Preti e laici: “Collaborazione” e corresponsabilità

Conversazione tenuta al Gruppo Piccapietra (Via XII Ottobre 14 - 16121 Genova)

(Trascrizione della registrazione non riveduta dall’autore)

Luca Mazzinghi
(Biblista, parroco e docente alla Facoltà Teologica dell’Italia centrale, Firenze)
Genova

3 Maggio 2011

Ringrazio per l’invito. L’unico legame che ho con Genova è la nomina da parte del vostro amatissimo arcivescovo, il 7 ottobre scorso, a Presidente nazionale dell’Associazione Biblica Italiana; poi altri legami con Genova non ne ho; è la seconda volta che vengo a parlar qua, e sempre da voi.

Parlo come uno che da vent’anni insegna Sacra Scrittura (ventidue, per essere pignoli) e da diciassette fa il parroco; dipende dai punti di vista. Si discuteva prima sul fatto dell’essere teologi: quelli che insegnano Sacra Scrittura non si considerano teologi, lasciano la teologia a un altro settore della Chiesa. Noi siamo più terra terra; si parla di Bibbia, quella cosa strana che nessuno legge, i Vangeli, quelle cose un po’ così…

Per parlare di quello che mi è stato chiesto (argomento un po’ vasto, per cui bisogna sapere da che parte cominciarlo) ho ritirato fuori una lezione che feci l’anno scorso, più o meno in questo periodo all’Università Gregoriana nell’ambito di un corso che si intitolava “Laikós - la teologia del laicato”: se siete gente che scartabella su internet andate sul sito della Gregoriana, cercate Laikós e scaricate tutte le conferenze compresa la mia; c’è un’intera sezione dedicata a questo: chi è il laico e tutti i problemi connessi con la teologia del laicato. Il fatto che sia stato tenuto in Gregoriana questo corso fa ben sperare in quanto in Gregoriana c’è gente vispa. Il corso è organizzato da Stella Morra, famosa teologa e da Marco Vergottini, teologo di Milano, sempre nell’ambito dell’Università Gregoriana.

Premesse metodologiche

Intanto, un primo ripasso di metodo, perché altrimenti poi si parla di cose un po’ vaghe.

Se si apre il codice di diritto canonico attuale (non dico il numero del canone che sennò divento noioso), il laico è il “non chierico”, cioè si definisce in negativo, in rapporto a ciò che non è rispetto a ciò che è. Si tenga presente che la terminologia “laico” è recente, e che nella Bibbia la parola laikós non esiste neppure, è un termine tardo; tra l’altro, nel greco usuale, il greco della koiné, laikós significa semplicemente una categoria all’interno del popolo e non ha nessuna conno-tazione sacrale o legata a problemi di culto. La terminologia che noi usiamo è in realtà tardiva e non è biblica.

Ecco perché alcuni teologi e tutta la scuola di Milano, da Colombo a Vergottini (Milano ha una vera e propria scuola di teologia che produce in abbondanza, chi si diverte a comprar libri, li trova nelle edizioni Glossa dell’Università Cattolica di Milano, Facoltà di Teologia), un folto gruppo di teologi milanesi chiede ormai di abbandonare la via della ricerca di una definizione su chi è il laico per risolvere piuttosto un problema pastorale, quello della partecipazione responsabile di tutti i credenti all’unica missione della Chiesa. In soldoni, smettiamo di chiederci chi sono i laici e vediamo invece di lavorare tutti nell’unica chiesa per l’unica missione.

Per questa scuola – ma anche Bruno Forte per certi aspetti non è lontanissimo da questa linea – il laico non esiste neppure: nella Chiesa c’è il cristiano e stop. Da questo punto di vista la distin-zione laici/chierici viene addirittura a cadere per principio. Questa è tutta una scuola teologica, oggi, molto molto in voga (non sto parlando di qualche teologo border-line, sto parlando della Facoltà di Teologia di Milano, sono cose che si insegnano queste).

Questo come piccola prefazione di metodo. C’è da dire che, guardando la situazione della Chiesa cattolica in genere, oggi, ritorna sempre di più una visione dualistica della Chiesa stessa, la contrapposizione chierici/laici sempre più accentuata; certe nostalgie tradizionaliste (non c’è bisogno di parlarne a Genova, perché ne avete avute in diretta parecchie esperienze) ritornano a questo tipo di separazione fino alle separazioni fisiche (la balaustra, il presbiterio, il laico in ginocchio a ricevere la comunione, il prete separato dal popolo). Ricordate che questo era una delle cinque piaghe della Chiesa, che già lamentava il buon Rosmini: il problema è annoso, in realtà.

Se noi partiamo da una visione del laico come non-prete, corriamo sempre questo rischio: o di separarlo del tutto, come i tradizionalisti sarebbero ben felici di tornare a fare (di tornare cioè alla visione del laico della Vehementer nos di Pio X, in cui si dice che al laico spetta il compito di ubbidire ai suoi pastori e punto: il laico obbedisce alla voce dei pastori) – così il problema della responsabilità del laicato non è nemmeno preso in considerazione –, oppure si rischia il pericolo opposto, quello della clericalizzazione del laicato, per cui per essere responsabile il laico si sente in dovere di fare il mezzo prete e più fa il mezzo prete più si sente responsabile. Nasce così tutto quel movimento di laici impegnatissimi che fanno in realtà una via di mezzo fra il sagrestano, il finto diacono e il quasi-prete, e credono che così si promuova il laicato. Tutto questo nasce sempre da una visione teologica ridotta del laicato contrapposto al prete. Ecco perché una riflessione come quella della scuola di Milano, che non è necessariamente la migliore, ci mette però su una linea diversa in cui parlare dei laici non significa parlare necessariamente di qualcuno che è contrapposto al prete; si rischia, rovesciando il paradigma, che il laico voglia diventare anche lui un prete, e questo crea ulteriori problemi.

L’Antico Testamento: Israele popolo di Dio, popolo di sacerdoti

Se noi partiamo invece dalla Bibbia, come dovrebbe essere ovvio partire, ci accorgiamo che già l’Antico Testamento, prima ancora di parlarci di sacerdozio, profetismo, monarchia, ci presenta una visione unitaria del popolo di Dio; basta prendere la carta costituzionale di Israele, che è un testo tardivo del libro dell’Esodo (cap. 19), testo che fa da prefazione al decalogo (cap. 20) – testo tardivo significa un testo scritto in epoca immediatamente post-esilica, siamo cioè verso la fase finale della formazione del Pentateuco, testo che riflette l’autocoscienza dell’Israele tornato dall’esilio –, quando il Signore chiama Mosè dal monte e gli dice: «Ora, se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare fra tutti i popoli, mia è infatti tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa». Dunque in testi come questo c’è l’idea che il popolo in quanto tale, non una parte di esso, è il popolo di Dio: qui si parla dell’intero popolo; l’unico mediatore è Mosè, ma Mosè è un caso particolare, è unico, non ci sono successori di Mosè, nell’ebraismo non c’è la figura del successore di Mosè; Mosè è un caso unico e irripetibile e non fa testo. Qui non c’è neanche Aronne, non c’è ancora il sacerdozio – il sacerdozio arriva in Esodo 32, quando viene consacrato poi Aronne –, qui c’è solo il popolo di Dio davanti a Dio. Il popolo di Dio, fra le altre cose, è una “proprietà particolare” fra tutti i popoli, è scelto da Dio. Questo è un punto importante.

Il popolo di Dio è un popolo che è eletto, chiamato da Dio; questo vale per il popolo di Dio, come per la Chiesa: la Chiesa è tale perché è convocata dal Signore, dunque è qualche cosa di diverso da un’associazione, da un club, da un gruppo sociale, politico, culturale, quello che voi volete. La Chiesa non nasce perché il Papa chiama in piazza a celebrare un evento, o un parroco o chiunque altro. La Chiesa nasce da Dio, quindi anche il Papa è chiamato, forse per primo addirittura come nel caso di Pietro, proprietà particolare.

E poi è “un regno di sacerdoti”: che vuol dire? Credo che abbiate già un po’ parlato del sacerdozio comune dei fedeli: un regno di sacerdoti non vuol dire un regno governato dai sacerdoti (Dio ne scampi, Israele ha avuto anche questo in un certo periodo della sua storia; in epoca macca-baica il re, da Simone Maccabeo in poi, è anche contemporaneamente sommo sacerdote, o meglio, è un sommo sacerdote che assume contemporaneamente anche il potere regale, questo in un certo periodo Israele l’ha avuto). Un regno di sacerdoti significa un regno dove tutti sono sacerdoti, secondo il dettame di Isaia 61, altro testo del post-esilio: «Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti», dove “voi” significa appunto il popolo di Israele.

Ora però pensate: se tutto il popolo è sacerdote, a che serve essere sacerdoti? Perché il sacerdozio è per gli altri, non si è sacerdoti per sé stessi. Ora, che cosa fa il sacerdote in Israele? Il sacerdote fa tre cose: insegna la parola di Dio (la Legge), è l’unico ammesso a celebrare il culto divino (il sacrificio, gli altri stanno a guardare o addirittura stanno fuori) ed è il canale di benedizione attraverso il quale Dio comunica la vita, la benedizione al popolo (il sacerdote chiude la cerimonia benedicendo il popolo). Dunque: insegnare la Legge, celebrare il culto, essere tramite tra Dio e il popolo. Se però tutti sono sacerdoti, in rapporto a chi lo sono? In rapporto agli altri popoli: «Mia è tutta la terra, voi siete un popolo particolare». Allora questo testo dell’Esodo contiene un’intuizione grande. Intanto, se tutti sono sacerdoti non c’è più bisogno che qualcuno t’insegni la Legge: la Legge è dentro di te e, come direbbero i profeti, «Scriverò la Legge dentro il tuo cuore» (cfr. Ezechiele, settima lettura della notte di Pasqua). Dunque il popolo di Dio è un popolo che non ha bisogno dall’esterno di ricevere una parola che ha già in sé per il fatto di essere popolo. Poi ancora, se il popolo di Dio è un popolo sacerdotale non ha più bisogno di separazioni cultuali per accedere a Dio, chiunque può accedere a Dio perché tutti sono sacerdoti; ma siccome lo si è per gli altri, lo si è per quelli che non fanno parte del popolo di Dio, cioè gli altri popoli: Israele diventa un popolo mediatore di salvezza per gli altri popoli. E così, per analogia, la Chiesa, come dice il primo capitolo della Lumen Gentium, è «segno e strumento della comunione di Dio con gli uomini»; quindi la Chiesa è mediatrice di comunione e di salvezza fra Dio e il mondo.

L’ecclesiologia di Pietro: il popolo di Dio è un popolo sacerdotale che offre la sua vita a Dio

Questa idea che il popolo di Dio è un popolo sacerdotale è ripresa, come ben sapete, nel Nuovo Testamento, in un testo celebre, la Prima lettera di Pietro (2, 9-10), dove si legge: «Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato, perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua luce meravigliosa». Qui si parla di tutti i cristiani, dei battezzati, e vedete che lo si fa all’interno di una citazione dell’Antico Testamento: Pietro riprende in maniera letterale il testo dell’Esodo e lo trasferisce ai cristiani. Dunque per Pietro l’intero popolo cristiano è popolo che Dio si è acquistato: «Un tempo eravate non popolo, ora siete popolo di Dio». Vedete che quando il Concilio recupera questa espressione, la recupera direttamente dalla Bibbia. Chi si oppone a una ecclesiologia di Chiesa come popolo di Dio in realtà o non ha letto la Bibbia o si rifiuta di accoglierla. Questa è la Bibbia; la Chiesa da qui parte, non dall’intuizione di qualche teologo, ma da quello che la Bibbia realmente dice: voi siete ora popolo di Dio, un popolo che Dio si è acquistato e che ha il compito di procla-mare le opere ammirevoli di lui, e questa è anche la missione della Chiesa. La missione della Chiesa è annunziare la parola di Dio, proclamare la sua presenza. Guardate come oggi sembra che la missione della Chiesa sia difendere i “valori non negoziabili”: chi l’ha mai detto? Dove è scritto questo? Queste cose vengono dopo, quello che è prima è proclamare le opere meravigliose di colui che ti ha tratto dalle tenebre alla luce, cioè l’opera di salvezza di Dio, che non è un discorso etico, ma è prima di tutto un discorso di vita, qualcosa di diverso. Questo è molto importante.

E ancora: «Voi siete un sacerdozio regale». L’Esodo parla di “regno di sacerdoti”, quando poi il testo viene tradotto in greco il “regno di sacerdoti” diventa ierateuma (“sacerdozio regale”); è una questione di traduzione, non di contenuto, il greco preferisce questa espressione. Il discorso non cambia: un regno dove tutti sono sacerdoti, dove l’essere sacerdoti comporta anche la regalità. Tutti i fedeli lo sono; questo termine “sacerdozio” (ierateuma in greco) in tutto il Nuovo Testamento – pensate! – ritorna soltanto qui, nella Prima lettera di Pietro. L’unica volta in tutto il Nuovo Testamento in cui si usa il termine “sacerdozio” lo si usa per tutti i fedeli. Questo è un dato molto significativo, dove “sacerdozio” non indica una funzione (in greco ierateuma non indica una funzione, ma una corporazione, un gruppo di persone che esercita quella funzione). Quindi, con sacerdozio non si intende quello che faccio, ma quello che sono, e questa è già una cosa importante. In che cosa consiste l’essere sacerdoti per Pietro? Lo dice nei versetti precedenti, quando al versetto 4 del cap. 2 dice: «Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi, come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo». Dunque voi siete “pietre vive”, altro termine interessante: tutti i credenti, senza esclusione, sono pietre di questa costruzione: non c’è una pietra più grande e una più piccola, una che serve di meno e una che serve di più, una che posso anche non mettere e quell’altra che invece mi ci vuole. Tutti siete necessari, siete pietre vive.

In che cosa consiste l’essere sacerdoti? Nell’offrire sacrifici spirituali. Cosa sono i sacrifici spirituali? Quelli di cui parla anche Paolo in Romani 12: «Offrite voi stessi come vittime gradite a Dio», cioè l’offerta della vita; il sacerdozio consiste per Pietro nell’offerta che il cristiano fa della sua vita a Dio tramite Gesù Cristo. Quindi è la vita stessa del cristiano vissuta in Cristo, che diventa una vita sacerdotale. Questo vuol dire che, Bibbia alla mano, Nuovo Testamento alla mano, si può parlare nella Chiesa cattolica di sacerdozio solo partendo da una visione globale del sacerdozio, in cui il sacerdozio prima di tutto è il sacerdozio di tutti i fedeli che offrono a Dio sé stessi, vivono cioè in un rapporto con lui per il mondo. Qui vedete che la distinzione clero/laici viene già a cadere di per sé, se tutti sono sacerdoti. Questa è l’acquisizione del Concilio, quando parla del sacerdozio comune dei fedeli nella Lumen Gentium. Ma questo l’avete già visto.

Vi consiglio sull’argomento un fascicolo di una bella rivista che è Credere oggi: la conosce-rete, ogni numero è dedicato a un tema di attualità ecclesiale, è una rivista famosa arrivata al numero 138 o 140. Il numero 133 (non di più perché questo è del 2003) è dedicato al tema del sacerdozio battesimale e del sacerdozio ministeriale. È un bel volumetto che contiene una decina di articoli di teologi italiani famosi piuttosto ben fatti.

All’interno di questa comunità, popolo di Dio in cui tutti sono sacerdoti, Pietro ricorda (1Pietro 4, 10): «Ciascuno di voi, secondo il carisma, il dono che ha ricevuto, lo metta al servizio degli altri»; quindi Pietro riconosce anche che in questa comunità, che ha unità di dignità, di missione, di intenti ci sono vari carismi e vari servizi e fra questi carismi, al capitolo 5, ricorda quello dei presbiteroi cioè gli anziani. È un brano famoso: «Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, ...: pascete il gregge di Dio che Dio vi ha affidato». Questo è «secondo Dio e non per vergognoso interesse». Questo è un brano celebre e il breviario lo usa sempre come lettura breve nel comune dei pastori; è un brano che ritorna spesso. Fra l’altro è interessante la terminologia: quando si legge «il gregge di Dio che vi è affidato» – poiché in greco la cosa che è stata affidata si dice cleroi (da cleros, la sorte) –, è interessante, perché i laici sono chiamati “chierici” (la Prima lettera di Pietro è un testo che rovescia tutta la nostra abituale terminologia!). La Prima lettera di Pietro, tra l’altro, non è un testo di seconda mano, ma un testo importantissimo del Nuovo Testamento, non foss’altro perché è attribuita a Pietro stesso. Si può discutere se l’abbia scritta davvero lui o no, ma il cristianesimo antico la sentiva come di mano dello stesso apostolo, quindi è un testo che ha un peso notevole.

Da questa prima visione biblica si comprende come il Vaticano II ha avuto ragione a mettere al centro della visione della Chiesa la categoria di “popolo di Dio”. Se avete un po’ ristudiato come è nato il Concilio non è stato ovvio, perché il capitolo sulla Chiesa popolo di Dio fu aggiunto in un secondo tempo e fece venire l’infarto al Card. Ottaviani perché rivoluzionò un intero schema fon-dato sulla Chiesa gerarchica: prima la gerarchia, poi i laici, poi tutto il resto. Il Concilio Vaticano II mette come capitolo iniziale “il popolo di Dio”, quindi riprende questa categoria tipicamente biblica.

In questo modo, parlare dei laici non si può più fare partendo da ciò che il laico non è, ma dall’identità comune dei battezzati; quindi il punto di partenza non è “i preti, i laici” , ma è “i battezzati”: bisogna rovesciare completamente il nostro modo di ragionare. Si parte dal fatto che tutti i cristiani sono uguali, che nel popolo di Dio, in forza del battesimo, tutti sono costituiti sacerdoti, re e profeti. Bisogna rovesciare il paradigma, quindi bisogna passare dal binomio gerarchia/laicato a quello di comunità/ministeri; o si cambia paradigma o i problemi non si risolveranno mai. Proprio mentalmente va cancellato il paradigma clero/laici: fin che si ragiona così rimaniamo in una vecchia ecclesiologia che il Concilio Vaticano II ha in realtà eliminato; l’eccle-siologia del Vaticano II è quella di comunità/ministeri. Questa è l’ecclesiologia di Congar – se qualcuno si ricorda questi grandi nomi della teologia – e poi, se avete dei dubbi, l’ecclesiologia di Bruno Forte, l’attuale arcivescovo di Chieti (non stiamo parlando di qualche teologo problematico alla Hans Küng, tanto per rassicurare i dubbiosi). Leggete il libro di Bruno Forte Laicato e laicità, che egli scrisse addirittura nell’86 quando era ancora un teologo emergente e queste cose le diceva già con molta chiarezza. Quindi il problema non è di capire chi è il laico, ma di recuperare la categoria di popolo di Dio, che ancora non è stata pienamente digerita.

L’ecclesiologia di Paolo: nella Chiesa tutti al servizio per il bene comune e tutti corresponsabili

Un altro aspetto che ci viene dalla Bibbia è una riflessione sulla teologia paolina; anche da qui ci viene qualche interessante prospettiva, in particolare dal famosissimo capitolo 12 della Prima lettera ai Corinzi: il paragone del corpo e delle membra. Questo tutti lo conoscono e lo si usa un po’ in tutte le salse anche nel catechismo, a volte un po’ banalizzandolo – come quando si dice: bisogna dare tutti una mano! –, ma il paragone è un po’ più sostanzioso. Nel paragone del corpo e delle membra per Paolo si tratta di capire che ognuno nella Chiesa è chiamato a prestare il proprio servi-zio per il bene comune: non tutti fanno tutto, ma tutti sono responsabili di tutto. «La testa non può dire ai piedi: “non ho bisogno di voi”... e quelle parti che consideriamo meno nobili le circondiamo di maggiore attenzione», ogni parte ha la sua importanza. Paolo dunque non vuole appiattire la Chiesa – tutti uguali! –, non vuole fare una specie di comunismo ante litteram, ma vuol far capire che la corresponsabilità nasce proprio dalla diversità dei doni e dei carismi: ecco di nuovo il bino-mio Chiesa-comunità/ministero: se esiste la comunità, non tutti fanno tutto. Questo è il fondamento di un discorso serio sul laicato.

Il problema è poi capire chi fa che cosa; questa è la grande domanda di fondo. Paolo dice ancora nella Lettera agli Efesini (4, 7): «A ciascuno di noi è stata data la grazia nella misura dei doni di Cristo», dove con grazia si intende non la grazia che ci serve per salvarsi – quella viene data uguale a tutti –, ma la grazia che ci serve per vivere la nostra vita cristiana. Tenete presente che Paolo evita accuratamente categorie sacerdotali; quando lo fa, lo fa soltanto in riferimento alla vita dei cristiani: «Offrite il vostro corpo come sacrificio gradito a Dio» (Rm 12). È stato buffo che prima si è celebrato l’“anno paolino” (vi ricordate?) e a ruota l’“anno sacerdotale”. Quando preparavo questa conferenza pensavo: Paolo si rivolta nella tomba, perché appena sente parlar di questo gli spuntan le bolle anche sul cadavere, perché per lui proprio non si può usar categorie sacerdotali di questo genere per dividere, caso mai categorie ministeriali: allora il discorso cambia.

Leggo quello che scrive Romano Penna, famosissimo professore emerito a Roma, alla Ponti-ficia Università Lateranense; è uno dei più grandi studiosi di Paolo, anzi il più grande che abbiamo in Italia in realtà. Bene, in un suo commento in un articolo Cristianesimo e laicità in San Paolo, scrive: «Si potrebbe addirittura affermare che per Paolo non esistono neppure i laici o, al contrario, che tutti i cristiani sono laici, qualora la loro identità cristiana si misurasse in rapporto a una casta di sacerdoti che per Paolo semplicemente non esiste. Esistono però per Paolo funzioni ministeriali specifiche che non sono proprie di tutti e che hanno valore fondante [...]. Ma l’apostolo (e con lui tutto il Nuovo Testamento) non utilizza la categoria di “laico”, sia perché il termine è del greco tardivo e rarissimo, sia perché esso tende a suggerire, più che una distinzione, una separazione che non si addice ai cristiani che partecipano insieme degli stessi benefici della redenzione». Discorso piuttosto chiaro. Se volete ancora, potreste leggere un libro famosissimo del cardinale belga Albert Vanhoye, diventato cardinale a ottantacinque anni honoris causa, nominato due anni fa da Bene-detto XVI per meriti sul campo, ma non è neanche vescovo, è di quelli fatti cardinali per meriti; è stato rettore del Pontificio Istituto Biblico, dove insegno io. Il suo libro famoso è Sacerdoti antichi, sacerdote nuovo; notate il plurale: sacerdoti antichi, gli Ebrei, sacerdote nuovo, Gesù Cristo. È un’analisi della Lettera agli Ebrei in cui il Card. Vanhoye fa vedere come soltanto a partire da Cristo si può parlare di sacerdozio e allora da questo punto di vista il primo sacerdozio è quello di tutti i credenti. In Cristo tutti siamo uguali. È un bel libro di esegesi, un po’ denso; anche qui si va sul sicuro. Non voglio insistere per far credere che sono ortodosso, perché in realtà non è una questione di ortodossia, ma per far vedere che queste cose si dicono a livelli normali nella Chiesa; non stiamo parlando di teologie secondarie, stiamo parlando di cose che si insegnano in facoltà pontificie, sono cose che dovrebbero teoricamente essere ampiamente digerite anche a livello comune, poi in realtà tra il dire e il fare ci sono di mezzo tante altre cose.

Il Concilio Vaticano II: nella Chiesa diversità di ministero ma unità di missione

Da queste brevi considerazioni su Paolo nasce allora un’altra idea e cioè che non si può, come dicevo prima, rivalutare il laicato attribuendogli funzioni clericali, perché questa è una via sbagliata; si tratta allora di riprendere la stessa divisione all’incontrario. Cercare di colmare la frattura facendo diventare i laici più vicini ai preti, nel senso che possano fare di più, questa è una via che non funziona; ci sono persone che vogliono fare a tutti i costi i ministri straordinari dell’Eucarestia perché così si sentono più vicini a Dio e al prete, ma questa è una via che non funziona: se lo fanno come servizio va più che bene – ce l’ho anch’io in parrocchia –, ma se lo fanno con quell’aria di pensare: ora sono salito di livello, di uno scalino, ora sono ministro, allora, per favore, vai a casa, stai lontano…

Ecco perché nella Chiesa italiana e anche fuori all’estero non ha trovato spazio quell’idea che è nata nel post-Concilio del dare i ministeri ai laici (l’accolitato, il lettorato), perché alla fine fai delle figure istituzionali che non sono né carne né pesce e non si sa più poi dove sta il laico e dove sta il prete, per non parlare dei diaconi che, poverini, sono costretti in un limbo, senza sapere ancora se sono chierici, se non lo sono, quelli sposati valgono di meno, quelli non sposati valgono di più... Si vede proprio che c’è una carenza teologica da questo punto di vista, che non si riempie con qualche furbizia più o meno paraliturgica.

Il Concilio dice – e questa è una perla del Concilio –, nella Apostolicam actuositatem, al numero 2, a proposito dei laici: «Nella Chiesa c’è diversità di ministero, ma unità di missione». Questo è l’asse portante di qualunque teologia sul laicato. È nel Concilio questo che stiamo citando: ovvero, unità di missione, diversità di ministero. Questo vuol dire che tutti si lavora per la stessa cosa secondo ministeri e dunque cuori e doni diversi; non ci sono allora due caste nella Chiesa, ci sono diversi ministeri. Il problema è capire che cosa fa questo e che cosa fa quell’altro; questo è il nodo di fondo, ma tutti sono responsabili, ecco dove si fonda la corresponsabilità del popolo di Dio, perché tutti fanno parte dello stesso popolo, tutti sono membra dell’unico corpo che è Cristo.

Quindi, veniamo a qualcosa di più pratico: che cosa allora spetta a colui che non è ministro ordinato, che non è presbitero, cioè al 95% del popolo di Dio (forse anche qualcosina di più del 95)? Che cosa spetta dunque a tutti coloro che non hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine, tanto per essere ancora più chiari, qual è questo compito? Per molto tempo ha dominato il campo la visione tipicamente maritainiana, poi portata in Italia da Lazzati (io sono nato nell’Azione Cattolica come formazione, ci ho sguazzato dentro nella gioventù e, se vi volete divertire, la mia animatrice, quan-do facevo i campi estivi dell’Azione Cattolica toscana, si chiamava Rosy Bindi). Quindi sono cresciuto con relazioni su Maritain e Lazzati: l’idea era che il laico si occupa delle cose del mondo, il prete di quelle spirituali. Questa idea in realtà è sbagliata, con buona pace di Maritain e di Lazzati, perché crea un’ulteriore frattura. Ha avuto un grande merito in realtà questa idea, quello di permet-tere ai laici di occuparsi un po’ per bene delle cose loro, senza che i preti ci mettessero il naso: leggi la politica. Se in Italia c’è stato un Partito Popolare, è stato proprio perché c’è stata una teologia di questo genere, e allora alla fine i laici sono riusciti a conquistarsi un loro spazio, che era impensa-bile senza questo tipo di apporto di Maritain e di Lazzati. Ma in realtà questa posizione confina i laici da una parte e i preti da un’altra: il prete in sacrestia e il laico fuori; è una posizione alla fine schizofrenica, perché sappiamo benissimo che poi il laico non si muove se non ha il prete che gli dice di muoversi, perché poi la politica, lo sappiamo bene, non la fanno i laici, ma la fanno i vescovi. Quindi questa visione maritainiana non funziona perché crea ulteriori scompensi. L’unico sistema è recuperare proprio quello che ho cercato di delineare, una ecclesiologia di popolo di Dio, cioè la Chiesa vista come comunione, come comunità: è la visione conciliare.

Vi consiglio di leggere la nuova edizione di un libro vecchio di trent’anni di Severino Dianich; Dianich non ha bisogno di presentazioni, è uno dei massimi teologi italiani, l’ha ristampato proprio quest’anno, dopo trent’anni: La Chiesa, mistero di Comunione (Marietti, Genova). Se noi recuperiamo questa idea di una Chiesa come comunione, come popolo di Dio in cui vi sono molti e diversi ministeri, allora ciò che cambia tra ministri ordinati e ministri non ordinati non è il tipo di missione che ad essi spetta, perché la missione è unica per tutti, ma è la qualità di questa missione, quindi in che modo vivere l’unica missione nella Chiesa. Se abbiamo detto che unica è la missione e diversi i ministeri, il problema è chiederci come vivo io questa missione: se sono prete, da prete, se non sono prete da non prete, se sono qualche altra cosa, a seconda del dono che io ho.

Il compito del ministro ordinato

Vediamo un attimo le cose dalla parte del prete. Negli anni Settanta si è molto dibattuto il problema dello specifico del ministero ordinato: che cos’è che fa del prete un prete. Qui il dibattito è diventato accanito, siamo andati dal potere del sacro alla celebrazione dell’Eucarestia; il pendolo si è spostato diverse volte. Nella Prima lettera di Pietro («Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manife-starsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio») è l’immagine del pastore che emerge. Non a caso il vescovo porta come simbo-lo il pastorale da sempre. Quindi il compito del prete qual è? Compito del ministro ordinato e quindi del vescovo prima ancora? Non dimentichiamo che nella visione cattolica c’è il vescovo alla base di tutto; il prete da solo non ha alcun senso se non legato a una visione episcopale, la quale a sua volta è cattolica, perché il vescovo non è un isolato. Questo essere cattolici ci ha salvato dal proble-ma che colpisce le chiese ortodosse, dove ognuno è legato alla sua nazione e quindi al suo governo nel bene e nel male: la Chiesa russa è russa, quella greca è greca, quella rumena è rumena; anche le Chiese della Riforma hanno questo tipo di difficoltà. La Chiesa cattolica nel bene e nel male ha avuto invece questa prospettiva universale, non legata alla singola nazione.

L’essere pastore, allora, che cosa vuol dire? Nella visione che il Concilio offre il pastore che compito ha? Prima di tutto ha il compito di curare la fede delle persone, quindi il ministro ordinato ha come suo specifico la crescita della fede delle persone, il che significa: annunziare la parola di Dio, celebrare l’Eucarestia e guidare il popolo di Dio a crescere nella fede. Non ha altri compiti, ad esempio il compito amministrativo, economico, organizzativo – sono le prime cose che di solito fa un prete! –. Che cosa è chiamato a fare il prete? Annunziare il Vangelo, nel culto e fuori dal culto, accostare le persone, guidare le persone alla fede (quello che una volta si chiamava il “padre spirituale”). È buffo, perché la gente lo va a cercare, il padre spirituale, nello psicologo, nello psichiatra, qualche volta peggio, nelle religioni orientali, nel guru di turno, nel personaggio XY carismatico tranne che nel proprio parroco, che in generale non ha mai il tempo: non può; ma sarebbe la prima cosa che è chiamato a fare! Il compito del prete, del ministro ordinato è essere “padre nella fede”. Paolo lo dice: «Potreste anche avere diecimila maestri, ma non molti padri, perché io vi ho generato alla fede» (1Corinzi, cap. 4). Quindi, il compito del ministro ordinato è la crescita del popolo di Dio nella fede, questo è il suo specifico.

Il compito di chi non è ordinato

Dal punto di vista di chi non è ordinato, allora, qual è lo spazio che si apre?

Il ministero coniugale e la famiglia

C’è uno spazio anche a livello di parrocchia, ma lo spazio principale è quello al quale in gene-re meno si pensa: ne cito uno ovvio, che in realtà è sempre assolutamente trascurato. Nella Chiesa esistono sette sacramenti e non c’è una classifica dei sacramenti – questo è meno importante, questo si può anche non avere, tanto è uguale... –; uno di questi sette mi risulta che si chiami Matrimonio (mi pareva che esistesse, è vero che oggi è un po’ dimenticato, però esiste ancora, per lo meno nel catechismo c’è); ora, se il matrimonio è un sacramento, non è meno sacramento del sacerdozio, del sacramento dell’Ordine. Esiste allora un ministero coniugale, che nella Chiesa si proclama tanto e non si fa mai; la famiglia non è un panda da difendere; in altre parole, non si difende andando in piazza a fare il Family day o alleandosi col governo perché faccia leggi supercattoliche, non è questa la dimensione della famiglia; la famiglia si difende facendola protagonista della vita della Chiesa. Per farla protagonista bisogna che il prete scenda due o tre scalini e faccia salire le famiglie, perché fin che il prete resta lì a dire: «Io vi dico…, io vi dò…, io vi faccio...», la famiglia sta lì e che fa? Non viene, e sappiamo benissimo che la famiglia è la grande assente delle nostre parrocchie. Basta guardarsi intorno alla messa della domenica (con le dovute eccezioni, perché naturalmente ci sono anche le situazioni felici e fortunate): normalmente la famiglia non è protagonista. Ora, questo è uno spazio che spetta a chi non è ordinato, almeno finché nella Chiesa cattolica gli ordinati non sono sposati; poi, se ragionassimo all’orientale, dove anche il parroco è sposato, allora questo a maggior ragione vale anche per lui.

Stiamo all’esistente, perché è inutile fare progetti su quello che non c’è, stiamo a quello che c’è. Le famiglie ci sono nella Chiesa, questo è un dato di fatto, e sono la maggior parte. Un tempo, fino al Concilio di Trento, non si sentiva neanche il bisogno di fare il catechismo – questa è un’in-venzione successiva –, perché il catechismo si faceva in casa; la famiglia normale educava il proprio ragazzo alla fede cristiana, e anche dopo Trento, almeno fino a ora, quando un ragazzo arrivava al catechismo in realtà era già cristiano, conosceva già le cose basilari, le preghiere, i rudimenti della fede, andava in chiesa perché ce lo portavano. C’era comunque, senza dirlo, la consapevolezza di un ministero coniugale che oggi si è perso per la strada. Questo è uno spazio da recuperare, cioè dare dignità al sacramento del matrimonio nella Chiesa; dare dignità significa che, prima di parlare di famiglia, devo far parlare le famiglie; significa che il vescovo è l’ultimo che deve parlare di famiglia, perché è quello che ci capisce meno di tutti. Allora il vescovo chiami le famiglie e senta loro e poi le faccia parlare, e diventi la famiglia protagonista. È buffo che quando c’è da parlar di famiglia mandano i vescovi, e una coppia sposata non dovrebbe parlare in tele-visione? Mandano i vescovi perché questi rappresentano la Chiesa cattolica... Pensate all’efficacia che verrebbe fuori se invece parlassero i coniugi: questo è un ministero tipicamente laicale, se si vuole usare questa terminologia, sacramentale addirittura; qui stiamo parlando di un sacramento, a meno di non voler pensare, come si pensava un tempo, che il matrimonio vale di meno. Come diceva la vecchia teologia, è un remedium concupiscentiae: se proprio non ce la fai, sposati, però sarebbe meglio che non ti sposassi, come si ragionava prima (la serie B della Chiesa). Oggi lo si capisce che non è più così, però così ancora ci si comporta.

La professionalità

Un altro ambito assente e da recuperare è l’ambito della professionalità. La professionalità è un vero e proprio ministero nella Chiesa e fuori di essa. È buffo che nelle parrocchie ci sono persone che hanno fior di responsabilità a livello lavorativo e che nella Chiesa contano zero, e magari dirigono uffici, sono brave nel loro lavoro; anche quello che fa un lavoro più semplice magari è un bravo operaio che ci sa fare. Questo aspetto del ministero del non ordinato non è mai preso in considerazione. Per dire: c’è il Primo Maggio; esisterà nella Chiesa qualche figura profes-sionale di gente che davvero vive il proprio lavoro da cristiano, veramente, che è in grado di parlare di lavoro in maniera cristiana o deve sempre parlare il vescovo anche in questo caso? Non è un dogma di fede che debba sempre parlare il vescovo; parli il vescovo, ma almeno recuperi un rapporto che è un po’ perso per la strada.

L’impegno politico

Un terzo ambito d’impegno è l’impegno politico, e questo è un campo oggi disastrato, perché quella schizofrenia di cui prima parlavo ha portato a dei disastri: da una parte si è compreso che il laico ha un compito nel mondo, dall’altra però è un compito dipendente, per cui riceve sempre o attende gli ordini; se uno osa dire, come disse un politico italiano anni fa: «Io sono un cattolico adulto», lo fucilano, perché cattolico adulto o maturo significa un cattolico che pensa, ma tu non puoi pensare, devi ubbidire. Ieri facevano in televisione un filmato di Mussolini, che diceva: «Il vostro credo?», e l’intero stadio Flaminio: «Credere, obbedire, combattere!». Questo lasciamolo, per favore, al retaggio del ventennio.

Il politico cristiano deve pensare con la sua testa e allora ha un suo spazio, una sua dignità, una sua parola che deve essere ascoltata, non deve sempre aspettare dall’alto l’indicazione su quello che deve o non deve fare. Ecco allora che si recupera il compito del prete, che è quello di formare le coscienze, non di obbligare le coscienze. Io come prete non devo dirti che cosa devi fare, devo annunziarti la parola di Dio, devo farti vivere una vita di comunità, devo indirizzarti sulle vie del Vangelo, poi tu hai la coscienza e la tua dignità di battezzato, tu sei in grado di dire: «Seguo questa strada», non hai bisogno sempre di rapportarti con me per dire: «Guarda, ho fatto quello che tu mi hai detto», altrimenti torniamo al binomio clero/laici con tutti i problemi che seguono. A qualcuno piace, perché c’è gente a cui piace comandare e c’è gente a cui piace obbedire. Come diceva Dostoevskij ne I fratelli Karamazov, «alla mandria non serve il dono della libertà», cioè c’è gente a cui va bene così, sia perché è dalla parte di chi governa la mandria, sia perché gli piace pascolare tranquillamente.

La catechesi

Certamente questa è una via difficile: l’impegno politico soprattutto, la professionalità, il ministero coniugale, ma anche, all’interno della Chiesa, un ambito ovvio – e questo il Concilio ce l’ha conquistato –, l’ambito della catechesi. Oggi si comprende che il catechista non deve essere il prete o la suora; adesso la stragrande maggioranza dei catechisti sono laici e anche responsabili del loro ministero. Questo lo si è compreso ormai ampiamente. C’è da recuperare tutto lo spazio della catechesi degli adulti, che oggi è veramente la sfida, perché la catechesi dei bambini ha fatto il suo tempo; se non si punta sugli adulti, i bambini comunque li perdi per la strada. Questo è uno spazio ancora aperto.

L’amministrazione della Chiesa

Uno spazio interessante su cui Severino Dianich insiste molto, che in genere si vede meno ma che è uno spazio importantissimo, è lo spazio dell’amministrazione della Chiesa: l’economia, l’or-ganizzazione, i beni. Pensate per una parrocchia grande che cosa significa tutto questo; un parroco che sta dietro a tutto questo perde, vi assicuro, tre quarti del suo tempo in questioni di burocrazia, voi non ne avete idea. Io non credo di essere un’eccezione, ma ho un Consiglio per gli Affari economici, che è obbligatorio, tra l’altro, per tutte le parrocchie a norma di diritto, e il Consiglio per gli Affari economici tiene gli affari economici. Pensate alle cose essenziali, poi lo so benissimo che le situazioni sono diverse. Non è scritto da nessuna parte che il parroco debba tenere l’ammini-strazione, anzi è scritto il contrario, ed è in torto lui se non lo fa. Pensate che cosa guadagna un prete se si leva di mezzo tutta questa preoccupazione che non gli compete, è una cosa che non tocca a lui. Toccherà a lui dare degli input evangelici, nel senso che i soldi che abbiamo non li usiamo per fare delle gite al mare, li usiamo per attività pastorali. Se abbiamo due lire in banca della parrocchia non li usiamo per comprarci un quadro d’oro di San Pio da Pietrelcina, magari lo compriamo di legno, spendiamo un po’ di meno e con quei soldi ci facciamo il refettorio per gli extracomunitari o qualsiasi altra cosa utile. Al parroco tocca questo; ma poi, una volta stabilite le linee pastorali, non hai bisogno di star dietro ai soldi. Io sarò un parroco poco buono, ma io non so neanche quanto entra in parrocchia, perché la domenica alla messa i soldi li piglia un altro, che non sono certo io; e non li guardo io quanti sono, poi mi arriva il resoconto. È ovvio, mi fido delle persone; è altrettanto ovvio – siamo una comunità cristiana – che si parte dall’idea che la gente non diventa membro del Consiglio per gli Affari economici per mettersi in tasca cento euro. Può succedere anche questo, ma sono rischi che uno corre e in ogni caso succede anche al prete, perché poi chi controlla il prete? Siamo punto e daccapo.

La teologia

L’altro aspetto importante da definire è l’aspetto della teologia; in questo bisogna imitare la chiesa ortodossa, nella quale i teologi non sono preti, sono laici, per chi non lo sapesse, almeno la maggior parte. Nella Chiesa cattolica la teologia l’insegnano i preti; oggi grazie a Dio questo sta cambiando, ma se andate a contare quante teologhe esistono in Italia sono una trentina, forse un po’ di più: son tante, ma son poche. La coordinatrice delle teologhe italiane è una mia carissima amica; le conosco praticamente tutte, quelle che veramente contano sono pochine, poi se ci levi le suore sono ancora meno, non perché le suore non son donne, ma per dire che le suore sono facilitate, perché di fronte a un mondo di preti creano meno sospetto rispetto a una laica, magari sposata. I laici sposati sono ancora di meno a insegnare teologia. Io insegno teologia da più di vent’anni e ormai un po’ di attenzione ce l’ho. Questo è un altro spazio che spetta ai laici: pensate a una Chiesa di comunione in cui il vescovo, il parroco individua nella propria parrocchia (questo ad esempio in Germania si fa, un po’ anche negli Stati Uniti) un ragazzo o una ragazza bravi, col cervello, che hanno voglia di studiare, che ci capiscono di cose di teologia, che amano la Chiesa, gli dò una bella borsa di studio e li mando a studiare a Roma – mica preti, laici –; e li pago, non come parrocchia (perché non ce la farei, a meno che non sia una parrocchia di cinquantamila abitanti), ma come diocesi. Pensate che il Card. Martini lo faceva questo. A Roma, anche il collegio dove io abitavo, il collegio Capranica, ha una casa che si chiama Bitinia, per le donne, per le teologhe, dove vanno a studiare giovani donne che non sono suore e che non avrebbero un posto dove stare a Roma – tra l’altro Roma costa –. Inventiamo cose del genere e poi alla fine, fra vent’anni, nelle facoltà di teologia ci saranno laici preparati, seri, ovviamente pagati, perché non si può pensare che questi campino d’aria, specie se sono sposati, che esercitano un ministero nella Chiesa che non è proprio dei preti, perché anche qui non è scritto da nessuna parte che la teologia la devono fare i preti e basta, non è proprio scritto.

Mansioni pratiche

Vedete, ho già citato sei ambiti: il ministero coniugale, quello professionale, quello politico, che sono ad extra – quello coniugale è anche ad intra in realtà –, poi la catechesi, l’amministra-zione, la teologia. Guardate che cosa significa una Chiesa dove davvero i laici a vasto raggio sono impegnati.

L’ultimo esempio lo faccio prendendolo dalla Francia. La Francia ha vissuto negli anni Novanta una situazione terribile per la Chiesa. La quota dei praticanti è scesa al 4,5 % su base nazionale: 4,5 %! I battezzati sono ora sotto il 60 % dei francesi, a Parigi va alla messa il 3 % dei francesi: 3 %! Eppure la Chiesa in Francia sta ritornando a una lievissima crescita. L’anno scorso ci sono stati 9.500 battesimi di adulti: sono quelli che ritornano o che vengono perché non sono mai stati battezzati prima. Voi andate a Parigi – io ci sono stato anche di recente – e entrate in una qualunque chiesa (a parte Notre-Dame, che è un caso a parte perché è una chiesa da turisti): entrate a St-Gervais, a St-Eustache, a St-Germain-des-Prés o in altre chiese storiche nel centro di Parigi e trovate “Accueil” (accoglienza), e c’è per due ore la mattina e due ore il pomeriggio una coppia di laici o un prete o tutti e due (ci sono gli orari), che accolgono chi viene. Si parla di quello che vuoi, di problemi di fede o anche di cose materiali. Pensate che cosa significa: una parrocchia che si organizza, per cui ogni giorno, tutta la settimana… Questo vale per le grandi città – non per una parrocchia di campagna come la mia, dove ovviamente ci si conosce tutti e non c’è bisogno di questo –, per la parrocchia dove passa di tutto: turisti, gente di tutti i tipi, di tutto. Tu entri e trovi un ufficio vero e proprio, dove ci sono due signori, in genere sono persone un po’ anziane, perché durante il giorno generalmente la gente lavora, due persone formate, preparate, che ti dicono: «In questa parrocchia si fa questo, c’è quest’altro, questo problema, di questo è meglio che ne parli col prete: guarda, il prete c’è oggi dalle tre alle cinque», oppure: «Questo è il suo telefono», o addi-rittura mettono a disposizione l’e-mail del prete, perché oggi funziona così. Sono piccole cose, ma funzionano, perché la gente entra in chiesa e invece di trovare il nulla trova qualcuno – beh, qualcuno c’è sempre, c’è il Padreterno, ma a volte il Padreterno ha bisogno di mediatori umani –. Questo è per far vedere come dal teorico si può scendere al pratico e le idee poi vengono. Tutte idee che ci fanno capire come non si tratta di separare ulteriormente i preti dai laici o creare una nuova casta di quasi-preti, ma di vivere veramente il ministero che è stato dato e che tu hai ricevuto nel battesimo secondo il tuo dono particolare.

Qualche luce di speranza

Credo che la Chiesa oggi piano piano cominci a muoversi in questa direzione, perché fra tante ombre le luci ci sono. Già il fatto che di queste cose se ne parla, anche nelle facoltà teologiche, anche a livelli non dico ufficiali, ma comunque formali, è un segno che non siamo di fronte a un movimento clandestino di qualche carbonaro o di qualche comunità di base secondaria che vuol fare rivoluzione a tutti i costi, stiamo invece parlando di cose di Chiesa.