Liberare il Concilio

Raniero La Valle

Gennaio 2012

 

È questo il primo articolo che scrivo quest’anno e mi pare di non poter cominciare il 2012 senza un grido d’allarme sullo stato della fede e della Chiesa.

Quest’anno, l’11 ottobre, cade il cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio e del discorso inaugurale di Giovanni XXIII che annunciava gioia alla Chiesa (“Gaudet mater Ecclesia”) e un “balzo innanzi” nella fede, contro i malauguri dei profeti di sventura; a partire da questo anniversario, comincerà poi, indetto da Benedetto XVI, l’“anno della fede”.

Tuttavia né la Chiesa cattolica appare in buona salute, né la fede appare rigogliosa. La Chiesa in Italia, liberata dal discredito che le veniva dalla contiguità con Berlusconi, non ha avuto un guizzo di vitalità, e giace inerte dinnanzi alla crisi tremenda che attraversa il Paese e scuote l’Occidente: né sa interpretarla, né sa dire parole di rinascita e di guida; l’unica cosa che si vede è una certa agitazione intorno a improbabili ritorni al potere di qualche élite cattolica obbediente.

Più grave è la condizione della fede. Le chiese restano vuote, anche quando i “meetings” religiosi fanno il pieno. I dati riportati più avanti nell’articolo di Giannino Piana danno conto di questa crisi della religione in Italia, mentre un’inchiesta pubblicata nell’ultimo “Annale” della rivista Il Regno mette soprattutto in rilievo la questione giovanile: sia per la frequenza alla Messa e ai sacramenti, sia per la preghiera personale, sia nel dichiararsi credente c’è uno scarto generazionale imponente tra i nati prima del 1945 e le giovani generazioni venute al mondo dopo il 1981, una diminuzione che giunge fino a 31 punti percentuali. “Il calo più netto in tutti gli aspetti del rapporto con la religione – sottolinea l’inchiesta – riguarda proprio i giovanissimi. Sembra veramente di osservare un altro mondo”. C’è nei nostri figli – osserva la rivista dei dehoniani – un grado di “analfabetismo religioso molto alto”, sicché è una facile previsione che “quando i figli della generazione degli anni Settanta saranno padri”, il processo di secolarizzazione (nel senso specifico di estraneità alla fede) subirà un’ulteriore accelerazione.

Del resto questa crisi del cattolicesimo non è solo dell’Italia. In un testo del teologo della liberazione José Comblin, che è stato ora pubblicato postumo da Adista, si descrive una crisi che ha una portata universale. In America Latina i contadini poveri, che fino a ieri stavano con la Chiesa, ora vanno con gli evangelici; milioni di adolescenti stanno perdendo la fede; i giovani, compresi i nuovi sacerdoti, non sanno cosa fu il Concilio, che non riveste per loro nessun interesse.

In questa situazione ha poco senso chiedersi se viviamo in una società cristiana, e ancor meno se cristiane siano le sue radici; più necessario è chiedersi se ancora ci saranno cristiani.

Sulla qualità cristiana della nostra società è bene del resto che la Chiesa sospenda il giudizio, perché spesso esso è stato sbagliato, come sono state sbagliate le corrispondenti apologie e condanne: è stata ritenuta cristiana “la Santa Romana Repubblica” medioevale (soprattutto grazie a Costantino) e forse era una fama usurpata, è stata dannata come non cristiana la società dell’illuminismo e delle libertà moderne, e forse cristiana cominciava ad esserlo, sicché anche oggi è bene astenersi da giudizi sommari e scomuniche. Certo  molto cristiana non deve essere una società che al potere non ha più nemmeno Cesare, ma il Denaro il quale, se ha le chiavi del regno, è proprio l’Antagonista del regno di Dio; il denaro ci può stare nel regno, ma come colui che serve, per esempio per pagare la giusta mercede, non come quello che governa, perché allora è Mammona. E tanto meno è cristiana una società che butta a mare gli stranieri e fa loro pagare la tassa sulla povertà. Però può anche darsi che avesse ragione papa Giovanni quando vedeva sorgere un “nuovo ordine di rapporti umani”, anche se a nostra insaputa e al di là delle nostre stesse aspettative.

Più vitale è piuttosto la domanda se ancora ci saranno discepoli del Regno, e come potranno esserlo, e come potranno portare essi stessi un annuncio di fede. Questo dovrebbe essere l’assillo e la passione delle Chiese, se non vogliono ridursi a reperti sociologici e finire nell’irrilevanza.

E allora, che fare? Senza ipotizzare difficili e mirabili riforme, ci sono molte cose nuove che si possono fare a dottrina vigente e a legislazione ecclesiastica vigente, per offrire nuove strade alla fede e nuova linfa alla Chiesa. E non c’è nemmeno da inventare niente: è già tutto scritto nei testi del Concilio. Cinquant’anni dovrebbero ormai bastare alla loro quarantena, quindi possono essere risvegliati dall’anestesia. Si può, alfine, liberare il Concilio.

 

La fede, ma come?

“Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà fede sulla terra?”, è la domanda posta da Gesù agli apostoli. A giudicare dalla scarsa o nulla attenzione che dagli uomini e dai governanti di oggi viene prestata alla salvaguardia del creato, la cosa potrebbe non essere troppo lontana, ed è per non far trovare brutte sorprese al Veniente che la Chiesa cattolica ha indetto un “anno della fede” in coincidenza con i cinquant’anni dal Concilio.

In effetti la fede e le Chiese attraversano una crisi di cui si parla poco perché non se ne occupano le agenzie di rating, ma non è meno grave di quella che, sotto altri profili, imperversa in tutta la società;  e soprattutto, come abbiamo detto, investe i giovani.

Perciò viene bene il richiamo al Concilio, per una rinnovata e straordinaria azione pastorale. Ma nell’indicare come fare, il cardinale Levada, prefetto della “Congregazione per la dottrina della fede”, mette avanti due risorse: una appunto, come di rito, è il Concilio, l’altra è il “Catechismo della Chiesa cattolica” e addirittura il suo “Compendio”, nel presupposto che siano la stessa cosa, l’una speculare e traduzione dell’altra. Senonché se i contenuti sono gli stessi (e tuttavia non coincidenti, perché non tutte le enunciazioni di una fonte si trovano nell’altra), le metodologie di trasmissione della fede sono profondamente diverse: una è una metodologia narrativa, una “storia” di salvezza, storia che viene dall’inizio dei tempi e continua tuttora, l’altra è una metodologia deduttiva, dottrinale, didattica. Giovanni XXIII convocò il Concilio perché capì in anticipo che con quest’ultima metodologia la fede non sarebbe stata più trasmissibile nel mondo moderno, occorreva un nuovo linguaggio; e mentre tutte le altre “narrazioni” mondane sfiorivano e cadevano dai cuori, il Concilio ripropose la narrazione cristiana con una forza di novità e di persuasione che lasciò tutto il mondo a bocca aperta. Rimettere ora in serie Concilio e Catechismo, perché ognuno scelga come crede, è come rimettere in serie la Messa in latino di san Pio V e la Messa decrittata della liturgia postconciliare, perché ognuno scelga quella che gli aggrada; ma in tal modo la guida pastorale si perde, e il Concilio è come se non ci fosse stato. Se invece si fa appello al Concilio per ridare corso alla fede, occorre riprendere quella grande narrazione; e se si comincia davvero a narrare la fede del Concilio (che è cosa diversa dalle riforme abbozzate dal Concilio), non basta nemmeno un anno per esaurirne le grandezze.

Inoltre, a interrogare il Concilio, si scoprirebbe che la Chiesa non è quella che appare nei giornali, ma è essenzialmente eucaristia, è coestensiva all’eucaristia; non che non ci sia altro al di là di questa, ma il Concilio dice che la liturgia è la fonte e il culmine di tutto ciò che la Chiesa fa prima e di tutto ciò che attua dopo la celebrazione del mistero pasquale.  Dunque senza eucaristia non c’è Chiesa e la fede non vive.

Eppure in crescente misura le eucaristie non si possono celebrare perché non ci sono preti, e saranno sempre meno i preti celibatari che realizzino il modello sublime di prete riproposto anche dal Concilio. Né è possibile pensare oggi a un sacerdozio sposato nella Chiesa latina; la questione è chiusa, hanno risposto i vescovi ai cristiani di base, come quelli austriaci, che lo chiedevano; e un gesuita francese, Joseph Moingt, ha riferito di un papa, precedente a quello regnante, che avrebbe detto: “So bene che dopo di me bisognerà ordinare degli uomini sposati, ma finché io vivrò manterrò la consegna”: e ci sarà sempre un papa a Roma che “manterrà la consegna”. D’altronde preti esemplari, fedeli al carisma del celibato, di grande statura, saranno sempre necessari alla Chiesa soprattutto per il ministero della riconciliazione, oggi caduto in disuso; ed è bene che non venga meno la confessione perché, come diceva Lutero, è importante che ci sia un’altra persona che annuncia al peccatore il perdono di Dio, come un fatto oggettivo, contro i ripiegamenti soggettivistici nel senso di colpa del “cuore incurvato in se stesso”.

Per quanto però riguarda l’eucaristia sguarnita di preti, si potrebbe pensare a una diversa ripartizione di compiti tra i ministri ordinati dal vescovo, sacerdoti e diaconi. Come negli “Atti” gli apostoli decisero di dedicarsi soprattutto alla predicazione e alla preghiera, attribuendo ai diaconi il “servizio delle mense” (che nelle prime comunità non erano distinte dalla cena eucaristica), così potrebbero oggi i diaconi moltiplicarsi per provvedere al “servizio delle mense” dell’eucaristia, in nome e per mandato del vescovo.

Il Concilio ha ripristinato il diaconato permanente, ammettendo diaconi sposati, ma non ha ammesso che i diaconi si sposino. A legislazione e disciplina vigente si potrebbero perciò ordinare diaconi sia uomini sposati, sia uomini che non intendano sposarsi, sia uomini che vogliano abbracciare ambedue le vocazioni: basta che si preparino ad ambedue e celebrino il matrimonio prima dell’ordinazione. E attraverso i diaconi, sposati e no, si potrebbe stabilire un nuovo dinamismo ecclesiale, e una circolarità tra laicato e clero, tra vita religiosa e vita comune, tra famiglie e comunità; e l’eucaristia potrebbe avere dovunque i suoi ministri, la Chiesa esistere e la fede essere annunziata.