Un uomo della libertà

In memoria del cardinale Martini

da EUROPA

Franco Monaco

1 settembre 2012

Avendo avuto il dono e il privilegio di conoscere il cardinal Martini e di cooperare con lui, la notizia, per quanto attesa, del suo ritorno alla casa del Padre mi prende alla gola. Ci sarà tempo e modo di riflettere sulla sua figura e sulla sua lezione. In queste ore basti una piccola testimonianza personale sull’uomo e sullo stile cui egli improntava le umane relazioni. Anche perché quel tratto umano non è estraneo alla sua opera di biblista e di pastore. In certo modo, ne rappresenta la radice e lo sfondo. Martini aveva un naturale tratto aristocratico. Naturale, ripeto, non ricercato. Anzi, in certo modo, la cosa gli faceva problema, perché poteva accreditare l’idea di un suo freddo distacco da persone e comunità.

Non era così: rispondeva alla sua indole. Forse – azzardo – era il portato delle sue origini sociali e familiari, quelle della borghesia piemontese, e della severa disciplina ignaziana che seguono i gesuiti. Sulle prime egli incuteva una qualche soggezione ai suoi interlocutori, dava immediatamente l’idea di avere a che fare con un uomo di statura davvero straordinaria.

Dunque austero e riservato, con la fama di uomo di ricerca e dedito a studi severi, posto alla guida della diocesi di sant’Ambrogio e di san Carlo, ripeto, poteva sembrare inaccessibile. Ma chi ha avuto la ventura di una più diretta e assidua frequentazione, una volta varcata la soglia e vinta quella prima impressione, ha conosciuto e sperimentato la finezza d’animo, l’umanità di un uomo di Chiesa mai prigioniero del ruolo, delle convenzioni, delle forme. Comprese quelle ecclesiastiche. Un padre sollecito, un fratello maggiore, un signore amabile e accogliente (esordiva sempre interrogandoti sulla tua vita e sulla tua famiglia). Un uomo tra gli uomini, prima e più dell’eminente studioso e pastore di fama mondiale. Non mi sono sorpreso nell’apprendere dall’amico Aldo Maria Valli che lo scarno, significativo titolo (“un uomo”) del suo libro dedicato a Martini gli fosse stato suggerito da Martini stesso.

Una tensione a condividere la condizione comune degli uomini, la sua, che si riscontra un po’ su tutti i fronti della sua personalità e del suo ministero. A cominciare dalla causa cui egli ha dedicato la vita: lo studio, la meditazione, la predicazione della Parola. Tutto il suo magistero e la sua azione pastorale sono riconducibili a un solo fine: educare i cristiani alla familiarità con la Parola e mostrarne a i non credenti la portata e la risonanza universale. Mosso come egli era dal convincimento che la Bibbia sia il grande libro dell’umanità, che essa incrocia le attese e le inquietudini, le speranze e le angosce di ogni uomo in ogni tempo e in ogni sua fibra. Prendendo spunto dalla parabola del seminatore, Martini spiegava che il seme della Parola è nativamente orientato a fecondare il terreno rappresentato dalla nostra umanità, la quale a sua volta intimamente anela alla Parola. Si spiega così l’eco singolarmente vasta, davvero universale, del magistero di Martini – forse l’uomo di Chiesa del nostro tempo che ha goduto di più largo ascolto, varcando confini geografici, culturali e religiosi – e della quale abbiamo testimonianza in queste ore.

L’umanità condivisa senza riserve da Martini si rinviene pure nella sua interpretazione di un cristianesimo amico dell’intelligenza e della libertà: in assenza di una coscienza libera, asseriva, non si dà cristianesimo, il quale nasce e si sviluppa solo nella libertà. Di qui ancora la sua visione di una Chiesa povera, libera, sciolta (aggettivo ricorrente e inusuale a proposito della Chiesa), immune da ogni tentazione di potere e da propositi di costrizione. Una Chiesa cui egli additava il modello della originaria comunità apostolica, priva di un sovraccarico istituzionale che ne appesantisce il passo e ne appanna la testimonianza. Una Chiesa tutta concentrata nella proclamazione di una parola profetica, che illumina e giudica le parole dell’uomo, comprese le parole della politica, ma non si confonde mai con esse. Una Chiesa che accompagna con fiducia la ricerca dell’uomo, che apprezza il portato della scienza e della cultura moderna, anche in quei territori di confine che pongono interrogativi di natura etica. Una Chiesa infine che non si sottrae al dovere di riformare se stessa e di correggere, se del caso, talune sue posizioni tradizionali.

Chi si applicherà alla biografia di Martini si concentrerà sul suo contributo di studioso e di pastore offerto nella stagione della sua vita attiva. Ma non potrà ignorare l’ultimo tempo della sua vita, quello che è coinciso con la sua implacabile malattia. Compreso l’estremo scampolo di essa, segnato dal dramma forse per lui più doloroso: quello della privazione della parola, cioè della ragione stessa della sua esistenza. Anche allora, tuttavia, non ci ha fatto mancare la sua parola affidata agli scritti. Come se sentisse l’esigenza di consegnarci una ultima lezione. Quella di porre, all’attenzione della sua amata Chiesa, questioni delicate e controverse troppo a lungo esorcizzate. E di farlo con la libertà di giudizio che si conviene a chi è posto a fronte del giudizio finale. Quando non si può più tergiversare, quando si è soli davanti a Dio e al dovere della spietata onestà intellettuale prescritta dalla propria coscienza.

Quando si devono abbandonare anche le pur ragionevoli cautele dettate da senso di responsabilità e da umana prudenza. È l’ultima ma non la meno preziosa delle lezioni che ci lascia un uomo di Chiesa come ne abbiamo conosciuti pochi, che ha voluto essere uomo tra gli uomini. Perché in questo umile accondiscendere sta la vera grandezza. Ci mancherà, ma chi ha fede nella comunione dei santi può confidare che misteriosamente continuerà ad accompagnarci.

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