Nell’approssimarsi della ricorrenza dei 150 anni dall’Unità d’Italia, inviamo un inedito e qualificato contributo su un aspetto particolare ma decisivo della storia italiana degli ultimi due secoli: quello del rapporto tra i cattolici e il nuovo Stato unitario.
Si tratta del testo della conferenza che il prof. Giorgio Campanini ha tenuto presso la sede del Borgo in occasione del “Borgo day 2010”.

I CATTOLICI e il RISORGIMENTO: STATO e  CHIESA in ITALIA NEGLI ULTIMI 150 ANNI

di Giorgio Campanini 

Parma, "Borgo day 2010”.

 

Premessa

La ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia (per altro, come noto, completata solamente nel 1919) rappresenta una preziosa occasione di riflessione in ordine ai rapporti, periodicamente conflittuali, fra Stato e Chiesa: a conferma della permanente attualità di quel “sistema diarchico” – fondato sulla dialettica tra coscienza civile e coscienza religiosa – che già negli anni ’30 Luigi Sturzo aveva indicato come fondamentale “legge della storia” (1).

A partire dal detto del Signore (“Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) nessun potere – quello politico, ma neppure quello religioso, secondo gli opposti modelli del totalitarismo statuale e della teocrazia – può pretendere di occupare da solo la scena del mondo. Da quelle memorabili parole in poi non vi era, non poteva esservi più, né poteva essere a lungo accettato, un sistema politico e sociale fondato su un solo punto di riferimento: da allora in poi le “obbedienze”  sarebbero state definitivamente ed irrevocabilmente due. Conciliare, in quanto possibile, queste due obbedienze sarebbe stato il grande problema di tutte le società occidentali, secondo una sorta di periodico oscillare di un pendolo che, dopo essersi spostato, nel Medioevo, dalla parte della Chiesa, si sarebbe poi orientato, a partire dalla modernità, verso il polo dello Stato, ma sempre nel contesto di una ricorrente dialettica che avrebbe accompagnato l’intero percorso della modernità.

 

La peculiarità del Risorgimento

Il rapporto tra Stato e Chiesa nel Risorgimento è un aspetto del tutto peculiare di questa permanente dialettica, dato che operava al’interno di essa, come dato unico, la presenza dello Stato della Chiesa. In questo caso, dunque,  non si trattava soltanto – come avveniva in tutti gli altri paesi con una significativa presenza cattolica – di conciliare coscienza religiosa e coscienza civile, diritti della Chiesa e laicità dello Stato, ma di conciliare due sovranità e di convincere una della due parti (in questo caso la Chiesa come struttura temporale) a rinunziare a questa stessa sovranità. Fu, questa, la grande fatica dei cattolici del Risorgimento. Il principio accolto dall’art. 7 della Costituzione repubblicana del 1948 (“Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”) si sarebbe alla fine affermato, ma a prezzo di un duro e prolungato conflitto, che avrebbe rappresentato il grande dramma del Risorgimento.

Non stupisce oltre misura, quindi, che l’Ottocento ed una non piccola parte del Novecento siano stati il tempo della dura contrapposizione tra “clericalismo” e “anticlericalismo”.

In verità i primi segni dell’anticlericalismo sono assai anteriori alla vicenda risorgimentale ed hanno caratterizzato la politica ecclesiastica di pressochè tutti gli stati pre-unitari, dalla Toscana al Regno di  Napoli, a partire dai decenni successivi alla Rivoluzione francese.

Notevole rilievo assume, su questo sfondo, la politica anticlericale avviata già nei primi decenni dell’’800 dallo Stato Sabaudo. Particolare importanza ebbero gli interventi legislativi del Piemonte ispirati, soprattutto dopo il 1848 – e nonostante la solenne affermazione dello Statuto Albertino secondo cui “La Religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato” – a sempre più penetranti interventi dello Stato nella sfera religiosa: d’altra parte la stessa formulazione del citato articolo dello Statuto, quello di “religione dello Stato”, implicava nello stesso tempo un riconoscimento ed un’appropriazione.

In qualche modo la religione (cattolica) era nello Stato. Si collocavano in questa linea, negli anni immediatamente precedenti all’impresa dei Mille, i pesanti interventi legislativi del Piemonte in materia ecclesiastica (quelli che, dal loro promotore, furono chiamate “Leggi Siccardi”). Che si chiudessero monasteri di clausura e si sciogliessero numerose congregazioni religiose, con la motivazione che esse fossero socialmente inutili, era il sintomo inquietante di uno Stato che – favorendo la neonata congregazione salesiana perché avviava al lavoro i ragazzi delle poverissime periferie ed insieme gettando letteralmente sulla strada le monache che si dedicavano soltanto alla contemplazione ed alla preghiera – entrava direttamente nella sfera religiosa.

Si deve riconoscere che allora erano assai estese le proprietà fondiarie del clero e delle istituzioni religiose e che esse erano generalmente malamente amministrate (per usare un termine moderno la “privatizzazione” di queste proprietà arricchì a spese della Chiesa la nascente borghesia ma nello stesso tempo favorì lo sviluppo dell’agricoltura), così come è doveroso prendere atto di un apparato ecclesiastico pletorico e non sempre espressione di autentiche vocazioni all’esercizio del ministero sacerdotale: attorno alla metà dell’’800 vi erano in Italia , con una popolazione di 25 milioni di abitanti, oltre 100000 preti, un numero, dunque, sovrabbondante rispetto alle reali esigenze pastorali; ma ciò non può giustificare la chiusura d’imperio di Seminari che lo Stato, a suo insindacabile giudizio, considerava “inutili” e per la cui chiusura si avvaleva spesso di risibili pretesti (2).

Al fondamento di questo insieme di scelte di politica ecclesiastica, sistematicamente ispirate al principio dell’assoggettamento della Chiesa allo Stato, non stava il principio – classico del pensiero liberale e lucidamente enunciato nell’Ottocento da Tocqueville in riferimento agli Stati Uniti e da Lord Acton riguardo alla Gran Bretagna – della distinzione fra piano giuridico e piano religioso, ma piuttosto la pretesa dello Stato laico di ricondurre tutte le espressioni della socialità, e dunque anche quelle proprie della sfera religiosa, all’unica figura dello Stato. Tipica espressione di questo sviamento del pensiero liberale è la celebre formula cavouriana, solo apparentemente liberale, quella, cioè, libera Chiesa in libero Stato: l’ambiguità stava in quella semplice particella in: non Chiesa e Stato – secondo la formula che i Costituenti avrebbero un secolo più tardi adottato – ma una Chiesa posta all’interno di uno Stato che pretendeva di condizionare la nomina dei Vescovi, si riservava il diritto di autorizzare o meno le processioni, stabiliva a suo piacimento quali ordini religiosi potessero o no avere diritto di cittadinanza. La libertà religiosa veniva così segregata nel chiuso delle coscienze.

In questo contesto era inevitabile che la Chiesa gerarchica – soprattutto ai più alti livelli – ricorresse alla pure spuntata arma delle scomuniche e degli anatemi, per tentare di fermare l’ondata laicizzatrice che, sulla base del modello francese (per fortuna senza la ghigliottina….) si andava abbattendo anche sull’Italia.

La politica anticlericale ininterrottamente portata avanti dai governi unitari dopo il 1860 – e con una particolare virulenza all’epoca dei governi Crispi e Zanardelli – finiva per spiazzare quasi del tutto il cattolicesimo liberale e la sua componente “conciliatorista”, che pure poteva contare su nomi illustri come quelli di Alessandro Manzoni, Antonio Rosmini, Geremia Bonomelli. Il fallimento dei tentativi conciliatoristi a più riprese effettuati appariva al Pontefice e al suo entourage del tutto evidente e dunque non restava che lo spazio della presa di distanza. Emblematico al riguardo il Sillabo di Pio IX, che, nella sua ottantesima e conclusiva proposizione, colpiva con l’anatema coloro che avessero sostenuto la tesi secondo la quale “il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e la moderna civiltà venire a patti e a conciliazione”.

Con questa proposizione si tendeva ad identificare la possibile (e per molti insigni spiriti di cattolici auspicabile) “conciliazione” fra Chiesa e Stato con il cedimento, la resa, la rinuncia ad inderogabili diritti.

Persistendo questo clima di contrapposizione frontale, era evidente che i cattolici non potevano che essere “cittadini di seconda categoria”; infidi per uno Stato negatore del principio delle “due obbedienze”, ma altrettanto infidi per una Chiesa incline a leggere come compromissione, se non addirittura come tradimento, ogni concessione allo Stato laico, usurpatore e persecutore. Se non mancano forme di parziale ralliement, e dunque di un “separatismo imperfetto” che prendeva il posto di quello assai rigido realizzato all’indomani dell’Unità d’Italia (3) , si deve riconoscere che l’Ottocento fu nel suo insieme un secolo di aspra conflittualità.

Per una delle non rare “ironie della storia”, sarebbe stato un regime illiberale a sanzionare nel 1929 quella “conciliazione” che il liberalismo italiano – ricorrentemente assoggettato alla tentazione dell’anticlericalismo – era stato incapace di realizzare.

 

La svolta del Concordato

Nonostante le ombre che continuavano a calare sui rapporti fra Stato e Chiesa, nei primi anni del ‘900 non mancarono, soprattutto negli anni di Giolitti, i negoziati riservati ed i tentativi, dall’una e della’altra parte, volti a porre su nuove basi i rapporti fra Chiesa e Stato. Fra questi segnali, di particolare importanza la parziale abrogazione del decreto (noto sotto il nome di Non expedit)  con il quale era stato fatto divieto ai cattolici di partecipare alla vita pubblica a livello nazionale, all’insegna del motto “né eletti né elettori” (4). Cominciarono così, nei primi anni del Novecento, ad entrare nell’unica Camera elettiva di allora, quella dei Deputati, alcuni “cattolici deputati”, così chiamati per evitare che essi fossero considerati “deputati cattolici”, in quanto tali in qualche modo espressivi del “mondo cattolico”, se non propriamente della Chiesa italiana (Giuseppe Micheli fu, come noto, uno dei primi “cattolici deputati”).

La ricerca storica ha messo ormai in chiara evidenza quanto fossero a più riprese condotte trattative fra Stato e Chiesa: ma esse furono periodicamente interrotte, qualche volta per l’intransigenza del Vaticano, più spesso per la persistenza di una mentalità anticlericale che non si rassegnava all’idea di riconoscere una pur simbolica sovranità al Pontefice (conditio sine qua non, questa, posta dalla S. Sede per la prosecuzione delle trattativa, in vista della garanzia che da una pur minuscola sovranità territoriale sarebbe derivata alla sua indipendenza). Così quell’accordo che, nella maggioranza degli spiriti, era già maturo nei primi anni del ‘900, fu rinviato – a causa della prima guerra mondiale e dei successivi sommovimenti sociali – al 1929, consentendo così a Mussolini di appropriarsi dei frutti di un lungo lavoro preparatorio svolto dalle componenti conciliatoristiche dell’una e dell’altra parte. Veniva così, a distanza di 30 anni, riabilitato il coraggioso Vescovo di Cremona, Geremia Bonomelli, costretto nel 1889 ad un’umiliante ritrattazione nella sua Cattedrale di Cremona per aver sostenuto, in un suo opuscolo, la non indispensabilità per il Pontefice di un vero e proprio Stato territoriale. (5)

Non stupisce, in questo contesto, il pressochè corale consenso dato dai cattolici ai Patti Lateranensi; se non mancarono le riserve (particolarmente autorevoli quelle di Luigi Sturzo e di Alcide De Gasperi) (6) esse riguardarono non la sostanza degli accordi ma alcuni aspetti di essi, soprattutto quelli che potevano essere interpretati come un avallo al regime fascista e sembravano aprire la strada ad una sorta di “Stato cattolico” accentratore ed autoritario, apparentemente rispettoso dei diritti della Chiesa ma in realtà orientato ad un uso strumentale del cattolicesimo a sostegno di uno Stato autoritario.

Era acuta, in questi due grandi esponenti del cattolicesimo democratico, la percezione dei rischi che la Chiesa avrebbe potuto correre se i Patti Lateranensi si fossero trasformati, da patto per la soluzione dell’antico contrasto fra Stato e Chiesa, in una sorta di legittimazione dello Stato fascista: di uno Stato che già nel 1929 rivendicava un totale dominio sulla società, a partire dall’educazione dei giovani. Su questo terreno si consumò, come noto, già nel 1931 un distacco, mai più sanato, tra il regime e la coscienza cattolica. Così, ad appena due anni dal Concordato – e dopo il duro conflitto fra regime e Azione cattolica apertosi nel 1931 – cadevano le illusioni circa la possibile “cristianizzazione”del fascismo e si ponevano le basi del progressivo distacco della Chiesa dal fascismo che si sarebbe consumato con le leggi razziali e la fatale alleanza con Hitler.

Caduto il regime fascista fu comune, fra le forze politiche più responsabili, la convinzione che non si dovesse riaprire la ferita della “questione romana”: poche furono, in effetti, le voci che pur si levarono dopo il 1945 a favore della pura e semplice abrogazione dei Patti Lateranensi. Si comprese, da parte dei cattolici – ma anche da parte di consistenti componenti tanto della cultura socialista e comunista quanto di quella liberale – che era preferibile non rimettere in discussione i Patti e procedere semmai ad una loro revisione e reinterpretazione, anche alla luce dei principi ispiratori della nuova Costituzione, che collocava gli stessi Patti Lateranensi all’interno di una ben diversa e più vasta cornice (7).

Per questa via le parti caduche dei Patti lateranensi sono state progressivamente erose dalla sentenze della Corte Costituzionale, dalla grande dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae (1965), dagli Accordi di revisione del 1984. Riemergeranno, inevitabilmente, diverse forme di potenziale conflittualità fra Stato e Chiesa – perché le “diarchie”, secondo la citata espressione di Sturzo, non sono mai facili – ma augurabilmente senza le aspre forme di conflittualità che hanno segnato la vicenda risorgimentale.

 

Ieri ed oggi

A conclusione di questa sintetica ricostruzione, a volo d’uccello, dell’insieme di problematiche cui la vicenda risorgimentale ha dato luogo in ordine ai rapporti tra Stato e Chiesa, è lecito domandarsi quale significato possa avere, anche per i cattolici, ricordare quelle lontane vicende.

Vi è una prima e fondamentale lezione che deriva ancora oggi dalla vicenda risorgimentale, e cioè che la via della contrapposizione frontale non è quella che la Chiesa dovrebbe imboccare: mai, ma soprattutto in presenza di regimi democratici aperti alla discussione e al dialogo. Pur nella consapevolezza dei rischi inerenti alla secolarizzazione e alla caduta delle evidenze etiche, la Chiesa è chiamata a seguire la via del dialogo, in quello stile di rapporti dialogici fra Chiesa e mondo indicati dall’Enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI (1964)  pienamente corrispondente allo stile dei documenti conciliari. La via delle scomuniche, delle chiusura, dei pregiudiziali rifiuti, delle rigide contrapposizioni non porta lontano: ciò è avvenuto nei confronti dei laicismi di ieri e con ogni probabilità si ripeterà di fronte ai nuovi laicismi di oggi e di domani.

Una seconda indicazione, ancora oggi preziosa, riguarda la necessità di operare una distinzione tra il valore dell’Unità d’Italia in sé e per sé e le concrete modalità della sua attuazione. Non è “delitto di lesa maestà” osservare come si sia seguita, a partire dal 1860, la via del centralismo statuale; né questa scelta di campo del nuovo Stato è stata senza significato anche in ordine ai rapporti con una Chiesa che, quasi sempre, pressocchè istintivamente, ha avversato i centralismi (da quello liberale a quello fascista) proprio per il suo forte radicamento nel territorio e per la sua capacità di distinguere unità da uniformità. Se il sogno neoguelfo di Vincenzo Gioberti non si è realizzato, persistono tuttavia forti e vivaci energie municipalistiche. Certo, quello di oggi è un “municipalismo” profondamente diverso da quello di Luigi Sturzo e di Filippo Meda; ma rimane fisso, sulla base del principio di sussidiarietà, che è dannoso e controproducente soffocare la vivacità e l’inventività delle realtà locali. La tesi del primato della società civile rispetto allo Stato resta uno dei cardini fondamentali della dottrina sociale della Chiesa; né è il caso di delegare ad altri questo patrimonio ideale che è una costante del pensiero sociale dei cattolici. L’unità d’Italia, così come è avvenuta, è ormai alle nostre spalle; ma sta ancora davanti a noi un possibile nuovo modello di Stato unitario. Troppo a lungo – quando sono diventati, a loro volta, gli “occupanti del potere” dopo essere stati per quasi un secolo all’opposizione – non pochi cristiani sono stati acriticamente centralisti. Oggi è dovere e responsabilità dei cattolici concorrere ad una nuova e migliore configurazione dello Stato, pur definitivamente unitario; e ciò non da soli, ma in dialogo con tutti gli autentici democratici. Come ebbe a dire Luigi Sturzo in quel “Discorso di Caltagirone” che è stato ante litteram il “manifesto” del Partito Popolare e poi della stessa Democrazia cristiana, è necessario che “i cattolici, più che appartarsi in forme proprie, sentano con tutti gli altri partiti moderni la vita nelle sue varie forme, per assimilarla e trasformarla”.

Non si possono negare alcune benemerenze dello Stato unitario uscito dal processo risorgimentale, né ha senso domandarsi quale sarebbe stato il corso delle storia d’Italia se fosse stato accettato – sia dal Pontefice sia dagli Stati pre-unitari – il programma “neoguelfo” di Gioberti. Quella di oggi è, irrevocabilmente, l’Italia che ha preso corpo a partire da quel complesso processo storico che ha preso l’avvio 150 anni fa con l’impresa dei Mille; né si può tornare indietro; ma il passato non può essere considerato una prigione dalla quale sia impossibile uscire, bensì una sollecitazione ad una nuova progettualità di una Nazione-Italia nella quale anche i cattolici possano recitare degnamente la loro parte.

 

 

NOTE

  1. L. Sturzo, CHIESA E STATO, edizione inglese Londra 1937; edizione francese Parigi 1939; edizione italiana Bologna 1959 (quest’ultima edizione, edita da Zanichelli, e riveduta dallo stesso Sturzo, può essere considerata quella definitiva)
  2. M. Guasco, STORIA DEL CLERO IN ITALIA DALL’OTTOCENTO AD OGGI, Laterza, Bari 1997, pp, 82-84. Di ben 82 Seminari – a quanto riferisce l’autore – lo Stato unitario appena insediato determinò la chiusura in qualche caso per “offese al buon costume”, di fatto per l’ostilità dei Vescovi al nuovo Stato unitario
  3. Cfr. G. Campanini, IL SEPARATISMO IMPERFETTO – STATO E CHIESA NELL’ITALIA DEL ‘900 in “Quaderni di diritto e legislazione ecclesiastica”, Parma 1992 (l’originale testo spagnolo in AA.VV., IGLESIA Y ESTADO EN ESPAÑA, FRANCIA Y ITALIA, Alicante 1992)
  4. Sull’insieme di problematiche relativa ai rapporti tra Stato e Chiesa si rinvia agli abbondanti materiali contenuti in DIZIONARIO STORICO DEL MOVIMENTO CATTOLICO IN ITALIA, a cura di F. Traniello e Giorgio Campanini, Marietti, Casale M. 1982-84, in 5 tomi (Aggiornamento a cura degli stessi, Marietti, Genova 1997)
  5. CF. G. Bonomelli, ROMA, L’ITALIA E LA REALTA’ DELLE COSE – PENSIERI DI UN PRELATO ITALIANO (L’opuscolo venne pubblicato anonimo, ma, scatenatasi un’accesa polemica, l’autore ne riconobbe pubblicamente la paternità). Sulla vicenda cf. AA.VV. GEREMIA BONOMELLI E IL SUO TEMPO (a cura di G. Rosoli, Edizione Fondazione civiltà bresciana, Brescia 1999)
  6. Sulla posizione di Sturzo cf. CHIESA E STATO, op. cit.; quanto a De Gasperi, cf. LETTERE SUL CONCORDATO, a cura di G. Martina, Morcelliana, Brescia 1970
  7. Fu questa la posizione alla quale Dossetti si ispirò in un memorabile discorso su quello che sarebbe diventato l’art. 7 della Costituzione (21 marzo 1947) (cf. G. Dossetti, LA RICERCA COSTITUENTE, 1945-1952, a cura di A. Melloni, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 267 ss.): “Nel riconoscimento della necessità di una disciplina bilaterale delle materie di comune interesse – osservava fra l’altro – è la vera separazione fra Chiesa e Stato, la vera indipendenza reciproca, la vera libertà di coscienza” (p. 279)
  8. Luigi Sturzo, IL PENSIERO POLITICO, a cura di G. Campanini e N. Antonetti, Città Nuova, Roma 1979, p.228