al lavoro di cura (e diventare, per intenderci, 'badanti') gran parte della di­soccupazione giovanile verrebbe meno. Ec­co dunque il problema che sta dietro il refe­rendum di Mirafiori: vi è ancora posto, in I­talia, per un lavoro industriale capace di in­contrare le aspettative dei giovani? O corria­mo il rischio che le fabbriche di domani di­ventino quello che sono diventati non pochi alberghi di oggi (direttore, personale di fascia alta, cuochi italiani e camerieri, facchini, por­tieri, ecc. extracomunitari o comunque stra­nieri?). Non è un caso che siano apprezzate e ricercate 'professioni' ritenute (spesso a torto) meno faticose e meno impegnative?
Todos Caballeros ?

È, questo, il 'caso serio' di una disoccupa­zione che risulterà endemica se non si veri­ficherà un cambio di mentalità, se non si ri­valuterà il lavoro manuale, se non ci si edu­cherà alla fatica e al sudore: ovviamente sfi­dando la più radicale impopolarità e meri­tandosi l’accusa di bieco conservatorismo. Ma si ritiene davvero che si possa tornare ai livelli di crescita del passato e creare ai livel­li 'alti' della società posti di lavoro sufficienti per tutti gli italiani, continuando a usufrui­re, ai livelli bassi, dell’apporto degli stranie­ri?
Anche la comunità cristiana deve compie­re, al riguardo, un serio esame di coscienza. Su questo giornale qualche riflessione c’è già stata. Ma mi sembra che sia in gran parte ve­nuta meno l’attenzione al lavoro, in tutte le sue forme. L’importante, anche se non pri­va di incertezze, esperienza dei 'preti ope­rai' è ormai alle nostre spalle; i vertici eccle­siastici e anche quelli laicali (ivi compreso chi scrive, ammesso che appartenga a questa categoria) hanno nel loro passato, al più, e­sperienze brevi e saltuarie di lavoro manua­le e di 'sudore della fronte'. È dunque venuto il tempo, dopo quello della «riabilitazione dell’etica», anche della «riabilitazione della fatica». Senza ripetere l’elogio della mitica «impagliatrice di sedie» cara a Charles Péguy (tale infatti era sua madre…), preoccupata che quanto usciva dalle sue mani fosse bel­lo e ben fatto, occorre tornare a parlare di più del lavoro: di un lavoro svolto in libertà, degnamente retribuito, non supinamente subìto (che ne è della 'partecipazione' o­peraia?), svolto nella consapevolezza di co­struire in qualche modo, con le proprie ma­ni, il Regno che viene. Se non subentrerà questa nuova consapevolezza, non resterà che assistere sbigottiti alle migliaia di domande per un posto di usciere mi­nisteriale e alla malin­conica chiusura di stalle per le quali non si trova più nes­suno disposto ad al­zarsi all’alba.