I cattolici nel processo di unità nazionale

Il ruolo dei cattolici democratici 

(Udine, 27 agosto 2011 – Apertura del Seminario di Agire Politicamente svolto a Sutrio (UD) dal 27 al 31 agosto 2011)

Giorgio Campanini

Sutrio (UD)

27 Agosto 2011

Premessa

Un “luogo comune” a lungo ricorrente - ed ancora oggi presente in non piccola parte della storiografia - è stato quello relativo alla sostanziale estraneità (se non ad una viscerale opposizione) dei “cattolici” al processo unitario italiano. Tesi, questa, viziata da una astratta, ed inesatta, pregiudiziale, quella cioè relativa all’identificazione di fatto operata fra cattolici e papato (o gerarchie ecclesiastiche). Se è fuori discussione l’avversione di Pio IX, del suo entourage, dell’apparato ecclesiastico in generale al modo con il quale si realizzò in Italia l’Unità (sia pure dopo gli ambigui atteggiamenti di Pio IX nel breve periodo che va dalla sua elezione al pontificato alle esplosioni del 1848), non altrettanto può dirsi per i cattolici italiani nel loro complesso: fra essi non mancarono prestigiosi intellettuali, uomini e donne di ogni ceto sociale, ma anche preti e vescovi (spesso in disaccordo con la linea ufficiale della Chiesa e per que­sto, non di rado, colpiti da censure ecclesiastiche) che forte­mente vollero l’unità, parteciparono ai processi che la realizzaro­no, dettero la loro stessa vita per la causa nazionale.

In questa prospettiva l’attenzione, necessariamente, si spo­sta dall’ambito - ricorrentemente e spesso duramente conflittuale - dei rapporti fra Stato (pre-unitario e unitario, con specifico riferimento al Regno di Sardegna e poi al Regno d’Italia) e Chiesa ai rapporti fra nazione e società; è in questa ottica, metodologicamente la più corretta, che le problematiche cui si faceva prima riferimento assumono una connotazione profondamente diversa. È soprattutto su questo aspetto del Risorgimento che ci si soffer­merà in queste essenziali riflessioni.

L’Italia e il “fattore religioso”

La storia d’Europa è profondamente segnata dalla quasi bimillenaria presenza - e presenza egemone - in essa del Cristianesimo.

Non è in questione il problema della “fede” - essa è stata in non poche stagioni debole, incerta, opaca, deviata... - bensì quello del­la religione: la prima implica una forte e personale opzione per una Verità (nel caso specifico quella cristiana) che trascende l’uo­mo; la seconda fa riferimento alla cultura, ai valori etici condi­visi, alla vita quotidiana. Dal primo punto di vista vi è chi ha messo in discussione, del resto con forti argomenti, la definizio­ne dell’Italia come “paese cattolico” (quando mai, ci si potrebbe do­mandare, gli autentici credenti sono stati maggioranza?); ma, dal secondo punto di vista, come negare il profondo radicamento del Cri­stianesimo nella penisola? Evocano il Cristianesimo la maggior par­te dei nomi di persona, le espressioni dell’arte e della musica, il paesaggio e le stesse abitudini alimentari, e soprattutto quello specchio di una civiltà che è rappresentato dal linguaggio, pieno di espressioni, di detti, di concetti che non sarebbero comprensibili se non attraverso il riconoscimento di questa “eredità cristiana” ora segreta ora palese.

Questo profondo legame tra Cristianesimo e cultura ha inciso fortemente sulla vita politica e civile, con ripercussioni particolarmente incisive propria in ordine ai processi di aggregazione (o, al contrario, di smembramento) che hanno caratterizzato la storia europea. Il Belgio non sarebbe nato senza le divisioni fra cattolici e protestanti; la Germania ha conosciuto una sua tardiva unità po­litica (per altro non completa, se si pensa all’Austria e alla Svizzera) a causa delle tensioni fra cattolici e protestanti; ancora oggi la piccola Irlanda è divisa in due parti, a lungo fra loro conflittuali, per una serie di fattori complessi ma aventi alla ba­se una contrapposizione di carattere religioso... E gli esempi po­trebbero continuare.

Nel caso specifico dell’Italia - di una nazione che ha una sor­prendente e per certi aspetti unica omogeneità religiosa, dato che al tempo della realizzazione dell’unità le minoranze religiose era­no percentualmente pressoché inesistenti - il fattore religioso è stato un potente collante che univa fra loro popolazioni alquanto di­verse fra loro, ma unite da una cultura comune, della quale la re­ligione rappresentava un fondamentale collante. Un’ipotetica Ita­lia aderente al Nord al protestantesimo, al centro fedele al papato, al sud tornata all’antica comunione con le Chiese dell’oriente e dunque con l’ortodossia avrebbe molto più difficilmente e faticosa­mente la propria unità: le divisioni religiose avrebbero esercita­to un peso assai maggiore di quelle politiche e culturali. Non a ca­so, del resto, Alessandro Manzoni faceva riferimento ad un’Italia una anche di “altare”: un conflittuale pluralismo religioso avreb­be rappresentato un forte ostacolo anche all’unità politica.

 Considerazioni analoghe possono farsi anche per un’etica co­mune che risentiva direttamente essa stessa dell’influenza del cat­tolicesimo. L’Italia unita non mise mai in discussione il rispetto della vita, il valore della solidarietà, l’attenzione ai poveri e si guardò bene dal contestare l’indissolubilità del matrimonio e la fedeltà coniugale (è per uno strano gioco della storia che il divorzio fu introdotto in Italia non dalla laicista ed anticlericale classe po­litica liberale ma al tempo del governo di un “partito cattolico” ...).
II tema meriterebbe ben altri sviluppi. Riteniamo tuttavia si possa dare acquisito il punto di partenza di queste notazioni, e cioè che il fattore religioso – che, di fatto, nella tradizione italiana, si identifica con il cattolicesimo - ha svolto un ruolo essenziale nel processo unitario.
 

Gli intellettuali, il clero, il popolo

Se si dà per acquisito il rifiuto dell’identificazione tra cattolicesimo e gerarchie ecclesiastiche (e, specificamente, papato) appare con tutta evidenza il contributo dato al processo unitario dai cattolici italiani.

Particolarmente rilevante l’apporto degli intellettuali e de­gli uomini di cultura, da Manzoni a Pellico, da Rosmini a Gioberti. Sebbene essi non abbiano approvato alcuni aspetti del processo unita­rio, determinante è stato il loro apporto alla presa di coscienza nazionale, senza che vi fosse in loro alcuna incertezza sulla com­patibilità fra la loro appartenenza alla Chiese e le loro convinzio­ni politiche. Ma non mancarono i preti patrioti e conciliatoristi, né i vescovi che - anche dopo le scomuniche di Pio IX - seguirono la prassi di un riservato lealismo, esprimendo a varie riprese la loro lealtà alla monarchia ed esortando al rispetto delle leggi del nuovo Stato, anche quando esso colpiva pesantemente i beni della Chiesa e delle istituzioni religiose.

 

Occorre tuttavia riconoscere che, in questo ambito, si manife­starono profonde differenze fra il cattolicesimo del nord, apparso subito più disponibile ali’accettazione del fatto compiuto e alla soppressione dello Stato della Chiesa, e quello del sud, da una par­te ancora devoto all’antica monarchia, dall’altra più attaccato ai simboli esteriori della religione cattolica: soppressioni, spoglia­zioni, vere e proprie usurpazioni che i cattolici del Nord (del re­sto più vicini all’Europa) subirono con disagio e con rammarico, ma senza farsene un dramma, vennero invece avvertite al sud come intol­lerabili persecuzioni: è alla luce di questa diversa sensibilità che si spiegano le dure resistenze opposte dal Sud al nuovo ordine sociale, con fenomeni come le “insorgenze”, sulle quali è a lungo ca­lato il silenzio della storiografia ufficiale e che rappresentano una pagina oscura ed opaca della storia nazionale, sulla quale solo di recente si è fatta luce, anche se talvolta con qualche eccesso polemico.

 

Anche al Sud, tuttavia, non mancarono i vescovi ed i religiosi “conciliatoristi”, che guardavano con favore al superamento dell’ancien régime e scorgevano nella raggiunta unità la premessa indispensabile per la fuoriuscita del Sud dal suo endemico sottosviluppo.

 

Si manifestò tuttavia - in questo caso al Nord come al Sud - un forte disagio delle classi popolari nellaccettare il nuovo ordine sociale. Da una parte questi ceti erano fortemente legati all’istitu­zione ecclesiastica e specificamente al papato e non comprendevano le ragioni della sua spogliazione, alla quale temevano avrebbe fatto seguito un vero e proprio tentativo di rimuovere dal nuovo ordine sociale il fatto religioso (obiettivo che, in verità, fu esplicita­mente presente nella componente più duramente anticlericale della classe politica risorgimentale). Mancò, nella cultura cattolica di allora, la capacità di un’educazione realmente popolare, la quale implicasse anche la capacità di operare una distinzione fra strutture ecclesiastiche e vita religiosa: quando questa distinzio­ne fu operata (come nel caso del progetto educativo di don Bosco) il conflitto fra classe dirigente risorgimentale e coscienza popo­lare si rivelò meno violento e traumatico. Vi è d’altra parte da domandarsi se gli indubbi eccessi della legislazione risorgimentale - già anticipata, per altro, nello stesso Regno di Sardegna, dai provvedimenti eversivi di Rattazzi e di Siccardi - non abbiano contribuito per loro parte ad approfondire il solco fra quello che potrebbe essere definito il “cattolicesimo di base”, o popolare, e il nuovo Stato unitario. Ciò che gli intellettuali più lucidi perce­pivano come un inevitabile (seppur almeno in parte negativo) tributo da versare, anche da parte della Chiesa, alla modernizzazione del Paese, veniva invece avvertito come un inaccettabile sopruso da mas­se popolari che spesso vedevano nel clero e soprattutto nei religio­si, nonché nelle loro istituzioni benefiche ed assistenziali, il loro quasi unico sostegno, in assenza di uno “Stato sociale” che avrebbe cominciato a configurarsi soltanto un secolo più tardi.

 

Un duplice limite

 

II lungo ed aspro conflitto - al vertice fra Stato e papato, alla base fra classe politica liberale e cittadini cattolici - rivelava un duplice limite, che solo lentamente e progressivamente poté essere superato nei fatti ma che avrebbe avuto la sua definitiva rimozione soltanto nel 1929, dopo che una serie di antecedenti tentativi di soluzione di una questione ormai non più lacerante per la coscienza nazionale (anche dei cattolici) andarono incontro al fallimento, per i veti incrociati degli oltranzisti dell’una e dell’altra sponda del Tevere.

 

Vi fu, innanzitutto, il limite della Chiesa. Prevaleva ancora un’immagine di Chiesa non come “popolo di Dio” in cammino nella storia (come sarebbe stato messo in luce fra il 1962 e il 1965 dal Concilio Vaticano II), geloso della libertà religiosa ma nello stesso tempo attento al riconoscimento della legittima laicità dello Stato, bensì come “società perfetta”, di continuo minacciata dallo Stato laico e dunque bisognosa di un insieme di garanzie che avrebbero potuto essere offerte soltanto da una sua autonoma realtà territoriale, prevaleva, ancora, l’immagine dello “Stato cattolico”, con la conseguente sopravvalutazione della legislazione - e di una legislazione in tutto aderente ai principî dell’etica evangelica - ed una parallela sottovalutazione del ruo­lo formativo delle coscienze, in mancanza del quale il materiale ossequio reso alla legge sarebbe stato privo di significato. Persisteva ancora, infine, la convinzione che la religione, e spe­cificamente il cattolicesimo, avesse diritto al sostegno e alla protezione del potere politico, senza nello stesso tempo valutare adeguatamente i rischi che sarebbero derivati alla Chiesa da non disinteressati favori: soltanto più tardi, ad Ottocento ormai av­viato alla sua conclusione, si comprese quali spazi di libertà la Chiesa aveva acquisito dopo il processo di laicizzazione, allor­ché - finalmente, si ebbe a sottolineare da parte dei credenti più attenti e sensibili - finirono le interferenze del potere politico sulla nomina dei vescovi, sulla gestione dei seminari, sulle designa­zioni dei parroci, e così via: con le conseguenti pesanti interferenze della sfera politica in quella religiosa che avevano formato oggetto, già nel 1848, della dura condanna di Antonio Rosmini nelle vigorose pagine Delle cinque piaghe della Santa Chiesa. Pagine, queste, che avevano un drammatico e puntuale riscontro, dall’altra parte, negli evidenti limiti dello Stato; di uno Stato, quello unitario, che pretendeva di le­giferare in ambito religioso, si intrometteva negli affari ecclesia­stici, riteneva di poter stabilire quali ordini e congregazioni religiose potessero essere mantenuti in vita, perché “utili” alla società e quali invece dovessero essere soppressi perché, al contra­rio, “inutili”. Che si chiudessero con la forza i monasteri di clau­sura - perché la loro notturna preghiera non serviva a nessuno... - o si riducessero forzosamente allo stato laicale i membri di ordini religiosi, come i Gesuiti, ritenuti “pericolosi” per lo Stato: tut­to ciò appare oggi, alla stessa più matura coscienza laica, come un’inammissibile interferenza nella coscienza religiosa; non così, tuttavia, operò la classe risorgimentale. Anche al suo interno (come nella parte contrapposta) vi furono gli oltranzisti, coloro cioè che dalla contestazione del potere temporale passavano senza transi­zioni all’aggressione frontale al cattolicesimo, considerato come una sorta di palla di piombo sulla via del progresso e come un osta­colo alla modernizzazione, da superare, dunque, ad ogni costo.

Ben si comprende - alla luce di questo duplice limite - come il cammino in direzione della riconciliazione fra Stato e Chiesa - e soprattutto fra cattolici e Stato unitario - sia stato lungo, tormentato, complesso.

Un’utile memoria

II disincantato secolo XXI - che ha alle sue spalle un Novecento che è stato drammaticamente segnato, per un suo lungo tratto, dal tarlo roditore del totalitarismo -non ha più fede nell’antico ada­gio sulla storia magistra vitae, perché la storia non “insegna” proprio niente, a nessuno: puntualmente gli errori si ripetono, le guerre si rinnovano, i contrasti sociali si riaffacciano. E tut­tavia quella della storia è pur sempre una “lezione” che vale la pena di meditare, per cercare, in quanto possibile, di non ripetere gli errori del passato.

In questa prospettiva quello che fu forse il problema più acuto del Risorgimento - e cioè la lacerazione fra coscienza civile e coscienza religiosa - appare un evento esemplare di ciò da cui tanto la coscienza civile quanto quella religiosa devono rifuggire: per la coscienza civile il mancato riconoscimento del ruolo che il fattore religioso può svolgere per la umanizzazione della socie­tà, partendo dal presupposto, ormai acquisito dai più maturi Stati moderni, che la società civile ha bisogno di un quadro di valori ai quali fare riferimento e che danno alla Costituzione ed alle leggi quel fondamento che esse da sole non possono garantire; per la coscienza religiosa l’inadeguata consapevolezza della distinzione di ambiti fra Chiesa e Stato (pur limpidamente affermata dagli Evangeli già duemila anni or sono), con la conseguente tenta­zione di invadere, in nome di Dio, il campo di Cesare, magari nel­l’ingenua illusione che la causa della religione abbia tutto da guadagnare - e non, invece, tutto da perdere - dalle non disinte­ressate blandizie di chi gestisce il potere.

Le due libertà - quella della Chiesa e quella dello Stato - non sono dunque contrapposte, ma complementari: in questo senso, come affermava Rosmini in un passo delle Cinque piaghe, “la li­bertà della Chiesa è il vero aroma che impedisce agli Stati di corrompersi”, così come le “libertà civili” sono l’entroterra di cui la stessa coscienza religiosa ha bisogno per non ridursi a instrumentum regni.

Questo principio è stato a lungo disatteso: prima degli accordi del 1929 per il persistente conflitto fra Stato e Chiesa; dopo il 1929 per il carattere autoritario e, pro­gressivamente, sempre più marcatamente totalitario del fascismo. Soltanto dopo la Liberazione il principio della libertà religiosa divenne definitivamente acquisito.

Ciò non significa, tuttavia, che negli anni che vanno dal 1861 al 1948 la presenza dei cattolici in Italia sia stata marginale. Nonostante i limiti posti all’azione dei cattolici - e malgrado la stessa auto-esclusione da loro stessi teorizzata con il non expedit, i cattolici hanno continuato ad operare in profon­dità nella società civile. Le ricerche sul Movimento cattolico, ad esempio, hanno messo in evidenza quanto importante sia stata, soprattutto al centro-nord (ma non va dimenticata l’esperienza della Sicilia di Luigi Sturzo) l’azione dei cattolici in campo amministrativo: là dove spesso cadevano le preclusioni dei vertici ufficiali ed emergeva il profondo radicamento dei valori cattolici in popolazioni appena lambite dallo spiccato laicismo delle clas­si dirigenti.

Si può dunque affermare che, mentre dall’alto i cattolici sono stati sostanzialmente estranei alla vita dell’Italia unita, dal basso hanno operato per rafforzare un processo unitario nato con un’impostazione decisamente verticistica e solo a poco a poco diventato autenticamente “popolare”.

Se si considera nel suo complesso la vita dello Stato uni­tario nei decenni successivi all’unificazione, si deve constata­re che - estraniati al “centro” - i cattolici erano vivacemente operanti nel Paese: vi era una presenza cattolica vitale, di­namica, operosa nelle aule dei consigli comunali, nelle istitu­zioni benefiche ed assistenziali, nei sindacati e nelle cooperative. Essere fuori del Parlamento, dunque, non significava in alcun modo essere fuori dalla società. Fu nei municipî e, in generale, a livello locale che entrò di fatto in politica - sia pure nella peculiare forma dell’azione amministrativa - una nuova potenziale classe dirigente. I casi di Luigi Sturzo in Sicilia o di Luigi Meda in Lombardia sono sotto questo aspetto emblematici: in molte realtà locali i cattolici svolsero ruoli importanti, soprattutto allorché più forte diventò la forza rappresentativa delle varie espressioni del socialismo, ciò che spinse da un lato la classe dirigente liberale a cercare il sostegno dei cattolici come “uomini d’ordine” e dall’altro i cattolici a supe­rare progressivamente a livello locale il non expedit, proprio in vista della difesa di quei valori che sembravano minacciati dagli emergenti movimenti di sinistra.

Le ricerche condotte a più riprese sul piano locale dagli studiosi del Movimento cattolico hanno ormai corretto, e per certi aspetti rovesciato, l’immagine a lungo persistente della “esclusione”: il panorama delle realtà locali era ben diverso da quello degli organismi centrali dello Stato post-risorgimentale.

Forte e persistente fu, in gran parte d’Italia, l’apporto dei cattolici alle problematiche amministrative. Là dove essi conquistarono il potere locale furono spesso abili amministratori e co­raggiosi innovatori, operando con una forte sensibilità sociale che correggeva la spesso ingenua fede del vecchio liberalismo negli automatismi di mercato. Anche per le sollecitazioni provenienti dal magistero sociale della Chiesa universale, soprattutto dopo la “Rerum Novarum” di Leone XIII (1891, i cattolici furono antesignani di una coraggiosa politica sociale che li poneva in concor­renza - senza tuttavia escludere forme di intesa e di collabora­zione - con quanti, da diversa sponda, e cioè i socialisti, si fa­cevano essi pure interpreti delle istanze di masse popolari che lo Stato liberale aveva di fatto escluso dal potere e aveva tenuto in condizioni di permanente emarginazione.

In conclusione su questo punto, leggere la storia d’Italia assumendo non più l’ottica romana - quella di un Tevere che separava le “due Rome” - ma quella del “paese reale”, implica necessariamente la revisione del luogo comune dell’“estraneità” dei cattolici alla vita dell’Italia unita.

Il risveglio religioso dell’Ottocento

In una diversa prospettiva - ma senza sottovalutare l’incidenza di lungo periodo di questo fenomeno sulla stessa società civile - va segnalato il “risveglio religioso”, per certi aspetti sorprenden­te che accompagnò e seguì il processo unitario. Le serie di interven­ti avversi alle congregazioni e istituzioni religiose (le leggi Siccardi del 1850 e Rattazzi del 1855, progressivamente estese a tutto il territorio nazionale) tagliò in effetti una serie di “rami secchi” ed operò un sia pure impietoso “svecchiamento” delle congre­gazioni religiose. Al di là della miopia e talora della rozzezza di questi interventi di politica ecclesiastica (dall’incameramento dei beni delle istituzioni religiose alla soppressione delle facoltà di teologia), questa azione che a buon diritto può essere definita per­secutoria rappresentò, paradossalmente, l’occasione per la nascita, quasi a macchia d’olio, di nuove congregazioni religiose, maschili e soprattutto femminili, che incisero in profondità sulla vita della società italiana. Per la prima volta nella sua storia l’Italia vide una presenza religiosa femminile che sino ad allora era stata confinata nei monasteri e nei collegi e che ristabiliva il perduto contat­to fra vita quotidiana e vocazione religiosa. Una Chiesa troppo spesso legata, soprattutto in alcune sue istituzioni, alle classi agiate diventava autenticamente “popolare”. Proprio nell’Ottocento laicista ed anticlericale fiorivano nuove vocazioni al servizio agli ultimi e ai poveri come mai, dopo la stagione medievale, si era visto nella storia d’Italia: di questo nuovo volto della Chiesa - purificato di non poche sue incrostazioni “borghesi”- furono espressione le numerosissime organizzazioni religiose, maschili e femminili, che fiorirono in tutta Italia, dai Salesiani di don Bosco in Piemonte ai Rogazionisti di Annibale di Francia a Messina, dalle Missionarie del S. Cuore di Francesca Cabrini alle piccole congregazioni religiose sparse in tutto il Paese e che si posero a servizio delle classi popolari: uomini e donne che affrontarono con coraggio e lungimiranza i problemi lasciati aperti dalle carenze dello Stato liberale, oltre che dall’oggettiva arretratezza dell’economia e della società italiana. Fiorirono così le iniziative per l’accoglienza dei malformati o per l’istituzione di scuole professionali per i figli, un tempo analfabeti, degli operai e dei contadini, così come per l’assistenza agli emigrati e alle loro famiglie (milioni di persone coinvolte in quella sorta di vero e pro­prio esodo di massa che caratterizzò l’Italia della fine degl’Ottocento e del primo Novecento).

Senza esplicitamente volerlo, e senza saperlo, questi nuovi ordini e congregazioni religiose, maschili e femminili - della cui importanza i fitti studi sul Movimento cattolico hanno fornito ampia documentazione - davano così il loro contributo alla costruzione di una effettiva unità d’Italia, questa volta dell’“Italia reale”, quella delle classi emarginate del Nord e del Sud. Sotto questo aspetto, le varie congregazioni religiose si avvantaggiarono della raggiunta unità perché poterono operare, senza barriere, a livello nazionale, favorendo gli scambi religiosi - ed inevitabilmente anche culturali - fra Nord e Sud, regioni rimaste un tempo abissalmente lontane: per questa via la Chiesa italiana maturava progressivamente la propria identità.

Occorre del resto riconoscere che un’Italia formalmente lai­ca, e spesso suggestionata da un virulento anticlericalismo, non ostacolò, ma anzi in qualche caso appoggiò - come avvenne con i Salesiani grazie al loro stretto rapporto con la monarchia sabauda - questo fervore di iniziative e di opere. Se il malessere sociale presente in vaste zone del Paese non sboccò in tumultuosi eventi rivoluzionari lo si deve in gran parte a questa attiva presenza del­le organizzazioni cattoliche nella realtà sociale, tale da correg­gere almeno in parte le carenze dello Stato liberale.

Si può dunque affermare che - dopo due secoli sotto molti aspet­ti “oscuri”, anche sul piano religioso, il Seicento dominato da una spagnolesca religiosità di facciata e un Settecento fortemente influenzato da un illuminismo razionalistico - l’Otto­cento fu per l’Italia, dapprima col movimento romantico e poi con un forte risveglio religioso, il secolo della vigorosa ripresa di un Cristianesimo che nella penisola aveva profonde radici.

A motivazione di questo giudizio basterà ricordare alcuni fatti estremamente significativi.

In primo luogo l’unificazione nazionale pose fine alle inammissibili (ma spesso subìte) interferenze dei vari Stati preunitari nella nomina dei vescovi, nell’organizzazione delle diocesi, nella vita interna delle organizzazioni religiose. Accanto allo Stato italiano nacque la Chiesa italiana, e si crearono le premesse per un profondo rinnovamento in tutti i campi, a partire dalla formazione del clero: con la nuova organizzazione dei seminari, si può affermare che di fatto si realizzò, solo allora, l’insieme delle indica­zioni del Concilio di Trento in questo ambito.

In secondo luogo, l’ostracismo decretato nei confronti delle congregazioni religiose tradizionali aprì indirettamente il varco al fiorire di nuove congregazioni religiose, maschili e soprattutto femminili, che poterono beneficiare della libera circolazione nel paese favorita dalla raggiunta unità.

Infine - per limitarsi ai fatti più rilevanti - la fine del temporalismo, con le sue inevitabili compromissioni ed ambiguità, rese la Chiesa più umile, più povera, più evangelica, più decisamente posta a servizio della sua missione evangelizzatrice, favo­rendo il fiorire di nuove forme di pietà ed insieme di appassionato servizio agli ultimi, ai poveri, agli esclusi (tali rimasti, a lungo, anche dopo la raggiunta Unità).

Quello che, nell’ottica della breve durata, poteva apparire uno scacco si rivelò, alla fine, un’inattesa risorsa.

La “terza fase”

Se il Concordato del 1929 sembrò a prima vista porre fine all’emarginazione politica dei cattolici, in realtà già era cominciata a profilarsi dopo il 1922 - con la dura lotta condotta contro il Partito popolare di Sturzo e poi con la soppressione di questo, come di tutti gli altri partiti ad opera del fascismo - una nuova fase di conflittualità fra Chiesa e Stato. Per certi aspetti, un poco paradossalmente, i conflitti fra Stato e Chiesa furono, dopo il Concordato, più duri e più radicali di quelli verificatisi nei decenni successivi alla raggiunta Unità. Allora, all’indomani di Roma capitale, sembrarono centrali questioni come la “territoria­lità” della S. Sede o lo statuto dei beni ecclesiastici; ma dopo il 1929 quelle antiche dispute apparvero quasi “scaramucce di retro­guardia” rispetto ai durissimi conflitti che si aprirono nel decen­nio successivo al Concordato: l’aspra contesa per l’educazione della gioventù (la crisi intervenuta nel 1931 e continuata anche negli anni successivi, in ordine al problema dell’educazione della gioventù, che il fascismo pretendeva di monopolizzare); l’esalta­zione della guerra e della violenza in antitesi con il messaggio evangelico; la legislazione razziale, che non solo violava il principio dell’eguaglianza dei cittadini, ma si poneva al servizio di una vera e propria “ideologia della razza” e di una “idolatria del san­gue” antitetici ai valori evangelici.

Si può dunque affermare, in questa prospettiva, che la fine dell’antica conflittualità fra Stato e Chiesa si è realizzata, nel nostro Paese, soltanto il 1° gennaio 1948 con la entrata in vigore di quella Costituzione repubblicana, che recepiva in parte il Con­cordato e nello stesso tempo indicava le vie per il graduale supera­mento delle norme in esso contenute contrastanti con la nuova concezione della persona fatta propria dai Costituenti con il determinan­te apporto dei cattolici. La pietra tombale su quel lungo e doloroso conflitto fu dunque quel famoso art. 7: “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modifica­zioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedi­mento di revisione costituzionale”. Iniziava e proseguiva sino ai nostri giorni - dopo gli Accordi di revisione stipulati nel 1984 - quella convergenza che ha garantito al paese una sostanzia­le “pace religiosa”, mai messa in discussione né dalle asprezze polemiche dei residui anticlericali né dalle velleitarie aspira­zioni ad uno “Stato cattolico” degli ultimi eredi della destra conservatrice.

Quale sia stato l’apporto dei cattolici all’Italia repub­blicana è ormai messo ampiamente in evidenza dalla storiografia, di qualunque tendenza; né viene ormai messa in discussione l’altissima statura morale dei grandi leader di estrazione catto­lica, da Alcide De Gasperi ad Aldo Moro. Che il periodo della co­siddetta “egemonia dei cattolici” sia stato quello della grande modernizzazione del Paese, del superamento dei nazionalismi con l’avvio del processo di costruzione dell’Europa unita, della cre­scita economica e culturale del Paese non è in pratica messo in discussione da alcuno. Le stesse critiche che vengono ora rivolte - con un’asprezza che talora dimentica il particolare contesto di quegli anni - alla fase conclusiva della parabola del partito della Democrazia Cristiana risultano ora ridimensionate dalla constatazione che il “dopo” - la fase che si è aperta con l’avven­to al potere di Berlusconi - non è risultato poi più felice del “prima”: segno, questo, che la crisi del Paese era più profon­da di quanto avessero ritenuto, alquanto superficialmente, di addebitare alla sola Democrazia Cristiana e ai suoi uomini le ragioni delle difficoltà del Paese. Spazzata via quella classe dirigente e conclusa la parabola del­la Democrazia Cristiana, i problemi sono rimasti e sotto molti aspetti, anzi, si sono aggravati.

Analizzare i rapporti fra il Paese e i cattolici nel sessantennio che va dal 1948 ai nostri giorni è in questa sede impossibile. Siano tuttavia consentite alcune osservazioni estremamente sintetiche, ed in particolare due notazioni.

La prima osservazione riguarda il deciso spostamento che nel corso di questi decenni si è verificato nel rapporto fra Nazione Italia e cattolicesimo. In una abbastanza lunga fase, pur permanendo (soprattutto negli anni di Pio XII) un’autorevole e carismatica presenza del pontificato, i laici cattolici impegnati in po­litica hanno saputo guadagnare e mantenere uno spazio di sostanzia­le autonomia, venendo solo in parte condizionati dall’apparato ecclesiastico. In una seconda fase - quella sostanzialmente apertasi con la crisi della D.C. - al protagonismo laicale è succeduto un protagonismo episcopale, per certi aspetti necessariamente imposto dal corso degli avvenimenti ma per altri aspetti collegato ad una nuova coscienza di sé della Conferenza Episcopale Italiana, assurta al ruolo di potenziale guida morale del Paese. Si è, in altre parole, determinato un vuoto (laicale) che è stato inevitabilmente colmato da un soggetto diverso (episcopale). Sembra opportuno, ora, realizzare un diverso equilibrio, ciò che impone la crescita e la maturazione di un laicato adulto, capace di camminare con le proprie gambe (e impone, parallelamente, la fine del malvezzo laicistico - non è facile comprendere se voluto o inconsapevole - di identifi­care sistematicamente e semplicisticamente Chiesa e gerarchie ecclesiastiche, dimenticando del tutto la lezione del Vaticano II). La seconda notazione fa riferimento ad una necessaria nuova capacità progettuale dei cattolici italiani. Essa non mancò negli anni della crisi del fascismo - nella stagione che va dal “Codice di Camaldoli” del 1943 alla vivace stagione della Assemblea Costituente – ma sembra essere ora parzialmente venuta meno: con il rischio che i cattolici siano semplicemente i parziali e spesso maldestri correttori degli eccessi mercantilistici e liberistici della destra, o delle frenesie individualistiche e libertarie di questa sinistra: e dunque, da una parte e dall’altra, con la funzione di “pompieri”: quando invece i credenti non dovrebbero mai dimenticare l’accusa loro mossa alle origini della predicazione evangelica, quella cioè di essere dei sovvertitori dell’ordine stabilito, e cioè, appunto, degli “incendiari”. Gli incendiari - notava amaramente Mounier negli anni tragici della seconda guerra mondiale – erano ormai divenuti pompieri; e venti anni dopo Nicola Pistelli constatava che di quei lontani incendi restava nelle comunità cristiane solo uno stantìo odore di incenso ...

Hanno i cristiani ancora qualche cosa da dire a questa Italia che ha appena passato il giro di boa dei suoi 150 anni? Come e dove sapranno dirlo?

Si pone, a questo proposito - in qualche modo inevitabilmente - il problema del ruolo dei cattolici democratici, conti­nuatori di una tradizione ed eredi di una cultura che viene da lontano. In quale misura questa cultura, questa visione della politica, può essere riproposta ancora oggi? Rispondere a questa domanda sarà il momento conclusivo di questa relazione.

Minoritari, ma “vincenti”

Riflettere sul cattolicesimo democratico in un’ampia prospettiva storica - quale è appunto quella che fa riferimento al 150° dell’unita – significa partire da una semplice, ma non sempre ovvia, constatazione, e cioè che gli apparentemente perdenti sono risaltati alla fine vincenti. Con la riserva di dedicare più oltre uno speci­fico spazio al periodo successivo al 1945, che ha una storia tut­ta particolare, meritano di essere sottolineati tre momenti specifi­ci di questo “scacco” e poi di questo “successo”.

Il primo “scacco” fu quello del cattolicesimo liberale, impersonificato dalle grandi figure di Rosmini e di Manzoni (ma anche, per certi aspetti, di Ventura e di Gioberti). Fra il 1848 e il 1870 si consumò la fine del progetto di possibile conciliazione fra la Chiesa e il nascente stato unitario. La testarda opposizione del­la Chiesa di allora ad ogni ipotesi di rinunzia, o meglio di trasfor­mazione, della sovranità temporale determinò emarginazioni, censure, talora scomuniche. Si dovette poi constatare - come fece G. B. Montini in un memorabile discorso in Campidoglio - che quella che venne allora considerata (ma non dai cattolici liberali, o conciliatoristi) una iattura si era in realtà rivelata una fortuna,un’occasio­ne per la Chiesa di un profondo rinnovamento e di un felice ritorno alla sua vocazione originaria.

Il secondo “scacco” fu quello di uomini, come Geremia Bonomelli prima e Luigi Sturzo poi, che negli anni conclusivi dell’Ottocento ritennero maturi i tempi per il pieno reinserimento dei cattolici nella vita del Palese, “scavalcando” in qualche modo l’irrisolta “questione romana” e confidando che il trascorrere del tempo avreb­be consentito, alla fine, quel ralliement che quasi negli stessi anni - sia pure in un diverso contesto – si andava realizzando in Francia. Come noto, Bonomelli fu costretto ad un’umiliante ritrattazione nella Cattedrale della sua Cremona e Sturzo dovette tenere a lungo nel cassetto quel progetto di Partito popolare già definito nelle grandi linee nel “discorso di Caltagirone” del 1905.

Svanì - o meglio, fu accantonato - il sogno di una riconciliazione fra cattolicesimo e democrazia.

Venne poi il terzo “scacco” - forse il più drammatico, per le conseguenze di lungo periodo che ne derivarono e per il peso che esso ha avuto sulla storia d’Italia - quello subito dai cattolici democratici nel 1929 con la firma dei Patti Lateranensi e non già sotto il profilo della soluzione data alla questione romana - che tanto De Gasperi quanto Sturzo, esuli rispettivamente in Vaticano e a Londra, sostanzialmente approvarono - quanto per l’avallo che, almeno implicitamente, con il Concordato, veniva dato al regime fascista. Fu quella la stagione dell’illusione di potere “cri­stianizzare” il fascismo con una macroscopica sottovalu­tazione del suo carattere totalitario e alla fine radicalmente anticristiano. Gioirono, allora, i cattolici conservatori, soffrirono i cattolici democratici, come una serie di documenti pubblicati soltanto molti anni dopo sta ad attestare. Ma le leggi  razziali, l’alleanza con il nazismo, l’irresponsabile ingresso in una guerra non voluta dal popolo italiano mostraro­no ben presto i limiti degli accordi del 1929. Ancora una volta la storia dette ragione a quella minoranza di cattolici - in primis i già ricordati De Gasperi e Sturzo - che ritenevano salvaguardata la libertà della Chiesa soltanto all’interno di un generale quadro di libertà e di democrazia.

Venne poi, a partire dal 1943, la stagione del “ritorno”, o meglio della riemergenza, del cattolicesimo democratico, che nel­la sua migliore stagione, da De Gasperi a Moro, mostrò le sue migliori capacità riformatrici e conferì un nuovo e più moder­no - ma soprattutto più libero - volto all’Italia, resistendo alle reiterate pressioni di un mai domo cattolicesimo conservato­re, incline a fronteggiare l’alternativa comunista con le leggi speciali piuttosto che con le armi della democrazia. Questa volta, solo questa volta, fu il cattolicesimo democratico, non senza fatica e non senza resistenze, a definire il ruolo storico dei cattolici in Italia.

Se si considerano nel loro complesso questi 150 anni, la stagione del secondo dopoguerra fu una sorta di unicum: a poco a poco il cattolicesimo conservatore ha ripreso gli spazi che gli erano stati sottratti, sino a dare luogo alla degenerazione e poi alla fine della Democrazia Cristiana e al paesaggio di gran parte della classe politica e dell’elettorato di ispirazio­ne cattolica ad un blocco conservatore che - sia pure a di­stanza di un secolo con il determinante apporto di mezzi di comunicazione di massa usati con assoluta spregiudi­catezza - ha ereditato tutti i vizi e nessuna delle virtù del cattolicesimo moderato di fine Ottocento. Ancora una volta, dun­que, uno scacco: ma uno scacco definitivo?

Si è verificata nel frattempo un’importante e decisiva “va­riante”: quella rappresentata dal nuovo volto della Chiesa, con il passaggio dalla “Chiesa dell’intransigenza” (quella del Silla­bo) ad una “Chiesa del dialogo”, quella del Vaticano II. Né è elemento marginale il fatto che i cattolici di ieri, assumendo posizioni conservatrici, potessero tranquillamente appellarsi al magistero di allora; mentre i cattolici di oggi si trovano di fronte ad un magistero sociale incentrato sui valori della pace, della giustizia, dell’eguaglianza, della lotta alla povertà e all’emarginazione, della solidarietà fra i popoli, dell’accoglienza umana degli emigranti, e così via. È finito il tempo delle scomu­niche: gli “eretici” di ieri sono diventati gli “ortodossi” di oggi. Senza conferire ad alcuno patenti di eresia - perché il Concilio Vaticano ha imposto uno stile ben diverso da quello del passato - non si può non riconoscere che la fedeltà al messaggio del Vaticano II appare incompatibile con il sostegno offerto ad una visione edonistica, consumistica, antisolidaristi­ca della vita quale è sfacciatamente proposta - purtroppo grazie anche al voto di non pochi cattolici - da coloro che negli ulti­mi venti anni hanno in prevalenza detenuto il potere.

In questo senso il ritorno allo spirito del Concilio - e forse soltanto ad esso - può garantire ad un tempo il rinnovamento della Chiesa e il rinnovamento della politica. A differenza del cattolicesimo conservatore - nonostante i sostegni che esso continua ad avere anche in taluni ambienti ecclesiastici - il cattolicesimo democratico, quando prende in mano i testi del Concilio, si ritrova a casa sua.

Il grande problema - e la grande sofferenza di questi anni di gri­giore e di sconcerto - è quello di trasformare i grandi ideali conciliari di giustizia e di solidarietà in un concreto progetto politico. È e sarà questa, ormai a cinquant’anni dalla conclusio­ne dell’evento conciliare, la grande fatica del cattolicesimo democratico italiano, chiamato a rilegittimare, soprattutto agli occhi delle nuove generazioni, una presenza che troppo a lungo è stata offuscata ed emarginata. Occorre, per questo, essere uomini e donne aperti alla speranza, capaci di imprimere una svolta al corso della storia italiana: nella consapevolezza che, anche al di là delle specifiche appartenenze religiose, i grandi valori ai qua­li il cattolicesimo democratico si richiama sono largamente condivisi dalle nuove generazioni (anche se talora guardati con diffiden­za in certe sagrestie ...). È dunque venuto il tempo di aprire una nuova fase nella storia del cattolicesimo democratico.

Tuttavia essere stati storicamente “vincenti”, sotto molti aspetti, non precostituisce, in alcun modo, per i cattolici democra­tici, alcuna “primogenitura”. Come ieri, anche oggi quanti si richiamano alla tradizione del cattolicesimo democratico devono, per così dire, conquistarsi i galloni sul campo: dimostrare, cioè, di avere una più acuta visione della società, una più forte capacità progettuale, l’effettiva capacità di tradurre in prassi politica i valori nei quali ci riconoscono. Sarà questo, in futuro, il ban­co di prova di quanti, da credenti, rifiutano di integrarsi in un blocco conservatore apparententemente a-ideologico ma in realtà porta­tore di una concezione della vita basata sull’assoluto primato dell’economico. Cosi l’economicismo marxista - per fortuna storicamente corretto da altre, anche se incoerenti, idealità - ha lasciato il posto ad un ecomicismo assai più insidioso, quello che si fonda sull’idolatria del mercato.

Riaffermare il primato delle persone sulle cose, del­l’uomo vivente sull’uomo produttore/consumatore è il grande com­pito storico di un cattolicesimo democratico che non accetti la comoda omologazione agli stili di vita dominanti. Ma è un compi­to che può essere assolto solo a condizione di rendere in quanto possibile “popolare” - e cioè comprensibile ed appetibile da par­te degli uomini e delle donne comuni, e soprattutto dalle nuove generazioni - il messaggio umanistico di cui è ancora portatore. Si tratta, dunque, di elaborare una nuova progettualità e di riu­scire a renderla un sentire vasto e diffuso.

Conclusione

Sia consentito - a conclusione di una riflessione che ha voluto essere fondamentalmente “laica” - un richiamo essenzial­mente religioso, ispirato ad una pagina di un uomo, Giuseppe Dossetti, che forse più di ogni altro, nella sua stessa biografia, ha vissuto, e superato, l’apparente antinomia fra l’azione, e specificamente l’azione politica, e la contemplazione, grazie ad una vita monastica mai separata dalla vita della città. In un memorabile discorso del 1987, Eucaristia e città, Dossetti mostrava lucidamente questa connessione. L’amore per il prossimo, il servizio agli ultimi, la passione per la città – notava - sono costitutivamente connessi con l’Eucaristia, come “amore ... traboccante verso ogni fratello e verso ogni uomo” (p. 120). Quella dell’Eucaristia, notava ancora il politico divenuto monaco, è “una politicità sui generis, che non governa e non ha potere” ma è “amore oblativo indipendente da ogni condizione esterna mutevole”. Prendere sul serio l’Eucaristia è prendere sul serio anche la politica.

Che troppi cristiani abbiano dimenticato que­sta lezione è causa non ultima del diffuso disimpegno dalla poli­tica, di questa sorta di nuovo non expedit che priva il Paese di una diffusa e responsabile presenza dei cristiani nella società. Ma l’Italia di oggi, come quella di ieri, ha ancora bisogno dei cattolici, e di cattolici autenticamente democratici.


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