Ricordando Gabriele Gherardi

Giancarla Codrignani

Agosto 2016

La vera tristezza dell'invecchiare è la perdita degli amici. Se ne è andato anche Gabriele Gherardi, un cattolico che amava essere un "compagno", parola seria per i non molti che ne pensavano il valore relazionale di condivisione. La tristezza cresce quando ci si rende conto che anche le conoscenze non banali "si perdono" con il tempo, perché la vita ti porta in direzioni diverse e chi era con te in un periodo, lo ricordiamo, ma non così tanto da non dover poi rimpiangere di averlo lasciato andare prima del congedo.

Gabriele l'ho conosciuto direttore della rivista Il Regno, quando c'era da praticare una bella resistenza per mantenere l'indipendenza senza rinunciare all'imprimatur. Era anche dirigente delle Acli, proprio negli anni in cui la Democrazia Cristiana - e, di conseguenza, il mondo cattolico allora vittima di un'indicazione politica strumentale nel nome di un partito - si apriva non senza difficoltà all'incontro con il socialismo. Ancora i lontanissimi anni Sessanta(del secolo scorso): le Acli per la loro connaturata vocazione sociale erano disponibili a un salto di qualità, ma dovevano fare i conti con le preoccupazioni clericali: Paolo VI intervenne pesantemente e si arrivò alla minaccia di una condanna. Domenico Rosati, allora presidente nazionale, mi ha mandato una sua testimonianza che illustra le tensioni di quegli anni e testimonia la personalità di Gabriele Gherardi rievocando lo spessore dell'uomo che ho conosciuto anch'io, dignitoso e leale, vicesindaco a Bologna con i sindaci Zangheri e Imbeni, che divenne, suo malgrado, un "cattolico del dissenso. Per l'importanza del'ex-senatore democristiano Rosati, oggi anche lui su posizioni più coraggiose e aperte, riprendo le sue parole.

« Di Garbriele ho un ricordo indelebile. Una notte del luglio 1971. Il Consiglio Nazionale delle Acli, dilaniato sulle scelte da compiere sul futuro dell'associazione dopo la "deplorazione" di Paolo VI, aveva nominato due delegazioni per verificare se fosse stato possibile realizzare in modo unitario un cammino congressuale risolutivo. Incombeva infatti sull'organizzazione dei lavoratori cristiani la minaccia di una scissione che era stata preordinata sia in sede politica che in sede ecclesiastica. Gabriele accettò di far parte della delegazione di maggioranza che io dovevo condurre. E prima di cominciare mi disse: "Io non sono d'accordo sulla trattativa ma non ti ostacolerò". Era un atto di generosità verso il movimento.

Le cose, come è noto, finirono male: la minoranza, già predisposta alla scissione, non accettò nessuna proposta, né quella di un gruppo paritetico di preparazione del congresso, né quella di una presenza negli organi esecutivi. Ma il cammino fu lungo e faticoso. E Gabriele non aprì mai bocca. Lasciava che io conducessi il confronto secondo l'impegno preso.

Unica manifestazione vitale era il sudore sempre più copioso sulla sua fronte: non era attribuibile solo alla calda notte estiva. Gabriele soffriva, soffriva davvero; ed io non potevo guardarlo senza turbamento.

Fu anche per questo che decisi di chiudere tutto. E lo feci dichiarando che, indipendentemente dalla volontà degli interlocutori, la maggioranza avrebbe dato un segno unilaterale di buona volontà facendo dimettere sei componenti dagli organi esecutivi in modo da lasciare altrettanti posti liberi a disposizione della minoranza. Poi le dimissioni ci furono, ma la minoranza andò per la sua strada. Però tutti capirono da che parte stava la volontà unitaria.

Con Gabriele non abbiamo mai avuto occasione (o l'abbiamo evitato) di ricordare quella notte. Ma io o voglio farlo in questo momento di commiato. Aggiungendo un particolare: che alla fine di quella nottata ci abbracciammo e piangemmo insieme ».