II cattolicesimo democratico nella politica italiana

Seminario estivo Passo della Mendola 2005

Passo della Mendola 2005

Francesco Garofani

Quando dopo il referendum, commentando quel risultato per molti aspetti imprevisto e imprevedibile (almeno nei numeri) ebbi modo di scrivere che era ingiusto parlare della mobilitazione del mondo cattolico associato esclusivamente come il frutto della strategia delle gerarchie, un amico politico mi disse: attento, quello non è cattolicesimo democratico.

Mi colpì quella osservazione. Per l'autorevolezza della persona da cui veniva, egli stesso, la sua storia tutta dentro il cattolicesimo democratico, ma anche perché mi venne spontaneo chiedermi che cosa fosse accaduto dentro il nostro mondo, se ad un tratto avevamo di fronte il problema di riconoscerci. Perché i bersagli di quella diffidenza - per molti aspetti anche fondata - non erano soltanto esponenti di quell’integralismo di matrice neoclericale che sono sempre stati estranei al cattolicesimo democratico; il giudizio comprendeva anche la condotta di esponenti di associazioni tradizionalmente più vicine alla nostra cultura. E allora?

Facciamo un passo indietro. Torniamo a quel processo per alcuni aspetti carsico che ha attraversato negli ultimi anni il mondo cattolico nelle sue complesse articolazioni associative. E'innegabile che molte cose siano cambiate, visibilmente nell'ultimo anno, in quel mondo.

Pensiamo al Meeting di Rimini dell'anno scorso, con lo "storico" abbraccio tra i vertici di CI e quelli dell'Azione cattolica (ricambiato subito dopo in occasione del grande pellegrinaggio di Loreto dell'Ac) che sancì pubblicamente un momento di svolta all'interno del mondo ecclesiale: il segno che si apriva una fase nuova, con il superamento di vecchie divisioni, antiche diffidenze e lacerazioni. Una unità ritrovata, che non ha riguardato solo i due "ex nemici", Azione cattolica e CI. Ma che ha visto coinvolte sostanzialmente tutte le sigle più importanti dell'associazionismo cattolico. Una unità consolidata, poi, come abbiamo visto, dalla prova referendaria sulla legge 40.

Chi conosce il mondo cattolico dal di dentro ha invitato a guardare più in profondità questo processo di ricomposizione. Commentando ciò che avvenne al Meeting dello scorso anno, Andrea Riccardi retrodatava almeno al 1998 (con l'incontro voluto da Giovanni Paolo II alla vigilia della Pentecoste) l'inizio del "disgelo" tra movimenti e associazioni che sino ad allora si erano divisi tra "presenza" e "mediazione". "Si tratta - scriveva Riccardi su Avvenire di un anno fa - di un percorso di progressiva maturità, in cui nessuno ha titoli messianici, ma tutti si riconoscono elementi e carismi di un unico popolo". Insomma, un'unità ritrovata, che sul piano ecclesiale non può e non deve avere né vinti né vincitori.

Ma che forse può avere dei rischi: quelli derivanti da una lettura distorta. Dall'interno e dall'esterno. Prendiamo come banco di prova ancora il referendum sulla legge 40. Tra i rischi che il mondo cattolico della ritrovata unità può correre c'è quello di sopravalutare il pur clamoroso risultato referendario. Illudersi che si sia trattato di una "rivincita" del '74 (divorzio) o dell'81 (aborto). Convincersi di essere sulla soglia di una "era cristiana", di vivere in una realtà diversa da quella che è, magari costruendovi sopra poco credibili disegni politici. Ad esempio l'intramontabile ipotesi neocentrista, dura a morire nell'ostinazione dei nostalgici avversari del bipolarismo.

D'altra parte è vero che la nuova stagione del cattolicesimo italiano ha molto a che fare con i processi che hanno sconvolto il quadro politico: chiedersi in che misura il movimento riaggregativo a livello ecclesiale sia da porre in relazione con la fine dell'unità politica dei cattolici non è fuori luogo. Qualcuno potrebbe anzi dire che ciò che si è perduto in politica lo si è guadagnato nel pre-politico: ad esempio nel sociale, dove non si era mai registrata tanta sintonia tra le sigle che compongono l'arcipelago cattolico, come negli ultimi anni. Basti pensare all'esperienza di Retinopera. Si è fatta largo la consapevolezza che per contare nella vita pubblica, una volta tramontata l'esperienza del partito d'ispirazione cristiana, sia in qualche modo indispensabile superare il rischio della frammentazione ponendo con una voce il più possibile unitaria le istanze che nascono all'interno del proprio mondo. E però dobbiamo riconoscere - e qui stanno le ragioni più vere della diffidenza di quel mio amico (che in questo non è solo) - che questo guadagno contiene a sua volta un rischio: ritenere di poter essere autosufficienti. Credere di potere autorappresentarsi, di poter vivere ad una sola dimensione. Rifugiarsi nel "sociale" privilegiando e rivendicando la propria  autonomia rispetto alla politica e ai partiti, stabilendo con questa (e con questi) un rapporto esclusivamente contrattualistico. Intervenire nella vita pubblica soltanto quando sono tirati in ballo i propri interessi: sempre più circoscritti, per non "consumare" il credito che viene garantito alla più forte delle minoranze. Un credito esigibile solo e in quanto la minoranza resti unita e compatta.

Questo rischio è concreto. Ne abbiamo ragionato proprio qui tra noi, anche un anno fa. E parlando ancora del referendum sulla procreazione assistita, possiamo anche riconoscere - come ha fatto Pietro Scoppola proprio in occasione di un'assemblea di Agire politicamente - il disagio profondo di chi rifiutando lo strumento referendario giudicandolo inadeguato a dirimere simili quesiti, non può tacere un altro disagio, ugualmente intenso: quello scaturito di fronte ad una legge che per alcuni aspetti è parsa essere il frutto non di scelte convinte e consapevoli del legislatore, ma di un patto neogentiloniano tra la destra di governo e la gerarchia. Un patto, peraltro, tradito, da destra, da chi in parlamento ha votato in un modo (a favore della legge) e nella campagna referendaria ha assunto posizioni opposte. Segno della fragilità culturale e politica di una simile impostazione.

E tuttavia quei rischi di cui abbiamo parlato non chiudono il discorso. Non legittimano, a mio avviso, giudizi sommari o generalizzati sulla scelta astensionista della stragrande parte del mondo cattolico. E, comunque, resta intatta l'esigenza di guardare più in profondità di quanto non abbiamo fatto sinora dentro i processi che sono andati maturando nella nostra comunità, considerando oltre ai rischi che abbiamo sommariamente esposto, anche le opportunità e le novità.

Proviamo ad allargare l'orizzonte nel quale collocare questo processo di riaggregazione che ha caratterizzato il mondo delle associazioni e dei movimenti cattolici. Questa nuova esigenza di compattezza, di sentirsi uniti. Frutto della fine dell'unità politica, si è detto. Ma allora? Allora in questa esigenza, insieme ad una ragione "difensiva", non c'è in fondo anche un giudizio politico? L'istinto che nasce dalla volontà di non rassegnarsi ad una irrilevanza? O comunque un disagio verso la politica, che, appunto, può diventare una sorta di autoreferenzialità. La tentazione di "mettersi in proprio".

Se così fosse, non sarebbe giusto interrogarsi anche sull'altro corno del problema? E cioè su come il "mondo della politica" si pone di fronte alle istanze del mondo cattolico organizzato. Sulla capacità di rappresentarlo, di dare risposte, di raccogliere l'esigenza che interessi (perché no) e valori abbiano incidenza nella vita pubblica. Anche questo è un problema legato al tempo di quella che qualcuno racconta come la diaspora dei cattolici al tempo del bipolarismo. Forse costoro esagerano: forse basterebbe parlare più semplicemente di una crisi della politica che riguarda tutti. Non solo i cattolici. Una crisi che trasversale, fatta di mancanza di risposte, ma prima ancora di speranze. Di idealità. Di valori. Di etica. Di capacità progettuale. Di una politica che non sa né scegliere né mediare e alla fine rischia di diventare inutile. O al massimo terreno di conquista da parte di lobbies più o meno potenti. Un sistema politico ridotto così può essere usato. Oppure semplicemente abbandonato a se stesso. Alla sua debolezza. E' quello che è avvenuto o che sta avvenendo. Anche nella dialettica tra il cattolicesimo italiano e istituzioni politiche. In mezzo, tra i due poli di questa dialettica, c'è quello che può somigliare ad un'area desertica, la cui dimensione rischia di dilatarsi, segnando due solitudine e un'incomunicabilità che porta a quella incapacità, a quella fatica (se vogliamo essere meno pessimisti) di riconoscersi reciprocamente: i cattolici della realtà ecclesiale e quelli che ancora si spendono (e sono pochi e isolati) nella trincea della politica "professionalmente". Con una novità che può modificare ulteriormente questo quadro. A fronte di un sistema politico in crisi, si registra una nuova vitalità del cattolicesimo. Non solo di quello italiano. Parliamo ancora del referendum come di un momento simbolico. Troppo riduttivo, troppo superficiale parlare di "truppe del cardinale". Possiamo dire invece che dal mondo cattolico organizzato (sia dalla grande maggioranza che ha scelto l'astensione, ma anche da chi ha scelto di andare a votare) sono emerse ragioni ed argomentazioni in larghissima misura lontane dai toni dell'integralismo o del "bigottismo". Ragioni laiche, seppure sostenute da credenti. Che possono essere sintetizzate così: c'è un limite che l'uomo deve porsi se non vuole tradire non un Dio, ma la sua stessa umanità. E c'è una visione della vita che rifiuta la logica darwiniana della prevalenza del più forte sul più debole, dell'interesse adulto rispetto all'interesse di chi deve nascere. Forse sul piano giuridico i diritti si possono anche pesare, per stabilire quale conta di più. Ma resta il problema di chi si fa carico del diritto "minore". E mi chiedo: non sarebbe questa, soprattutto questa, una "battaglia" culturale, prima ancora che politica, di sinistra? E perché invece la sinistra, o la gran parte di essa, ha assunto su questa materia posizioni ideologiche, antiche, ereditate da stagioni segnate da un radicalismo che allora serviva ad affermare diritti nuovi e non riconosciuti, ma oggi serve solo a negarne di nuovi?

Anche in questo caso il referendum ha scoperto molte carte. Dal fronte "laico" si sono alzate voci allarmate sull'"Italia del cardinale e delle sue truppe". Come se quel voto fosse stato una sorta di regolamento dei conti tra guelfi e ghibellini. Stefano Rodotà ha scritto sulla Repubblica che quel referendum ha "aperto una nuova fase, che può essere fronteggiata solo se si ha consapevolezza della sua portata", dove il pericolo sarebbe rappresentato dal "ruolo civile della Chiesa", (altre reazioni di sinistra indicative)

Rifiutare il referendum attraverso l'astensione ha avuto per molti cattolici anche questo significato politico: dare un messaggio esplicito a chi quel referendum aveva a tutti i costi voluto. E insieme fare emergere un cultura che nel centrosinistra deve trovare diritto di cittadinanza, se non vogliamo regalare allo schieramento dei conservatori (che ne farebbe un uso improprio, facendosi strumentalizzare dagli atei devoti) il consenso e le convinzioni dei cattolici italiani. Perché questo rischio esiste, come avvertiva Pietro Scoppola, e dobbiamo fare attenzione a che non si divarichi ancora la forbice tra il sentire religioso del popolo cristiano e chi quel sentimento deve tradurre in scelte politiche. Parliamo dei temi che con una brutta terminologia vengono definiti eticamente sensibili. Ma non solo: possiamo allargare l'orizzonte alla famiglia, alle politiche sociali, al rapporto pubblico-privato.

Ecco un altro dato su cui riflettere: il sentimento religioso. Siamo di fronte alla nascita (o rinascita) di una nuova spiritualità? Io penso che vi siano segni che sia così. Segni che riguardano la realtà universale della nostra chiesa. La sua dimensione mai come in questo tempo davvero globale. Segni che travolgono calcoli e tatticismi. Piccole convenienze e diplomazie curiali. E che sommergono e confinano nel ridicolo le strategie simil-clericali dei teo-con all'italiana. Che dall'alto della loro maestosa ignoranza religiosa, si erano illusi (grazie anche alla complicità di qualche autorevole chierico) di poter mettere le mani sulla cattolicità italiana trasformandola, questa volta sì, in una truppa. Dove la vera crociata non è tanto quella in difesa dell'occidente, ma più prosaicamente, quella che dovrebbe salvare dal tracollo la traballante corte berlusconiana.

No, il cristianesimo di questo inizio di millennio non intende ridursi ad essere stampella del potere. Di nessun potere. Se ne è avuta la percezione evidentissima di fronte allo spartiacque decisivo rappresentato dal tema della guerra e della pace, con la straordinaria, spontanea (e sottovalutata) mobilitazione dei cattolici per la pace. Senza riserve e senza calcoli politici. Eppure mai come in questa circostanza con uno straordinario peso politico, se è vero che, come è stato scritto, la chiesa cattolica è stata individuata come una sorta di Onu dei deboli. Come l'ultimo presidio della legalità e del diritto internazionale. E' stato questo l'ultimo seme del complesso e prezioso magistero di Giovanni Paolo II. Un seme che nel disegno provvidenziale della storia comincia a dare frutti.

Appare all'orizzonte una nuova generazione. Ragazze e ragazzi che hanno voglia di credere e testimoniare la radicalità evangelica. La loro diversità rispetto a culture omologanti. La loro fede in un cristianesimo scomodo e controcorrente. Indisponibile a compromessi con il potere. Coerenti rispetto ad un messaggio di salvezza che è per tutti gli uomini, e dunque intrinsecamente universale. Cosa c'è di più lontano dalle logiche di guerra? Cosa c'è di più estraneo alle leggi che regolano i rapporti tra le potenze? Cosa c'è, nel discorso che papa Ratzinger ha fatto ai giovani a Colonia, di più incompatibile con lo scontro di civiltà? Con le nuove crociate? Con i conflitti di religione?

E' penosa l'affannosa e inutile rincorsa di Marcello Pera ad una chiesa indisponibile a farsi trascinare di nuovo in quel temporalismo, in quella tentazione di potere che è proprio l'oggetto, se così si può dire, dell'autocritica dei papi che chiedono perdono (e non da oggi) per gli errori del passato. Come ha scritto bene Ruggero Orfei su Europa, "il fondamentalismo è la pretesa di potere che ha tentato la chiesa per secoli, in contrasto con un mandato secondo cui il Regno non è di questo mondo. Qualunque pretesa di trascinare ancora la chiesa su questo terreno di dominio spirituale e temporale è in qualche modo vietata dallo stesso magistero della chiesa. Ogni pretesa di piegare la fede religiosa e le strutture terrene in cui si manifesta e si articola storicamente, ormai ha qualcosa di ereticale, se la parola non fosse un po' antipatica". E riflette Orfei: "la struttura di dialogo che la chiesa di oggi propone è fondata non solo sulla verità, ma anche sulla dignità e sul riconoscimento dei ruoli talora coincidenti e talora alternativi tra due realtà che restano distinte non solo nella dimensione chiesa/stato, ma anche in quella spirituale/temporale".

Il discorso del papa ai giovani di Colonia è stato emblematico. Quando Benedetto XVI ha detto che "Solo dai santi, solo da Dio viene la vera rivoluzione, il cambiamento decisivo del mondo" ha usato parole che segnalano senza possibilità di equivoco l'irriducibilità del messaggio evangelico a logiche meramente storiche. "Nel secolo appena passato - ha ricordato il papa -abbiamo vissuto le rivoluzioni, il cui programma comune era di non attendere più l'intervento di Dio, ma di prendere totalmente nelle proprie mani il destino del mondo. E abbiamo visto come un punto di vista umano e parziale veniva preso come misura assoluta d'orientamento". "L'assolutizzazione di ciò che non è assoluto ma relativo - ha detto Ratzinger - si chiama totalitarismo. Non libera l'uomo, ma gli toglie la sua dignità e lo schiavizza. Non sono le ideologie che salvano il mondo, ma soltanto il volgersi al Dio vivente, che è il nostro creatore, il garante della nostra libertà, il garante di ciò che è veramente buono e vero. La rivoluzione vera consiste unicamente nel volgersi senza riserve a Dio che è la misura di ciò che è giusto e allo stesso tempo è l'amore eterno. E che cosa mai potrebbe salvarci se non l'amore?"

C'è un'immagine che papa Ratzinger ha usato, proponendola ai giovani cattolici della Gmg: quella dei Magi. "Anche se qualcuno li riteneva forse utopisti e sognatori, i Magi, assicura il teologo ,"erano persone con i piedi sulla terra, e sapevano che per cambiare il mondo bisogna disporre del potere. Ma poi dovettero cambiare idea ed entrare in un umile capanna anziché in un palazzo reale".

Il realismo sconfitto, o sopravanzato, dall'utopia cristiana. Questo messaggio così forte, così controcorrente fa presa sul mondo giovanile proprio per la radicale alternativa che propone. Fa presa tanto più rispetto al deserto ideale seguito al crollo della grandi ideologie. E, perché non riconoscerlo, ancora di più di fronte al fallimento della politica, che ai ragazzi di oggi, ma non soltanto a loro, appare inadeguata, incapace di garantire libertà, giustizia, uguaglianza. Pace.

Ma se l'unica risposta è nella fede in Cristo, non c'è il rischio di una "deriva spiritualistica"? Di una rassegnazione alla sconfitta nella storia? Ad una sostanziale indifferenza rispetto a questo tempo, perché si fa incolmabile la distanza tra Cielo e Terra? Fino a poter far ritenere, ad esempio, che sia secondario anche il tema se una politica sia o meno democratica.

Non sono domande infondate. E però se sono questi gli interrogativi che ci interpellano allora non ha senso continuare a esplorare i tenitori di ieri. Quelli in cui spirituale e temporale potevano sovrapporsi, ponendo in questione la laicità delle istituzioni nel rapporto tra stato e chiesa.

Se oggi lo scenario è diverso, anche il tema della laicità va ripensato. E va ripensato in una dimensione nella quale, assieme alla libertà della chiesa cresce quella della politica. E dunque la responsabilità che in essa esercitano i fedeli laici nel far sì che l'ispirazione cristiana non perda di significato. Non a caso le migliore intelligenze del mondo cattolico e di quello laico hanno aperto su questi temi un dibattito per molti aspetti originale. A cominciare dal concetto stesso di laicità: cosa vuoi dire oggi, in uno scenario globalizzato, nel quale molti problemi sono inediti. Basti pensare a quelli in parte già ricordati, posti dagli sviluppi della tecnologia e della scienza. Alle domande di limite che un nuovo umanesimo sembra porre ad un potere che anche quando mostra tutta la sua forza appare inadeguato a rispondere alle paure e alle angosce delle persone, in un tempo segnato dal terrore, dalla violenza e dal conflitto. Temi veri, profondi, difficili. Che impongono un confronto di alto livello, davvero "laico", nel senso della capacità reciproca di riconoscere le ragioni dell'altro. Di costruire la convivenza possibile. Credo che occorra ripartire da qui. Riflettendo su cosa significhi oggi, prima di tutto rispetto alle novità che si scorgono dietro e dentro la pluralità e le contraddizioni del complesso arcipelago cattolico, essere e definirsi in quella comunità di fede, cattolici democratici. Credere ancora alla mediazione come modo di vivere qui e ora il nostro incontro con gli altri nella storia. In una recente intervista Mino Martinazzoli diceva di ritenere che "per i cattolici questo non sia il tempo della politica. Tutte le fiammelle accese - aggiungeva - si consumano senza lasciare significato nella politica e ciò che si misura nella dimensione propriamente politicante non è all'altezza". Forse è davvero così. E tuttavia, se il messaggio che viene da questa nuova stagione del cristianesimo è quello della speranza, perché non cercare insieme strade nuove per ridare senso e rilevanza al nostro impegno?


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