Coronavirus e immigrati

Pier Giorgio Maiardi

12 Aprile 2020

In giorni dominati dal coronavirus, in cui pare fuori luogo occuparsi di altre cose, oso riportare l’attenzione su un tema  che riguarda il grado della nostra sensibilità umana, della nostra capacità di convivere con i nostri simili con attenzione e rispetto reciproci. Mi riferisco al problema degli immigrati: questa volta non possiamo imputare loro di averci portato il virus, semmai dovremmo scusarci con loro per il pericolo di infezione in cui li abbiamo coinvolti! Il virus è stato importato dalla Cina, probabilmente tramite uomini di affari e turisti, espressione del nostro mondo capitalista! Avevamo individuato negli immigrati il nemico numero uno da cui il nostro Paese doveva guardarsi e quindi difendersi  e su questo qualche politico aveva tentato di costruire la propria fortuna. Stesso squallido e cinico tentativo che gli stessi politici stanno attuando ora sui problemi creati dal nuovo nemico, questo vero, del coronavirus.  E oggi scopriamo quei valori di solidarietà, di cura del prossimo, che avevamo forse un po’ dimenticato. 

Ho avuto la ventura, a causa di un grave problema fisico che mi ha improvvisamente tolto la possibilità di gestirmi autonomamente, di dovermi avvalere di un indispensabile aiuto che ho trovato in immigrati africani. Per me, già condizionato dallo schema standard di  immigrati di colore che scelgono autonomamente di venire in Italia e in Europa  per migliorare la loro povera condizione di vita, è stata una sorpresa scoprire che ognuno di quegli immigrati ha una storia che non si può ridurre a quello schema,  si tratta di storie tristi, che non portano sempre ad una scelta autonoma di salire su un barcone per tentare l’avventura di una difficile traversata e che non permettono quindi  che quegli immigrati vengano considerati come scomodissimi intrusi che ci portano in tutti i casi danno  e da cui quindi dobbiamo difenderci, dei nemici per noi! Io ho avuto rapporto con due immigrati, entrambi provenienti dalla Costa d’Avorio che si sono conosciuti casualmente in Italia e qui sono  divenuti  amici,  Il primo, che chiamerò AT, si era limitato a dirmi che abitava in una città dove era riuscito ad aprire un’officina,  che aveva perso tutto a motivo di disordini interni al suo paese, “cose brutte”  il riassunto sintetico. Poi l’avventura del lungo viaggio in cui si intuiva il soggiorno in Libia da clandestino, il lavoro di fortuna e  la prigione , quindi il barcone come unica via di fuga da quel paese,  ma il tutto riassunto ancora in “cosa brutta” di cui non voleva fare parola. Dal secondo, che chiameremo LD, invece un racconto dettagliato con la premessa che questo avveniva solo con me perché lo avevo accolto in una famiglia e lo aiutavo, con la preghiera di non farne parola ad altri. Un racconto taciuto anche nel rapporto  con gli  altri immigrati, pur se amici, che fa pensare al perché del  silenzio dei reduci dai campi di sterminio, cosa troppo brutta, di cui non si va fieri, da dimenticare! Un racconto, quello di LD,  fatto di ricatti e di violenze, di cessazione obbligata di un’attività artigianale  qualificata e ben avviata, una sartoria, di fuga da minaccia di morte per il rifiuto di indossare la divisa militare e imbracciare un fucile. A noi risulta difficile capire che in quel paese, pur essendoci un regime democratico con un presidente eletto, la lotta politica non avviene con il dialogo ma con la violenza che non risparmia le armi e il giorno delle elezioni è giorno di intimidazioni e di coprifuoco, di qui la meraviglia di LD per il clima sociale in cui da noi  viene vissuta la competizione elettorale. Una fuga, quella di LD ma si intuisce sia simile quella di AT,  fatta di successive paure: tentativo di rapina violenta in Niger, attraversamento avventuroso del deserto, e arrivo in Libia, qui considerato clandestino e incarcerato. Quindi fuga anche dalla Libia, che vuol dire fuga da un carcere che comporta violenze, a cui qualcuno soccombe, per  ottenere riscatti, compagni che muoiono e nuova fuga favorita probabilmente da carcerieri in accordo con scafisti che offrono come unica via d’uscita il barcone, iniziale rifiuto e poi cedimento in mancanza di alternative, arresto da parte di Guardia Costiera libica, nuova prigione e nuova fuga. Traversata avventurosa, rischio di naufragio e salvamento da parte di nave italiana. Quindi  viaggio e approdo in Italia non per scelta ma per fuga da qualcosa e da qualcuno, situazione inconciliabile con un trattamento da intruso, clandestino in colpa, nemico da respingere e riportare a casa!  La esperienza di “perseguitato” rende difficile ad LD comprendere subito  lo spirito di accoglienza e di aiuto della Cooperativa a cui viene affidato:  crede a Salvini che accusa le organizzazioni umanitarie di sfruttamento degli immigrati per propri interessi! Con il tempo e con lo sviluppo dell’avventura tutto si chiarisce e si prende reale coscienza della situazione, delle prospettive oscure della propria vita, della precarietà della propria condizione: cessato il regime di accoglienza ognuno deve provvedere al proprio alloggio ed al proprio mantenimento, difficoltà a reperire una occupazione affidabile anche a motivo della provvisorietà e precarietà del proprio permesso di soggiorno, impossibilità a reperire autonomamente, per i medesimi motivi, un alloggio. E il distacco dalla propria famiglia, per AT fatta di  moglie e di sei figli, per LD di moglie e due figli, si fa sempre più doloroso mentre gli anni trascorrono e la prospettiva di una vita normale si allontana, il futuro è buio.  Eppure AT e LD, entrambi fedeli  mussulmani, si affidano a Dio, un Dio che provvederà, un Dio che vuole la pace e l’amore del prossimo, lo stesso Dio dei cristiani pur chiamato con nomi diversi. E da Dio viene il dono dell’accoglienza a casa nostra: “ E’ Dio che mi ha mandato da te per aiutarti”.  Quanti AT e LD ci sono fra gli immigrati che girano nelle nostre strade?  Certamente l’Africa è grande ed esiste diversità fra un paese e l’altro, fra i diversi abitanti che vi sono nati e vi vivono,  non ci  è  permesso raccoglierli tutti in un unico giudizio sommario e preconcetto, ignorando che si tratta di persone, ognuno con la sua sensibilità, di madre, di padre e di figlio, con una propria dignità e con una propria storia. La civiltà di cui facciamo vanto esige che ci facciamo attenti e rispettosi nei confronti degli altri, di ogni “altro”. Tanto più lo esige la fede cristiana che richiamiamo orgogliosi quando rivendichiamo le nostre origini o che esibiamo impropriamente per ottenere il consenso dei devoti.

Chissà che il coronavirus non ci renda migliori!