La scomparsa dei cattolici dalla campagna elettorale

Giuseppe De Rita

 

da Corriere della Sera - 28 Gennaio 2013
Forse non è inutile, anche se non di moda immediata, capire cosa ci sia sotto l'inaspettata scomparsa del mondo cattolico in questo primo periodo di campagna elettorale. Partito un anno fa per rilanciare una sua compatta presenza (addirittura con l'ipotesi di un «nuovo soggetto politico»), esso si è progressivamente frantumato in varie strade e liste elettorali.

 

Una dispersione che qualcuno «in alto» ha cercato di evitare con l'endorsement all'attuale premier ma che, dopo lo spazio di un mattino, ha ripreso a produrre i suoi effetti, e tutti gli interessati si sono affannati ad accasarsi nella squadra che contava e/o offriva di più. L'appartenenza cattolica è diventata un elemento del curriculum individuale, non il riferimento a un'anima collettiva di proposta politica.

È fin troppo moralistico dare la colpa di tutto ciò alle singole furbizie di posizionamento. Piuttosto la ragione va attribuita a una debolezza culturale profonda: il mondo cattolico, malgrado la sua antica fama di antistatalismo, è forse il più fedele seguace della centralità e della sovranità dello Stato; della sua titolarità esclusiva a perseguire il bene comune; dell'importanza della funzione politica che lo gestisce; della dinamica elettorale che quella funzione alimenta e certifica. Sta quindi in questa complessa adesione al primato dello Stato la base della debolezza politica del mondo cattolico.

Eppure tutti vediamo bene che lo Stato-centrismo è in crisi dappertutto e che il mondo va verso una logica squisitamente policentrica del potere, solo che si ricordi la crisi degli stati nazionali e della loro sovranità; la crescita di poteri sovranazionali non riconducibili a strutture sovrastatuali (la Ue e l'Onu); la forza dei flussi (monetari, di popolazione, di culture) rispetto ai luoghi della sovranità; il peso crescente di poteri destrutturati, (ultimi i tuareg e le tribù africane) rispetto ai poteri magari militari degli Stati; il crescente potere logistico, finanziario e politico delle trenta grandi metropoli planetarie (da Londra a Shanghai); tutto fa prevedere che nei prossimi decenni il potere non sarà più degli stati nazionali, ma di nuove e plurime sedi di responsabilità.

Se qualche volta ci ricordassimo, cattolici e laici, che il cristianesimo non è solo una religione ma una realtà che è stata storicamente partecipe della nascita e della scomparsa di interi mondi, allora dovremmo poterne riconoscere il ruolo nel coltivare i riflessi anche italiani dei citati processi di crescente de-statalizzazione e di crescente policentrismo dei poteri. Ed invece restiamo provinciali sostenitori del primato dello Stato; laicamente obbedienti a tenere la religione circoscritta nella sfera privata e fuori della dinamica statuale; affezionati all'impiego statale; devoti al Welfare State che copre i nostri bisogni sociali; assuefatti all'idea che solo lo Stato è titolare del perseguimento del bene comune; e tutti quindi occupati oggi a capire quali forze politiche lo occuperanno e guideranno; e chi simbolicamente lo impersonificherà come Capo dello Stato.

In cotanto antropologico statalismo (certo non compensato dal riferimento a una fantomatica «società civile») il mondo cattolico sembra purtroppo vivere bene, senza troppe preoccupazioni per quel bene comune che a parole dice di perseguire. Vede la povertà del contesto, ma non ha la visione sociopolitica necessaria per andare oltre; e se l'avesse avrebbe paura delle potenziali accuse di fondamentalismo; per cui si premunisce disperdendosi un po' in tutte le formazioni che vanno alle elezioni; tirando un po' a campare, ma promettendo che si mobiliterà se e quando saranno in pericolo i cosiddetti valori non negoziabili. In questa non entusiasmante prospettiva a breve termine, forse sarebbe stato più utile «saltare il turno» delle elezioni di febbraio e prepararsi alla prossima volta, facendo maturare quella unitaria capacità di discernimento e proposta che oggi non risulta in gioco


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