Un Paese bisognoso di riconciliarsi

Cardinale Angelo Bagnasco

presidente della Conferenza episcopale italiana

Testo integrale della prolu­sione pronunciata il 22 Marzo 2010 dal cardinale Angelo Bagnasco presidente della Cei in apertura dei lavori del Consiglio episcopale permanente.

Venerati e cari confratelli, «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconci­liare con Dio» (2Cor 5, 20): insieme al­le nostre comunità, ci siamo messi in cam­mino nella direzione indicata da queste pa­role per vivere come grazia il tempo forte del­la Quaresima, puntando alla Pasqua, cuore della nostra fede. Noi stessi, padri del Consi­glio permanente, conveniamo in questa ses­sione primaverile per rispondere in termini anche personali all’invito dell’apostolo Pao­lo. Il nostro ministero, al pari del lavoro che ci attende in questi giorni, vuol essere solca­to dalla consapevolezza di una conversione necessaria e irrevocabile. Ci interrogheremo infatti sul già fatto e sul non ancora compiu­to, e sulle condizioni del tempo in cui ope­riamo, dando così forma al «necessario di­scernimento, anche severo, del realismo so­brio e dell’apertura a nuovi carismi» (Bene­detto XVI, all’udienza del mercoledì, 10 mar­zo 2010), ossia all’ispirazione divina che dal Risorto è stata garantita alla Chiesa, per cui il governare, da parte dei pastori, è anzitutto e «soprattutto pensare e pregare» ( ib)  

Fede caso serio: Dio non ci ama per caso

1. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» ( 2Cor 5,20): non c’è nulla di abitudinario né di ciclicamente scontato nella riproposta del tempo quare­simale. Non c’è anzitutto un nostro agitarci, ma c’è piuttosto l’iniziativa di Dio, c’è una misteriosa e gratuita «precedenza divina»: a noi rimane il compito di lasciarci raggiun­gere, di arrenderci all’amore e alla sua chia­mata. Solo Dio infatti può attirarci, mentre a noi sta la responsabilità della risposta. Ec­co la fede, che è il vero caso serio della vita: qui mettiamo a repentaglio noi stessi, lo spessore della nostra vita attuale, la beatitu­dine di quella futura (cfr Benedetto XVI, all’udienza del mercoledì, 17 febbraio 2010). Dio non ci ama per gioco, e il nostro corrispondergli non può essere affidato alla saltuarietà e ad uno spontaneismo vago quanto ingenuo. È piuttosto un lasciarci portare a livello di Dio, ed è evento ontolo­gico che riguarda l’essere, cioè il fatto «che siamo uniti con Lui, che ci ha dato in anti­cipo se stesso, ci ha dato il suo amore» (Be­nedetto XVI, Lectio divina con i seminaristi del Seminario romano maggiore, 12 feb­braio 2010). È, dunque, un restare al livello che Lui ci è ha guadagnato. Non basta retti­ficare un accidente, è tutta l’esistenza che va messa in asse con la chiamata: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» ( 2Cor 5,21). E il Papa commenta: grazie al­l’azione di Cristo, «noi possiamo entrare nella giustizia 'più grande', quella dell’a­more, la giustizia di chi si sente in ogni caso sempre più debitore che creditore, perché ha ricevuto più di quanto si possa aspetta- re» ( Messaggio per la Quaresima 2010). A quel punto, l’agire consegue all’essere, «co­me una realtà organica, perché ciò che sia­mo, possiamo anche esserlo nella nostra at­tività » ( Lectio divina cit.). Dunque ? al di là del formalismo o del moralismo ? non si tratta di consegnarci «ad una volontà tiran­nica » che sta fuori del nostro essere, o ad u­na legge estranea a noi stessi e che ci re­sterà esteriore. Dobbiamo piuttosto agire sul perno della nostra identità, dando rea­lizzazione al «dono del nuovo essere» ( ib).

L’etica evangelica è essere fedeli a ciò che Gesù ha fatto per noi e di noi. È il dinami­smo intrinseco e coerente con ciò che sia­mo per grazia. L’alienazione è in agguato quando ci si esclude dalla prospettiva di Dio, «perché in questo modo usciamo dal disegno del nostro essere», usciamo cioè da quella «volontà creatrice», crogiuolo dell’in­candescenza, che porta l’uomo e la sua li­bertà al grado massimo della loro realizza­zione (cfr Benedetto XVI, Lectio divina con i parroci di Roma , 18 febbraio 2010).

Ancora una volta, cari confratelli, noi amia­mo pensarci nell’ambito di quella scuola in cui mistagogo formidabile del nostro tem­po è Benedetto XVI, e non per meramente ripetere ma per assumere emblematica­mente questo magistero e per incastonarlo nel vissuto delle nostre Chiese, persuasi che la testimonianza pontificale oggi offerta, raccolta con ogni premura attorno ad uno speciale carisma della parola, accompa­gnata da una conoscenza singolare dei Pa­dri, e da una sensibilità acuta per i bisogni dell’umanità, sia un provvido segno dei tempi, grazia che prova come il Signore non abbandoni mai il suo popolo e amabil­mente lo guidi per i pascoli del suo amore.

Quanto più, da qualche parte, si tenta inu­tilmente di sfiorare la sua limpida e amabi­le persona, tanto più il popolo di Dio a lui guarda commosso e fiero. Anche per que­sto gli rinnoviamo la nostra vicinanza an­cora più forte e grata, l’affetto profondo e la nostra piena e concreta comunione.

Guardare a Cristo, con dedizione e umiltà

2. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» ( 2Cor 5,20). Ma per «lasciarci riconciliare» occorre, da una par­te, che noi continuiamo ad avere una vera idea di Dio stesso. Quante volte infatti, di­nanzi alle provocazioni del male abissal­mente presenti nella storia e nella vita, si fa r icorso al concetto di kénosis, assegnando magari a questa parola un valore semantico sfuocato ed impreciso, intendendola cioè come ridimensionamento dell’onnipoten­za di un Dio che così farebbe i conti con il principio a Lui contrario, quello del male?

«Ma che povera apologia» di Dio è questa, osserva il Papa. «Come potremmo affidarci a questo Dio? Come potremmo essere sicu­ri nel suo amore […]?». Credere a Dio vuol dire non ignorare il volto del Cristo Croci­fisso: lì «vediamo la vera onnipotenza, non il mito dell’onnipotenza. […]. In Lui la vera onnipotenza è amare fino al punto che Dio può soffrire […] fino al punto di un amore che soffre per noi. E così vediamo che Lui è il vero Dio e il vero Dio, che è amore, è po­tere: il potere dell’amore» ( Lectio divina con i seminaristi, cit.). Ecco perché non ci stan­cheremo mai di sollecitare le nostre comu­nità ad approfittare quanto meno dei mo­menti forti dell’anno, come la Quaresima, per proporre ad adulti e giovani, oltre che ai bambini e ai ragazzi, degli itinerari catechi­stici in grado di far acquisire il senso auten­tico del messaggio cristiano. Dall’altra parte, è necessario che tutta la pastorale si concentri, per così dire si es­senzializzi, in quel «Gesù solo» apparso ai discepoli nel momento della Trasfigurazio­ne. Guai a noi se cessassimo di contempla­re il volto di Gesù, «Vangelo vivente e perso­nale », se pensassimo di saper reggere il la­voro ecclesiale staccando lo sguardo da Lui. Questo vuol dire, ad esempio, che per noi ecclesiastici non ci sono incarichi o ruoli da interpretare come «un privilegio persona­le », o da trasformare in occasioni per «una brillante carriera», quando c’è solo «un ser­vizio da rendere con dedizione e umiltà» (Benedetto XVI, all’udienza generale, 3 feb­braio 2010). Il Papa l’aveva già detto, e di re­cente l’ha ripetuto, che «le cose nella so­cietà civile e, non di rado, nella Chiesa, sof­frono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavora­no per se stessi e non per la comunità» ( ib).

Pedofilia: fare giustizia nella verità

Ma la concentrazione su Cristo vuol dire soprattutto che la trasparenza è un punto d’onore della nostra azione pastorale. Indi­r izzando sabato scorso la sua Lettera ai cat­tolici d’Irlanda , e affrontando con loro a cuore aperto il problema, ovunque doloro­so là dove si verifica, degli abusi sessuali compiuti su minori da ecclesiastici - crimi­ne odioso, ma anche peccato scandalosa­mente grave che tradisce il patto di fiducia iscritto nel rapporto educativo - il Papa ha posto un limite invalicabile alla perniciosa tendenza a cercare scuse in attenuanti e condizionamenti. Egli invece ha affermato con vigore che occorre assumere «una posi­zione più forte per portare avanti il compi­to di riparare alle ingiustizie del passato e per affrontare le tematiche […] secondo modalità conformi alle esigenze della giu­stizia e agli insegnamenti del Vangelo» (n. 1). Senza dubbio la pedofilia è sempre qualcosa di aberrante e, se commessa da u­na persona consacrata, acquista una gra­vità morale ancora maggiore. Per questo, insieme al profondo dolore e ad un insop­primibile senso di vergogna, noi vescovi ci uniamo al pastore universale nell’esprime­re tutto il nostro rammarico e la nostra vici­nanza a chi ha subìto il tradimento di un’infanzia violata. La Lettera papale è inte­ramente pervasa da un accorato spirito di contrizione ed è testimonianza indubitabi­le di una Chiesa che non sta sulla difensiva quando deve assumere su di sé lo «sgo­mento », «il senso di tradimento» e «il ri­morso » per ciò che è stato fatto da alcuni suoi ministri. Benedetto XVI non lascia margini all’incertezza o alle minimizzazio­ni: «rendiamo conto – esorta – delle nostre azioni senza nascondere nulla», «ricono­scete apertamente la vostra colpa, sotto­mettetevi alle esigenze della giustizia», «do­vete rispondere davanti a Dio onnipotente come pure davanti a tribunali debitamente costituiti» (n. 7). E lui, a sua volta, si mette in gioco con la sua autorità: «Vi chiedo con umiltà di riflettere su quanto ho detto» (n. 6). Anche nella bufera, tuttavia, egli è Pietro ed indica la strada, propone a tutti, senza indulgenze, lo scatto in avanti necessario: nonostante l’indegnità, «i peccati, i falli­menti di alcuni membri della Chiesa, parti­colarmente di coloro che furono scelti in modo speciale per guidare e servire i giova­ni », ecco tutto questo è vero, «ma è nella Chiesa che voi troverete Gesù Cristo, che è lo stesso ieri, oggi e sempre» (n. 9). Le diret­tive chiare e incalzanti già da anni impartite dalla Santa Sede confermano tutta la deter­minazione di fare verità fino ai necessari provvedimenti, una volta accertati i fatti. I vescovi italiani prontamente ne hanno pre­so atto e hanno intensificato lo sforzo edu­cativo dei candidati al sacerdozio, il rigore del discernimento, la vigilanza per preveni­re situazioni e fatti non compatibili con la scelta di Dio, una formazione permanente del nostro clero adeguata alle sfide. Siamo riconoscenti alla Congregazione per la dot­trina della fede per l’indirizzo e il sostegno nell’inderogabile compito di fare giustizia nella verità, consapevoli che anche un solo caso in questo ambito è sempre troppo, specie - ripeto - se chi lo compie è un sacer­dote.

Da varie parti, anche non cattoliche, si rile­va come non da ora il fenomeno della pe­dofilia appaia tragicamente diffuso in di­versi ambienti e in varie categorie di perso­ne: ma questo, lungi dall’essere qui evocato per sminuire o relativizzare la specifica gra­vità dei fatti segnalati in ambito ecclesiasti­co, è piuttosto un monito a voler cogliere l’obiettivo spessore della tragedia. Nel mo­mento stesso in cui sente su di sé l’umilia­zione, la Chiesa impara dal Papa a non ave­re paura della verità, anche quando è dolo­rosa e odiosa, a non tacerla o coprirla. Que­sto, però, non significa subire – qualora ci fossero – strategie di discredito generalizza­to. Dobbiamo in realtà tutti interrogarci, senza più alibi, a proposito di una cultura che ai nostri giorni impera incontrastata e vezzeggiata, e che tende progressivamente a sfrangiare il tessuto connettivo dell’intera società, irridendo magari chi resiste e tenta di opporsi: l’atteggiamento cioè di chi colti­va l’assoluta autonomia dai criteri del giu­dizio morale e veicola come buoni e sedu­centi i comportamenti ritagliati anche su voglie individuali e su istinti magari sfrena­ti. Ma l’esasperazione della sessualità sgan­ciata dal suo significato antropologico, l’e­donismo a tutto campo e il relativismo che non ammette né argini né sussulti fanno un gran male perché capziosi e talora inso­spettabilmente pervasivi. Conviene allora che torniamo tutti a chiamare le cose con il loro nome sempre e ovunque, a identificare il male nella sua progressiva gravità e nella molteplicità delle sue manifestazioni, per non trovarci col tempo dinanzi alla pretesa di una aberrazione rivendicata sul piano dei principi.

Attenuare il dolore dei piccoli e dei poveri

Tenendo fisso lo sguardo a Gesù, siamo a­bilitati a riconoscerlo in tutti, in particolare nei piccoli e nei poveri. È, dunque, a partire dal riferimento a Lui, che si concretizza il contributo che, insieme ai confratelli della Comece, intendiamo dare alla campagna approntata per l’Anno europeo della lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Più in generale, in questa circostanza vorremmo osservare che c’è tanta, troppa sofferenza nel mondo, e che attenuare il carico di do­lore prodotto è una missione cui tutti devo­no partecipare, quale che sia la loro compe­tenza. E tuttavia, consapevoli che mai riu­sciremo a cancellare il male dalla nostra condizione umana, ci sia consentito ricor­dare che il dolore, per quanto scandaloso, non è mai del tutto eccedente: in ogni sua goccia infatti è fin d’ora deposto un seme di eternità e di salvezza.

Essere sacerdoti è una risposta d’amore

3. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» ( 2Cor 5,20): vorrei che questa perorazione raggiungesse in parti­colare i nostri cari sacerdoti, e li interpre­tasse nel loro desiderio di autenticità e di rinnovamento della propria testimonianza di vita e di missione. L’Anno Sacerdotale che stiamo celebrando conoscerà, in ogni Chiesa locale, proprio giovedì della prossi­ma settimana – Giovedì Santo – una tappa particolarmente significativa sul fronte del­la coscienza di sé, in rapporto agli altri, alle rispettive comunità, e soprattutto in rap­porto a Gesù Cristo, «il sempre chiamante». In un certo senso, potrà rappresentare il fulcro, ossia il punto di caduta dell’intero Anno Sacerdotale, il momento nel quale meglio cogliere quella «continuità sacerdo­tale » che, partendo da Gesù di Nazareth, si è presto esplicata lungo i secoli nei nostri territori, e fino ad oggi (cfr Benedetto XVI, Discorso al Convegno della Congregazione per il clero, 12 marzo 2010).

Il tema dell’identità sacerdotale resta «de­terminante» per l’esercizio del sacerdozio ministeriale: in un’epoca come la nostra – «policentrica» e «polimorfa» – e perciò stes­so «incline a sfumare ogni concezione iden­titaria » come avversa al sentimento demo­cratico – «è importante avere ben chiara la peculiarità teologica del ministero ordinato» ( ib). Sarebbe bello che l’impegno profuso in questi mesi fosse coinciso, per ciascun con­fratello, con uno scavo attorno alle radici del­la propria vocazione, per riscoprirne la bel­lezza e rinforzare in lui la propria umanità: come diceva di recente il Papa, egli «deve vi­vere una vera umanità, un vero umanesimo; deve avere un’educazione, una formazione umana, delle virtù umane; deve sviluppare la sua intelligenza, la sua volontà, i suoi sen­timenti, i suoi affetti; deve essere realmente uomo, uomo secondo la volontà del Creatore e del Redentore…» ( Lectio divina con i par­roci cit.). Non un disagiato, né uno scom­pensato, benché il clima culturale odierno non faciliti certo la crescita armonica di al­cuno. Il sacerdote è un uomo che – non so­lo nel tempo del Seminario – coltiva la pro­pria umanità nel fuoco dell’amore di Gesù. E in questo orizzonte la nutre, la pota, la o­rienta, diventando a quel punto capace di a­mare in maniera matura la vocazione do­natagli. Ogni sacerdote è consapevole di es­sere stato preso per mano dal suo Signore e chiamato a stare con Lui come amico: per questo è vitale conoscere Dio da vicino, fre­quentarlo, accompagnarsi a Lui cuore a cuo­re. La celebrazione quotidiana della Messa, la preghiera regolare della Liturgia delle O­re e quella dei momenti più intimi e perso­nali, l’adorazione eucaristica, la pratica del sacramento della penitenza, lo studio anche sistematico che permette di penetrare me­glio le sfide del tempo, sono tutti elementi che vanno nell’unica direzione, quella della comunione stabile con Dio in Cristo Gesù (c­fr Benedetto XVI, Discorso al Convegno sul foro interno promosso dalla Penitenzieria a­postolica, 11 marzo 2010). La secolarizza­zione diventa l’ambiente di cui si coglie il portato, ma senza ingenuità o illusioni, per diventare sacerdoti di convinzione, sacer­doti capaci di autonomia pensante, senza lasciarsi sopraffare dall’estensione delle co­se da sapere o da fare perché si punta sulla profondità, sulla sintesi più che sui dettagli, sulle arcate più che sulla decorazione. Un’in­sistente proiezione esterna, una parcelliz­zazione degli impegni, un attivismo esaspe­rato non possono diventare l’ancoraggio del­la vita interiore; questa si nutre anzitutto nel rapporto con Dio, coltivato, preservato, a­mato. C’è un’industriosità del sacerdote che, se dapprima galvanizza e inebria, molto pre­sto svuota e appesantisce. L’apertura al mon­do, ai fatti della vita, alla contemporaneità, non va scambiata con l’ingenua condiscen­denza allo spirito del tempo, quasi dovesse tradursi in un’auspicabile e progressiva au­to- secolarizzazione (cfr Benedetto XVI, Let­tera cit ., n. 4) Allora, l’intorpidimento dell’a­nima apparirà per quello che è, un inaridi­mento scaturito da auto-esenzioni circa i doveri del proprio stato. Essere preti è qual­cosa di più di una semplice decisione mo­rale, affidata ad una pur adeguata condotta di vita; è anzitutto una risposta d’amore ad una dichiarazione d’amore. La missione «non è una cosa aggiunta alla fede, ma è il dinamismo della fede stessa» ( Lectio divina con i seminaristi cit.), e diventerà il nostro modo di essere, di porci fra gli altri, senza finti distacchi, ma anche senza ignorare le differenze. Si diventerà capaci di appassio­namento, di com-passione, per soffrire con gli altri, e caricarsi addosso il patire del nostro tempo, il pa­tire della nostra stes­sa comunità, senza tuttavia lasciarsene sopraffare. Serve per questo non concen­trarsi sui propri li­miti, «ma tenere lo sguardo fisso sul Si­gnore e sulla sua sorprendente mise­ricordia, per convertire il cuore, e continua­re con gioia a lasciare tutto per Lui» (Bene­detto XVI, Saluto all’Angelus , 7 febbraio 2010). Si scoprirà, a quel punto, che «la te­stimonianza suscita vocazioni» come recita il tema scelto per la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni in calendario per il prossimo 25 aprile. C’è una sorta di con­tagio tra chi vive gratuitamente e gioiosa­mente il proprio essere prete e quanti attor­no a lui si interrogano sul proprio destino, sulla propria personale chiamata, fuori dai burocraticismi e dalle mimetizzazioni in­dotte dal clima culturale. Siamo certi che co­me non si è accorciato il braccio di Dio, né affievolita la sua voce, così non ha perso tra­zione nei cuori di oggi il linguaggio del do­no. C’è piuttosto una fascinazione esercita­ta dai testimoni che sarebbe sciocco de­prezzare. L’accorrere sorprendente di tanta gente, in occasione di «ostensioni» – da po­co si è svolta a Padova quella di Sant’Anto­nio, presto sarà la volta della Sindone a To­rino – o per appuntamenti religiosi anche non eccezionali, è un fenomeno da trattare non con sufficienza né con snobismo. Oc­corre invece saperlo attraversare, per inter­pretarne le tracce, raccogliere segnali, puri­ficare linguaggi. In quest’ora delicata, una parola ci sentiamo in dovere di rivolgere a voi, amati sacerdoti che fate il vostro dovere con fede, amore e dignità. Noi Vescovi, insieme al Papa (cfr Let­tera cit . n. 10), onoriamo la vostra dedizione limpida e generosa per il bene autentico del­la gente, a cominciare dai bambini e dai ra­gazzi. Nessun caso tragico può oscurare la bellezza del vostro ministero e del sacerdo­zio che sacramentalmente ci unisce, né met­tere in discussione il sacro celibato che ci scalda il cuore e ispira la vita. Nell’apparte­nenza radicale e fedele a Gesù noi sappia­mo che la nostra umanità si realizza e di­venta feconda nella paternità dello spirito. Non sentitevi mai guardati con diffidenza o abbandonati, e non scoraggiatevi; siate se­reni sapendo che le nostre comunità hanno fiducia in voi e vi affiancano con lo sguardo della fede e le esigenze dell’amore evange­lico.

Investimento educativo: priorità ineludibile

4. Proprio la declinazione educativa del compito sacerdotale ci interessa in questo momento. I lineamenti del nuovo decen­nio che sono in gestazione, e prenderemo in esame nel corso di questo Consiglio permanente in vista dell’approvazione all’ordine del giorno della prossima As­semblea,

«Essere preti è qualcosa di più di una semplice decisione morale, affidata ad una pur adeguata condotta di vita; è anzitutto una risposta d’amore ad una dichiarazione d’amore» ci impongono una sottolineatura che valorizzi la riflessione in atto con l’An­no Sacerdotale. Pensiamo al grande tema dell’apostolo quale padre che rigenera co­lui che vuole credere (cfr 1Ts 2,7.11; Gal 4,19; 2Cor 12,15, Fm 10). E in Rom 6,17- 18 contrappone due condizioni esistenziali, evocando dapprima gli «schiavi del pecca­to », e poi i «servi della giustizia». Il passag­gio da un modo di esistere all’altro è dovu­to ad almeno due fattori: l’insegnamento come viene trasmesso e l’obbedienza compiuta dal cuore. La natura di questa o­perazione è identificata niente meno che con la categoria della liberazione: è un’e­sperienza vissuta dalla libertà e attraverso la libertà. Ebbene, facile è desumere da qui lo spessore che la Parola di Dio attribuisce alla dimensione educativa. Paolo parla di «cuore» che ubbidisce. Cioè non basta che l’insegnamento trasmesso venga assentito razionalmente in quanto ritenuto vero, bi­sogna che si acconsenta ad esso perché va­lutato affettivamente come qualcosa di de­siderabile. Ne discende che la predicazio­ne della Parola di Dio non deve essere solo fedele alla verità, ma anche significativa per la persona. Una proposta su Cristo, che fosse poco significativa per il soggetto, sarebbe molto probabilmente incapace di ottenere l’assenso del cuore. Ecco allora l’educare, delicata operazione affidata non ad un prestigiatore ma a chi per vocazione conosce i segreti dell’animo umano: l’immagine di Dio lì impressa è incan­cellabile. Saperlo, facendovi conto, è la risorsa più im­portante. Non solo: il sacerdote è l’uo­mo della Parola, la quale ha in sé una potenza invincibi­le. Nella misura in cui è immessa nel processo educativo – al catechismo, in oratorio, nella scuola, ai campi estivi, insomma nella comunità cri­stiana – e la si serve per quello che è, senza spadroneggiarla e senza piegarla ai propri gusti, non può non produrre frutto. Allora il sacerdote-educatore saprà di essere co­lui che introduce alla conoscenza della realtà riconosciuta nel suo valore obiettivo, accompagnando nel contempo la persona verso la verità di ciò che è, e verso il suo senso. C’è bisogno che venga più sistema­ticamente esplicitata la dimensione edu­cativa intrinseca alla carità pastorale, così che «una nuova visione» possa «ispirare la generazione presente e quelle future a far tesoro del dono della nostra comune fede» (Benedetto XVI, Lettera cit ., n. 12). Mai l’in­vestimento educativo può essere valutato con sufficienza, quasi fosse un’opzione storica minore, quella non solo meno im­portante ma anche meno incisiva. Per quel che ci riguarda, con il recente documento «Per un Paese solidale: Chiesa italiana e Mezzogiorno», abbiamo inteso affermare alla coscienza del Paese che educare è piuttosto una priorità ineludibile per af­frontare problemi antichi e nuovi che sfi­dano la società, ed è la strada più redditizia e decisiva per far emergere in modo strut­turato ed efficace le potenzialità di mente e di cuore in serbo al nostro popolo.

Al termine della settimana che oggi inizia, la domenica delle Palme, è in calendario la XXV Giornata mondiale della gioventù, «i­niziativa profetica» del grande papa Gio­vanni Paolo II, dichiarato da poco «venera­bile » e che i giovani nella loro spontaneità hanno da subito acclamato santo (cfr Be­nedetto XVI, Messaggio per la XXV Giorna­ta mondiale della gioventù, 22 marzo 2010). Noi vescovi italiani siamo testimoni privilegiati del gran bene, anzi dei «frutti abbondanti» ( ib) che questa intuizione ha generato nelle nostre Chiese particolari. Desideriamo che si continui con determi­nazione e creatività lungo questa strada, che non è mai ripetitiva perché deve coin­volgere le ondate sempre nuove di giovani che si affacciano alla vita. Il tema scelto e illustrato da Benedetto XVI: «Maestro buo­no, che cosa devo fare per avere la vita e­terna? », e che si riallaccia alle origini stesse della Giornata, suona davvero come l’indi­cazione più promettente per quell’Incon­tro mondiale, in programma a Madrid nell’agosto 2011, verso cui i nostri giovani sono già rivolti.

Nelle tragedie naturali consapevoli e solleciti

5. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» ( 2Cor 5,20). Non rara­mente si affacciano alla cronaca del mon­do eventi che per la loro imponderabilità, come per l’impatto che sono destinati ad avere tra le popolazioni, contengono in sé un poderoso invito alla conversione. Pen­siamo ai fatti calamitosi che nell’arco di poche settimane sono accaduti prima ad Haiti e poi in Cile. Due terremoti di pro­porzioni disastrose, dagli esiti tuttavia par­zialmente differenti per la diversa conno­tazione degli habitat investiti. Possiamo dire che in entrambe le circostanze la no­stra gente è sembrata non poco turbata.  Bisogna operare perché le emozioni ven­gano elaborate e approdino a posizioni più consapevoli, ad atteggiamenti ragionati, e infine a scelte coinvolgenti (cfr Benedetto XVI, Discorso alla Protezione civile italiana, 6 marzo 2010). Nei drammi che scaturisco­no da eventi naturali solitamente ci sono delle «lezioni» da apprendere, di ordine per così dire logistico, ed anche sul piano civico. Ma resta la quota parte di imponde­rabilità che va saggiamente ricondotta alla intrinseca precarietà della nostra esisten­za, senza lasciarsi sedurre dalla «illusione di poter vivere senza Dio», per leggere piuttosto la storia dell’uomo e del mondo secondo quel ribaltamento di prospettiva suggerito dallo sguardo di Dio stesso (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus , 7 marzo 2010). C’è bisogno allora di conversione e di preghiera per raccogliere i messaggi in­trinseci agli accadimenti, per maturare o­gni volta comportamenti più congrui e so­lidali, in grado di creare sintonia con chi soffre, e per essere meno indegni nella do­manda di intercessione. Ebbene, mentre comincia qua e là a farsi largo la convin­zione che la comunità internazionale deb­ba attrezzarsi per rispondere in modo non improvvisato né episodico alle tragedie che si presentano in questa o quella parte del mondo, va sottolineato come la nostra comunità nazionale e la sua opinione pubblica in occasione degli eventi menzio­nati siano state in debita allerta, e certo sollecite negli interventi. Non di meno la nostra comunità ecclesiale ha prontamen­te reagito con stanziamenti sostenuti e poi rafforzati attraverso raccolte assai signifi­cative di mezzi indispensabili per offrire ­in via diretta e attraverso la Caritas - l’aiuto che serve nell’immediato e quello, forse più meritorio ancora, del post-emergenza. I credenti, le loro famiglie, le nostre comu­nità continuino a sentire il morso della di­sperazione altrui e si facciano prossimi ai loro bisogni. L’aver noi, come popolo ita­liano, ripetutamente sperimentato in pri­ma persona le conseguenze di dolore e di­sagi collegate alle calamità naturali, come l’essere tuttora sotto sforzo per il terremo­to che un anno fa ha colpito l’Aquila e l’A­bruzzo, mentre gravi smottamenti hanno, nell’ultimo inverno e fino ad oggi, colpito numerose località in particolare del Meri­dione, fa sì che non possiamo farci trovare mai estenuati, bensì attenti e solleciti quando un fratello è nel bisogno.

Il dolore e la mite resistenza dei cristiani

Ma c’è un’altra tipologia di situazioni do­lenti, che ci interpella anzitutto sul piano interiore, ed è quella delle popolazioni tor­mentate perché sono calpestati i diritti u­mani fondamentali, primo dei quali la li­bertà religiosa. Nelle ultime stagioni si re­gistra una recrudescenza degli attacchi ai cattolici. Non sono finiti ad esempio in In­dia, paese in cui nonostante tutto la comu­nità cattolica cresce grazie alla stima di cui gode, ma dove ultimamente si è giunti a manifestazioni blasfeme dell’immagine di Gesù, così da umiliare e forse anche pro­vocare i nostri fratelli di fede, già sotto tiro con chiese bruciate e sacerdoti e credenti fatti oggetto di persecuzione. Ma pensia­mo anche agli scontri molto gravi avvenuti in Nigeria e in precedenza in Malaysia, in Egitto e in Algeria. Nelle ultime settimane, in vista delle elezioni locali, era tornata a salire la tensione in Iraq, e i cristiani sono scesi in piazza per manifestare la loro mite resistenza a fronte di incursioni condotte a loro danno. A motivo delle perduranti di­scriminazioni, costituiscono oggi una an­cor più ridotta minoranza, senza tuttavia che possa mutare lo status di componente religiosa certo non estranea a quella regio­ne, avendo lì il cri­stianesimo radici quasi bimillenarie.

La mitezza che contrassegna in ge­nerale la risposta cattolica non può essere però frainte­sa: nessuno ha il diritto di farsi pa­drone degli altri in nome di Dio. Noi siamo effettiva­mente vicini a questi nostri fratelli di fede, solidali con il loro patire, ammirati della loro perseveranza, impegnati a far sì che la politica a livello internazionale voglia as­sumere con crescente autorevolezza ini­ziative urgenti ed efficaci per assicurare a tutti gli uomini, entro qualunque confine, il sacrosanto rispetto della libertà di credo e di culto. Ai missionari, alle suore, ai vo­lontari laici che, come è accaduto anche di recente, di fronte a discriminazioni e vio­lenze di ogni tipo non si staccano dalla ter­ra in cui operano, va la nostra assidua vici­nanza: sono nel cuore della nostra pre­ghiera. Vogliamo, anzi, essere degni di loro, e per questo non cesseremo di interrogarci sul nostro vivere la fede, perché crescano in noi la testimonianza e l’annuncio evan­gelico nel segno di una gioia più limpida e di una convinzione più coraggiosa.

Riflettere bene sul nostro amato Paese

6. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» ( 2Cor 5, 20): questo invito accorato vorremmo con affetto ri­volgerlo specialmente al nostro Paese. Sappiamo bene che oggi c’è una certa al­lergia a parlare di conversione; e talora an­che il semplice suggerimento finisce per suonare paradossalmente sgradito. Certo, la conversione, come l’auto-rinnovamen­to, è tra le decisioni più intime, che com­prensibilmente suscitano pudore. Il fatto è però che una società non si rinnova per legge, o per qualche automatismo genera­le o in forza di un’indagine sociologica. La conversione è scelta personalissima, che nessuno può fare per altri. Ne risulta che una società si rinnova solo a condizione che più soggetti decidano consapevol­mente di farlo. Se uno invece passa la ma­no, e attende che altri facciano quello da cui egli si auto-esonera, allora davvero si finisce in una stagnazione etica che fatal­mente indebolisce e logora l’intera convivenza. La no­stra è una società vivace, e che in vari campi ha delle punte di eccellenza che sono motivo di comune soddisfa­zione; a dispiacere semmai è la rapi­dità con cui spesso ci si dimentica di quello che gioverebbe ricordare e sotto o­gni latitudine concorre a formare il patri­monio tipico di ogni popolo. Nello stesso tempo, la nostra è una società molto sensi­bile, con un’alta propensione a immedesi­marsi nei problemi come nei disagi degli altri. Siamo un popolo esuberante che, in un arco di tempo limitato, ha coperto un tratto lungo di strada in ordine al progres­so, distanza magari che altri hanno impie­gato assai di più a percorrere, ma che in questa sua corsa entusiasmante e talora persino affannosa, rischia di lasciarsi in­dietro regole e remore introiettate quando era più povero e meno evoluto. Non so dire se la società italiana sarebbe nel suo insieme disposta ad accogliere da noi Vescovi una parola, anche una sola, pe­raltro umile, e comunque schietta. Se pen­so alle nostre singole città, e alla società che si esprime nelle singole diocesi, sarei indotto a immaginare senz’altro di sì. E a quel punto direi: sostiamo un attimo e proviamo a pensare. Pensare a noi stessi, a quello che eravamo, ed oggi - dopo esserci lanciati in una maratona incredibile, e aver raccolto non pochi risultati - rischiamo nonostante tutto di compromettere. Da più parti si parla di un declino che sarebbe incombente sul nostro amato Paese. «Mai l’investimento educativo può essere valutato con sufficienza quasi un’opzione storica minore. È la strada decisiva per fare emergere le potenzalità di mente e cuore in serbo al nostro popolo» «La conversione è scelta personalissima». «Una società si rinnova se più soggetti decidono di farlo». Altrimenti «si finisce in una stagnazione etica che indebolisce e logora l’intera convivenza». Perché nei paragoni, che talora si avanza­no, dove l’Italia è messa per l’uno o l’altro dei suoi parametri a confronto con altri contesti nazionali, si finisce puntualmen­te per concludere - magari con un sottile compiacimento intellettuale - che siamo in svantaggio? Si tratta di irriducibile pessi­mismo o di cronico snobismo? Rimestare sistematicamente nel fango, fino a far ap­parire l’insieme opaco, se non addirittura sporco, a cosa serve? E a sospingere verso analisi fin troppo crudeli, è l’amore per la verità o qualcos’al­tro di meno confes­sabile? O è più at­tendibile invece il fatto che stiamo progressivamente perdendo la fiducia in noi stessi, assu­mendo con ciò sta­ti d’animo che fini­scono col destrut­turare la società in­tera? Quella energia morale che avevamo dentro ed ha consen­tito ad una nazione, uscita dalla guerra in condizioni del tutto penose, di ritrovarsi in qualche decennio tra le prime al mondo, quella forza vitale che fine ha fatto? Perché il vincolo che ci aveva legato nella stagione della ricostruzione post-bellica e del lan­cio del Paese stesso sulla scena internazio­nale, ed aveva retto nonostante profondi dislivelli sociali e serie fratture ideologiche, è sembrato da un certo punto in avanti non unirci più?

Un metodo di comportamento nei giorni della crisi

7. Ci sono tuttavia dei motivi di contin­gente quanto seria preoccupazione, do­vuti in gran parte alla crisi economica in­ternazionale, che sprigiona ora sul terri­torio i suoi frutti più amari. Mi riferisco in particolare alla realtà del lavoro, il lavoro che è «bene per l’uomo, per la famiglia e per la società, ed è fonte di libertà e re­sponsabilità » (Benedetto XVI, Discorso all’Unione degli industriali del Lazio , 18 marzo 2010). Per un popolo abituato a far leva sostanzialmente sulla propria intra­prendenza e sulla propria fatica, trovarsi spiazzato sul fronte dell’occupazione è u­na sofferenza acuta. In non poche aree assistiamo ad industrie che fermano la recessione conferma che non ha senso ri­tenere la persona del lavoratore una va­riabile rispetto agli altri fattori di produ­zione. Un’impresa realizza davvero la pro­pria missione quando riesce, grazie ad u­no sforzo collettivo, ad un impegno ripar­tito tra i contraenti, a raggiungere i propri obiettivi industriali in concomitanza al benessere delle persone che vi lavorano e dunque del territorio e dell’ambiente in cui essa è inserita (cfr Benedetto XVI, Di­scorso ai dirigenti e al personale dell’Acea, 6 febbraio 2010). Per questo risulta neces­sario, all’insorgere delle difficoltà, ricerca­re un dialogo inesausto tra le parti, ed e­splorare tutte le possibili soluzioni, aven­do come riferimento costante il vero inte­resse di quanti formano la comunità d’impresa. Le crisi non si superano ta­gliando semplicemente i posti di lavoro e arrendendosi alla logica della remunera­zione di breve periodo, ma anzitutto sfor­zandosi di immaginare il nuovo, ricercan­do innovazione di prodotto insieme a strategie di sistema, in una parola perse­guendo senza ingenuità ciò che da sem­pre connota il progresso autentico di un’economia. Siamo testimoni che que­sto sforzo coscienzioso ispira non pochi, ma è necessario si allarghi e, soprattutto, sia sostenuto da tutti. L’accorato appello che da mille rivoli ci perviene, noi non possiamo – a nostra volta – esimerci dal presentarlo a impren­ditori e sindacati, alle associazioni di ca­tegoria e alle camere di commercio, agli i­stituti bancari e alle pubbliche ammini­­strazioni: oggi troppe famiglie sono in an­sia. I problemi – chi non lo sa?– sono cer­tamente complessi, per questo bisogna in coscienza non alzare mai bandiera bianca prima di aver esperito tutte, proprio tutte le vie che possono portare ad una ragio­nevole soluzione. Ciò va fatto territorio per territorio, attraverso la messa in co­mune delle competenze che lì sono in gioco, così che nessuna situazione critica deperisca nel disinteresse sociale. E per ottenere – allorché tutto è stato tentato – quegli ammortizzatori che permettono di non far sentire alcuno abbandonato dalla collettività. Resistiamo insieme, pensia­mo insieme, industriamoci insieme. E in­sieme, dopo la crisi, ripartiamo più forti.

Una strategia per integrare; con lungimiranza

Su un altro fronte la nostra società è chia­mata a interrogarsi per tempo, prima che altre situazioni critiche arrivino ad esplo­sione: quello di una fondamentale strate­gia di integrazione degli immigrati pre­senti sul territorio italiano. Dopo i fatti di Rosarno – a cui i confratelli vescovi della Calabria hanno riservato parole chiare specie sullo sfruttamento criminale ca­valcato dalle cosche – altre situazioni so­no venute alla ribalta, come ad esempio a Milano, nei fatti incresciosi di via Padova, dopo che c’era stata purtroppo una vitti­ma. Un altro ragazzo successivamente ha trovato una morte atroce, bruciato men­tre dormiva in un campo rom della peri­feria milanese. Da varie parti ormai si ri­conosce che, tra le opzioni da perseguire avendo per obiettivo l’accoglienza dei nuovi arrivati, non possono più figurare le cosiddette «isole etniche». Noi vescovi ci eravamo già permessi di dirlo in prece­denti occasioni, e torniamo ora a ribadir­lo con la fiducia che si voglia finalmente procedere attraverso una mappatura gra­duata delle diverse situazioni a rischio e si inizi subito ad agire con determinazione e lungimiranza, sapendo che la questione ha innegabili implicanze con la politica immobiliare e quella fiscale. Se si vuole e­vitare che una determinata zona di città (o del territorio) diventi, anche in breve tempo, un ambiente separato che dà il senso di estraneità a chi ci vive, occorre muoversi per tempo e attrezzarsi median­te un sapiente monitoraggio urbano che consenta per tempo iniziative di ricom­posizione, così da mantenere ragionevol­mente miscelate le provenienze e suffi­cientemente coesa la cittadinanza. Ma per questo è indi­spensabile una presenza sul terri­torio di figure di ri­ferimento, educa­tori e assistenti so­ciali che, insieme a forze dell’ordine, garantiscano inter­venti preventivi, in grado tra l’altro di far rispettare il diritto alla famiglia che è proprio anche dei poveri. Nello stesso tempo, è indispensabile che dai quartieri e dalle parrocchie si dispieghino espe­rienze di animazione che possano confi­gurare quella che l’Azione cattolica ha chiamato «una nuova alleanza civile» sul territorio. Nessuna persona ha il diritto di ritenersi superiore ad altre: gli immigrati sono donne e uomini come noi. L’ugua­glianza, prima di essere un principio san­cito dalla Costituzione, è una consapevo­lezza attinta da una cultura che ha potuto sedimentarsi grazie anche all’influsso e­sercitato lungo i secoli dal Vangelo. Con l’occasione vorremmo anche ricor­dare la difficile situazione in cui versa una serie di strutture sociali e sanitarie di ispi­razione cristiana dislocate sul territorio e preziose quanto ad assistenza specifica, specie dei meno abbienti. Chiediamo alle Regioni che il diritto costituzionale alla salute sia effettivamente tutelato collo­cando le pur necessarie riforme in un contesto di promozione del bene comu­ne.

Esame di coscienza sociale sulla vita

8. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciate­vi riconciliare con Dio» ( 2Cor 5,20): è sul primordiale diritto alla vita che all’alba di produzione. Dove la competizione inter­nazionale già aveva ridotto i margini di guadagno, la gelata sugli ordinativi sem­bra far giungere al pettine tutti i nodi in un colpo solo. Alcune antiche debolezze si rivelano fatali. E quando poi le imprese industriali più consistenti ricorrono mas­sicciamente alla cassa integrazione, ipo­tizzano ristrutturazioni o addirittura av­viano chiusure, subito una corona di pic­cole aziende a cascata ne risentono. Ral­lentando i volani dislocati sul territorio, s’inceppano le imprese artigianali, ansi­mano i piccoli esercizi commerciali. I gio­vani che già costituivano la fascia di po­polazione più in sofferenza perché meno garantiti e poco sussidiati nel loro tuffo verso la vita, oggi rischiano di demoraliz­zarsi definitivamente. Se sono meridiona­li tendono a trasferirsi al Settentrione, ma già è iniziato il fenomeno inverso, quello della gente del Sud che, perdendo il lavo­ro al Nord, torna a casa. Mentre un nume­ro crescente di giovani - del Sud come del Nord - guarda oltre il confine nazionale: un dinamismo interessante nella misura in cui non è unidirezionale e obbligato. Sappiamo che resiste da noi una cultura forte del lavoro ma anche dell’impresa: ci si riconosce nella fabbrica e se ne trae vincoli non semplicemente strumentali. I casi di suicidi verificatisi negli ultimi mesi tra i lavoratori minacciati dalla crisi, ma anche tra i piccoli imprenditori, in parti­colare del Nordest, che nell’impossibilità a far fronte agli impegni nei confronti dei propri dipendenti disperatamente non scorgono alternative diverse dal tragico gesto, che cosa dicono infatti, se non che si è dinanzi ad una coscienziosità tirata allo spasimo, fino ad essere inaccettabil­mente indirizzata contro se stessi? Come vescovi, ci scopriamo talora il terminale ultimo di una filiera di preoccupazioni: nessuno evidentemente ci carica di re­sponsabilità che non possiamo avere, ma tutti o quasi finiscono ad un certo punto per rivolgersi a noi in nome di ciò che rappresentiamo. Ebbene, in questa veste, pur non disponendo di inedite soluzioni tecniche, avremmo un metodo di com­portamento da ricordare, quello della re­sponsabilità sociale, da esercitare anzitut­to evitando la fuga dai problemi, e illu­dendosi di trovare riparo dietro a soluzio­ni unilaterali e drastiche. Nell’economia globalizzata infatti ci sarà sempre un al­trove più conveniente, un territorio nel quale i costi sono minori e il ricavo più al­to. Ma proprio la genesi di questa terribile questo terzo millennio l’intera società si trova a dover fare ancora l’esame di co­scienza, non per caricare fardelli sulle spalle altrui, né per provocare aggravi di pena a chi già è provato, ma per il dovere che essa ha, per se stessa, di guardare a­vanti in direzione del futuro. E nonostan­te le apparenze o le illusioni, non le riu­scirà di farlo se non schierandosi col favor vitae, sempre e particolarmente quando le condizioni siano contrastate, difficili, incerte. Da qualche tempo, nella menta­lità di persone che si ritengono per lo più evolute, si è insediato un singolare ribal­tamento di prospettive nei riguardi di si­tuazioni e segmenti di vita poco appari­scenti, quasi che l’esistenza dei già garan­titi, di chi dispone di strumenti per la pro­pria salvaguardia, valga di più della vita degli «invisibili». Come non capire che si consuma qui un delitto incommensura­bile, e che lo si può fare solo in forza di u­na tacita convenzione culturale che è ab­bastanza prossima alla ipocrisia? Il rap­porto, predisposto dall’Istituto per le poli­tiche familiari a proposito dell’aborto in Europa, illustrato di recente a Bruxelles, forniva dati agghiaccianti: quasi tre milio­ni di bimbi non nati solo nel 2008, ossia ogni undici secondi, venti milioni negli ultimi quindici anni. E all’orizzonte nulla si muove che possa lasciar intravedere un qualsiasi contenimento di questa eca­tombe progressiva, se si tiene conto che l’aborto ha ormai perso l’immagine di u­na pratica eccezionale e dolorosa, com­piuta per motivi gravi di salute della ma­dre o del piccolo, per diventare un meto­do «normale» di controllo delle nascite. Intanto già è in incubazione un’ulteriore silente rivoluzione, compiuta grazie alla diffusione di nuovi metodi abortivi sem­pre più precoci che – variando la compo­sizione chimica, a seconda della distanza di assunzione dal concepimento – hanno come effetto quello di «far scomparire» l’aborto, agendo nel dubbio di una gravi­danza in atto che la donna sarà così in grado di coprire meglio, rispetto agli altri ma rispetto anche a se stessa. Se venisse effettuato in casa, magari in solitudine, da problema sociale diventerebbe un atto di alchimia domestica, che non interseca più in alcun modo la collettività, neppure sul residuale versante sanitario. Dalla «pillola del giorno dopo» al nuovo ritrova­to, chiamato sui giornali «pillola dei cin­que giorni», è un continuum farmacologi­co che, annullando il confine tra prodotti anticoncezionali e abortivi, ha già indotto ad una crasi linguistica – si chiamano in­fatti contraccettivi post-concezionali – che sfuma la precisione del momento per l’eventuale feto, e dunque l’esatta contez­za dell’atto, minimizzando probabilmen­te l’urto del gesto abortivo, anzitutto sul piano personale, e poi anche su quello cultural-sociale. L’embrione, se c’è, non potrà annidarsi, e la donna non saprà mai che cosa effettivamente sia successo nel suo corpo, se una vita c’era ed è stata eli­minata oppure no. A completamento del fatto, queste pillole tendono a diventare un prodotto da banco, accessibile a tutti, anche alle minori. Diversa, di per sé, la lo­gica della Ru486, che è prescritta quando c’è la certezza di una gravidanza in atto. Nella pratica reale però, l’aborto sarà pro­lungato e banalizzato, acquisendo conno­tazioni simboliche più leggere, giacché l’i­dea di pillola è associata a gesti semplici, che portano un sollievo immediato. E co­sì  «Le crisi si superano non tagliando i posti, ma sforzandosi di immaginare il nuovo. Sottrarre qualcosa a ciò che è pubblico non è rubare di meno; semmai sarebbe un rubare di più»  la «rivoluzione» iniziata negli anni Set­tanta per sottrarre l’aborto alla clandesti­nità, al pericolo per la salute delle donne, al loro isolamento sociale, si chiude tor­nando esattamente là dove era comincia­ta, con il risultato finora acquisito dell’in­visibilità sociale della pratica, preludio di quella invisibilità etica che è disconosci­mento che ogni essere è per se stesso, fin dall’inizio della sua avventura umana. Domanda per nulla polemica: che cosa ci vorrà ancora per prendere atto che senza il principio fondativo della dignità intan­gibile di ogni pur iniziale vita umana, o­gni scivolamento diviene a portata di ma­no?

L’imperativo dell’onestà, senza alibi

9. «Vi supplico in nome di Cristo: lasciate­vi riconciliare da Dio» (2Cor 5,20): vorrei infine pensare queste parole rivolte a quanti concretamente operano sulla sce­na politica. E per farlo con qualche effica­cia torna forse interessante riferirsi a quella linea di studi antropologici che suggeriscono di scorgere qualcosa di sa­cro in ciò che fonda ogni società, ossia in quel supporto profondo che si trasmette di generazione in generazione, e che dun­que va al di là dei singoli individui, con­sentendo tuttavia agli stessi di vivere in­sieme. Per questo, l’esplicarsi nel tempo di questo legame – cioè la politica – ha a sua volta in sé qualcosa di nobile che ri­chiede, da parte di chi vi si dedica, un ap­proccio consono. È una visione che non sorprende i cattolici, che infatti sulla scor­ta del citato Messaggio quaresimale del Papa, sono chiamati quest’anno a chie­dersi che cosa sia la giustizia. Essa espri­me sempre un profilo di gratuità che su­pera quel dare a ciascuno il suo, che è il minimo, per renderla espressiva di una opzione incondizionata per il bene non solo dinanzi al bene ma anche dinanzi al male. Così sperimenta la giustizia chi, an­dando realmente oltre la mera logica di­stributiva, viene trattato secondo la sua dignità. Si situa qui, in modo cioè non so­lo contingente, l’idea alta di politica cui ci permettemmo di fare cenno nell’ultimo Consiglio permanente: una politica capa­ce di rendere onore all’uomo in quanto uomo, sempre cioè figlio di Dio. «Per en­trare nella giustizia – avverte Benedetto XVI – è pertanto necessario uscire da quella illusione di auto-sufficienza, da quello stato profondo di chiusura, che è all’origine stessa dell’ingiustizia. Occorre in altre parole […] una liberazione del cuore» ( Messaggio cit.). Ecco ciò che, di­nanzi a quel che va emergendo anche dalle diverse inchieste in corso ad opera della Magistratura, e senza per questo an­ticiparne gli esiti finali, noi Vescovi ci sen­tiamo di dover chiedere a tutti, con u­miltà, di uscire dagli incatenamenti pro­dotti dall’egoismo e dalla ricerca esaspe­rata del tornaconto e innalzarsi sul piano della politica vera. Questa è liberazione dalle ristrettezze mentali, dai comporta­menti iniqui, dalle contiguità affaristiche per riconoscere al prossimo tutto ciò di cui egli ha diritto, e innanzitutto la sua di­gnità di cittadino. Bisogna che, al di fuori delle vischiosità già intraviste e della mor­bosità per un certo accaparramento per­sonale, si recuperi il senso di quello che è pubblico, che vuol dire di tutti e di cui nessuno deve approfittare mancando co­sì alla giustizia e causando grave scandalo dei cittadini comuni, di chi vive del pro­prio stipendio o della propria pensione ed è abituato a farseli bastare, stagione dopo stagione. C’è un impegno che, a questo punto, non può non riguardare proporzionatamente tutti, politici e citta­dini, e che ciascuno nel proprio ambito è chiamato ad onorare: mettere fine cioè a quella falsa indulgenza secondo la quale, poiché tutti sembrano rubare, ciascuno si ritiene autorizzato a sua volta a farlo sen­za più scrupoli. Anzitutto non è vero che tutti rubano, ma se per assurdo ciò acca­desse, cosa che non è, non si attenuereb­be in nulla l’imperativo dell’onestà. «Si di­ce – annota il Papa – 'ha mentito, è uma­no'; 'ha rubato, è umano'; ma questo non è il vero essere umano. Umano è es­sere generoso, è essere buono, è essere uomo della giustizia […]» ( Lectio divina con i parroci cit.). Non cerchiamo alibi preventivi né coperture impossibili: sot­trarre qualcosa a ciò che fa parte della co­sa pubblica non è rubare di meno; sem­mai, se fosse possibile, sarebbe un rubare di più. A qualunque livello si operi e in qualunque ambiente. Per i credenti poi, questo obbligo assurge alla dignità di co­mando del Signore, dunque non si può venir meno.

Concludo ricor­dando un laico cattolico, Vittorio Bachelet, che giu­sto trent’anni or sono – il 12 feb­braio 1980 – veniva proditoriamente ma anche illuso­riamente ucciso sulla gradinata della sua Univer­sità. Egli diceva: «In questa fase di passaggio, in questa svolta della civiltà alla quale ha voluto ri­spondere il Concilio Vaticano II nel cui solco fecondo noi abbiamo lavorato e ci impegniamo a lavorare, occorre soprat­tutto una forza spirituale che testimoni nella povertà dei mezzi umani la sua fe­deltà a Cristo, in una carità aperta e libera verso tutti i fratelli facendosi trasparente al Suo volto. Però questo – aggiungeva – non si fa senza dare la propria vita: come ha fatto padre Massimiliano Kolbe nel campo di concentramento, ma come cia­scuno di noi può e deve fare ogni giorno perché un fratello, perché i fratelli abbia­no un poco più di vita» (Vittorio Bachelet, Discorsi 1964-1973, a cura di Mario Casel­la,  Ave 1980, pag. 259). Conservando dinanzi agli occhi simili modelli, diamo avvio al nostro confronto per il quale voglio sperare che questa non breve – e me ne scuso – prolusione sia di qualche aiuto. L’ordine del giorno è quel­lo che conosciamo, e su quella base af­fronteremo i singoli temi, affidandoci al­l’assistenza dello Spirito Santo, e all’inter­cessione di Maria Santissima, nostra ma­dre, dei santi Francesco e Caterina, come dei patroni delle nostre Chiese. Grazie.