"Come diventare marginali"

sulla presenza dei cattolici democratici nella politica

Nino Labate risponde a Giorgio Armillei

Nino Labate

8 Ottobre 2012

 

Flaubert sosteneva che togliere dalla testa i luoghi comuni significa far  fare un passo avanti alla conoscenza. Ignoravo i “4 gruppetti” e l’opzione verso i “figli di in Dio minore”  che ritengo possibile e non mi sorprendo,  dati  i criteri casuali di selezione della nuova  classe politica a tutti i livelli. Mentre mi risulta che la “cerniera” verso il centro,  la cura cioè di un  elettorato che oggi con una forzatura sociologica  chiamiamo moderato ma forse faremmo bene a chiamarlo “incazzato”,  sia sempre stata una preocupazione costante, prima dei popolari  “margheritini”, e dopo dei popolari del Pd. Non ci sono riusciti anche per incomprensioni ideologiche interne.

 

Questo fallimento è stato però fatale perché ha fatto accantonare (anche) il patrimonio culturale che portavano in dote, il quale andava invece alimentato, incarnato nella storia, e offerto ai compagni di percorso e al paese  intero una volta filtrato delle cose che non reggevano la sfida dei tempi.

Oggi questo patrimonio è depositato solo nei rivoli della nostra costituzione mentre poteva essere “pungolo” di un nuovo corso del centrosinistra e servizio etico alla democrazia politica.  La grave colpa dei cattolici democratici e popolari del Pd e’ stata allora proprio quella del disinteresse dimostrato verso le loro radici culturali (la democrazia non tratta  solo procedure e regole, competizione e consociazioni, bipolarismo o bipartitismo, primarie e secondarie, ecc.)  contribuendo ad affossare in modo definitivo la sostanza della loro presenza politica e della loro collocazione negli schieramenti. Non erano necessarie correnti interne, tessere e ruoli oligarchici di  vertice. Bastava solo un luogo di dibattito e di incontro.

 

Ma arrivati a questo punto io e lei, caro Armillei, non siamo più d’accordo.  Un luogo comune  antistorico vuole infatti che i cattolici democratici e popolari siano (e siano stati) statalisti, centralisti, “bolscevici”, dirigisti, pianificatori, contro la proprietà privata e il libero mercato,  antiliberali,  contro il privato e a favore del pubblico,  catto-comunisti , ecc.

Ma questo discorso ci  porterebbe lontani. Da Sturzo in poi  e arrivando alla nostra carta costituzionale, le libertà  e il libero mercato,  mettendo al centro la persona, i corpi intermedi, sino allo stesso capitalismo economico regolato, sono infatti state  le idee  del cattolicesimo  politico del novecento.

La spesa pubblica?  Governi di tutto il mondo (liberisti, socialisti, socialdemocratici e cristiano democratici) non la hanno potuta frenare!  Non c’e’ tuttavia dubbio alcuno invece, che proprio in virtu’  delle radici culturali  c’e’ stata una precisa scelta privilegiata: quella della coesione sociale e  della collegialita’ (cercata  anche nella chiesa post-conciliare!). E quindi, se vuole,  la presa di distanza dal leaderismo e dal presidenzialismo di “un uomo solo al comando”. Favorendo il   lavoro di  squadra , il territorio, la comunita’, il collettivo, il  gruppo, insomma il  parlamento come luogo centrale di mediazione dei conflitti e degli interessi, e della ricerca del bene comune.  Attraversando la “complessità sociale” morotea ,  la centralita’ del parlamento, nel piu’ giusto equilibrio con i rimanenti  poteri costituzionali, e’ stata una scelta culturale (!). Da Dossetti in poi (peraltro continuamente frainteso anche nelle sue aperture riformiste), da La Pira, Lazzati, arrivando a Moro, Zaccagnini, Bodrato, Martinazzoli e Andreatta sino a Elia, Scalfaro e  se vogliamo allo stesso Scoppola, il parlamento e’ stato il luogo istituzionale  di riferimento, oggi  spodestato e in ritirata di  fronte al nuovo dirigismo della Bce su cui si tace! 

E’ fuori  dalla cultura politica  liberale tutto cio’?  Decida lei.

 

Certamente c’e’ stata, specie  nei suoi rigurgiti neoliberisti,  la feroce critica di quella “filosofia” che ritiene l’individuo il centro dell’universo e  che va sotto il nome di individualismo metodologico verso cui con un vero e proprio ossimoro politico hanno purtroppo disinvoltamente dimostrato interesse diversi cattolici.

Quel neoliberismo senza comunita’ di appartenenza,  anarchico, che si autodetermina, con molta societa’ (sic) e poco stato, con molta societa’ civile (sic) e poca societa’ politica,  autonomo, con il partito politico in ritirata, ma poi nelle mani  delle forze  economiche e della “mano invisibile” di quel  capitalismo finanziario,  Wall Street e  grandi banche,  che ormai rappresenta il vero potere reale supercentralizzato (e surrettiziamente superstatalista!) che manda in crisi la stessa idea di  poliarchia nella sua versione di  pluralismo economico e sociale.

 

Ebbene di fronte a tutto questo tsunami  di paradigmi, non c’e’ stato un  solo cattolico liberale, (non dico cattolico sociale) uno solo,  che abbia alzato (e alzi) un dito di denuncia e di allarme.

 

Su Renzi e sulla sua grande sciocchezza della  rottamazione è meglio evitare. E mi dispiace che lei riduca banalmente il riempimento di un vuoto, che pure esiste, al rapporto tra politica ed economia. questione seria quest’ultima ma che pero’ da sola non risolve e risolvera’ il futuro della democrazia politica e delle societa’ .

 

La marginalita’ del cattolicesimo democratico e popolare e’ ormai a tutto campo. A partire dal vuoto culturale che colpevolmente  non e’ riuscito a coprire abbandonando una nobile tradizione al suo destino.

 

Ma non tocca a me la sua difesa d’uffico.   

 

Posso pero’ solo constatare che i luoghi comuni, anche quelli storiografici non solo quelli  cattocomunisti  della propaganda politica,  non vanno via facilmente.

 

Ma, come pensava Flaubert,  creano purtroppo  facili  pregiudizi  e  non fanno crescere la conoscenza.