Semipresidenzialismo da rimandare

Nino Labate

da EUROPA - Commenti

15 giugno 2012

Cari amici cattolici democratici, ho seguito il dibattito che ha fatto seguito all’emendamento Berlusconi sul semipresidenzialismo. Giocato a poker senza ritegno contro la nuova legge elettorale. I limiti del Porcellum sono noti. Non c’è stata migliore definizione: una vera “porcata”. E confido in una sua urgente modifica assieme al pacchetto di riforme già in cantiere. Ma con poche speranze dal momento che in cambio è stato irresponsabilmente richiesto il gollismo francese. Su cui, presumo, la stragrande maggioranza di italiani e una parte dei cattolici sono contrari.

La domanda è la seguente: è questo il parlamento gregario che eventualmente dovrebbe essere chiamato ad approvare la riforma costituzionale e con essa la Terza repubblica? Il dibattito che ha fatto seguito, anche nella recente direzione del Pd, mi ha rincuorato: «I tempi sono lunghi… pensiamo alla legge elettorale». Avrei però preferito che si entrasse nel merito. Consapevoli infatti che si tratta di una riforma che segnerà il futuro della democrazia italiana la cui visibile crisi non rimanda necessariamente al cesarismo. Con le appartenenze ormai preda delle emozioni, e con una società educata per venti anni a curare il proprio orticello e il proprio edonismo, questo emendamento, pur mascherato di governabilità, potrà anche in seguito nascondere qualche tentazione autoritaria. Esagerazione? Può darsi. Benché la nostra cultura cattolico democratica di provenienza, rigetta qualunque forma di centralismo politico e istituzionale, privilegia la collegialità al posto del decisionismo solitario e la coscienza politica al posto della scienza politica, sono però in buona compagnia quando chiedo chiarimenti sui contrappesi, a partire dal parlamento e arrivando alla corte costituzionale, prima di affidare le redini del paese a un “capo-cocchiere” eletto dal 50% degli elettori e col 30% di consensi.
La vulgata storiografica del pensiero politico cattolico non ha mai concesso molto al suo riformismo. Molto di più al conservatorismo o al moderatismo. Quest’ultimo tornato di moda senza essere ben definito, proprio quando i ceti medi e la borghesia prendono l’ascensore in discesa. Sapete che non è stato così. Lo stesso “bolscevico” Dossetti era convinto che la Costituzione potesse essere «suscettibile di singole modificazioni o completamenti omogenei». Ma mai stravolta, o cambiata tout court, come pretendevano alcuni “saggi” riuniti in una baita del Cadore. Dossetti cercava garanzie. Garanzie che deve fornire un parlamento forte, in grado di bilanciare l’elezione diretta del presidente.
Osservo allora che sugli equilibri tra i poteri canonici della nostra democrazia costituzionale, e sui contrappesi necessari per controllare un esecutivo forte, se ne è parlato poco. Si è parlato solo (e molto) – specie a destra – dei poteri del presidente una volta eletto direttamente. Assente del tutto la funzione che potranno esercitare i cittadini governati da un presidente dotato di maggiori poteri. Dall’ultima bicamerale son trascorsi 15 anni. Un periodo di tempo i cui cambiamenti sono da paragonare a mezzo secolo di storia economica, sociale e culturale. Basti solo lo sviluppo del web e l’eurozona. Vi chiedo se a distanza di 15 anni vi sembra ragionevole pensare che un «uomo solo al comando» possa governare i cambiamenti di portata epocale che ci stanno di fronte.
Il consociativismo non c’entra. C’entra invece che nessuna formula raffinata di calcolo infinitesimale è in grado di predire quello che succederà fra soli 5 anni. Mentre al momento noi continuiamo a divertirci con il supermercato delle liste civiche – parodia del pluralismo – e con quei nuovisti del nichilismo antipolitico, della “fine della storia” e delle esperienze umane da rottamare. Tenete duro. Rimandate. Ci saranno tempi migliori per il semipresidenzialismo. Ma oggi concentratevi solo sulla legge elettorale.
Questo è il tempo di riflettere molto prima di compiere qualunque scelta.

 

Culturalmente dispersi e frammentati nel paese, nelle città e nelle parrocchie; nell’associazionismo minuto e in quello storico; nelle tante fondazioni e centri di studio, nei movimenti più o meno laici e in quelli più o meno cattolici, ci siamo illusi che questa sia la vera ricchezza del cattolicesimo democratico. Storicizzato il politico, sapete che se ciò rimane vero per il sociale, è falso per il culturale.

 

Le “mille isole felici” autoreferenziali, conducono infatti alla dispersione di intelligenze e risorse. Alle divaricazioni della ricerca. Mentre invece questo è tempo di studio, collegiale e alla pari, come suggeriva Zaccagnini. Senza nostalgie di un passato politico unito, irripetibile. Perché a questo cattolicesimo culturale l’attende un solo compito: filtrare la nobile tradizione di pensiero e prendere ciò che di buono è rimasto del rapporto fedepolitica, per consegnarlo con umiltà e senza dogmatismi alla democrazia del paese.
I media non ne hanno parlato, ma appena un paio di settimane fa un gruppo di 25 associazioni di cattolici democratici riuniti a Roma alla Domus Pacis attorno al nascente portale C3 dem, ha fatto propria la lezione di Lazzati sulla “condizione preliminare” dell’agire politico per i cristiani laici. Che «è quella del pensare». E ci stanno provando. Speriamo solo che anche in questa lodevole iniziativa non ci sia voglia di leadership e che nessuno voglia esercitare egemonia. Anche perché non hanno in testa nessun partito, nessuna lista civica e nessuna corrente. Ma proprio per questo non dovrebbero essere lasciati soli. A partire dalla riforma costituzionale da cui hanno preso le distanze.