Il rigore sulle regole non può far gridare al «complotto»

Il pasticcio delle liste specchio di un Pdl confuso

 Sergio Soave

 Le decisioni degli organismi giurisdizionali competenti hanno sancito, per ora, che nelle due regioni più popolose – Lombardia e Lazio – i "listini" capitanati dai candidati alla presidenza non possono essere ammessi al voto. Nel Lazio, allo stato delle cose, è fuori anche la lista del Popolo della libertà nella importantissima circoscrizione che corrisponde alla provincia di Roma. Può darsi che l’esame degli uffici sia stato particolarmente minuzioso e addirittura pignolo, ma dovrebbe essere chiaro che anche le formalità debbono essere rispettate, specialmente da chi non può attendersi nessuna tolleranza compiacente da un ordine giudiziario, col quale – a torto o a ragione – è notoriamente in conflitto.

Quel che non ha funzionato in modo clamoroso è l’organizzazione elettorale del Pdl, che non ha messo insieme in modo preciso le firme necessarie proprio in due città, Milano e Roma, nelle quali il primo partito italiano può contare anche sul niente affatto trascurabile seguito personale di cui godono il governatore Roberto Formigoni e il sindaco Gianni Alemanno. Si vedrà come andrà a finire con gli ulteriori ricorsi, ma tutti dovrebbero sperare che il confronto elettorale avvenga alla fine tra schieramenti in grado di scendere in campo e di confrontarsi con tutti i candidati che hanno scelto, ma se ciò non accadesse è chiaro che la responsabilità sarebbe di chi ha commesso errori e affastellato pasticci e improvvisazioni, non di chi ha deciso di sanzionarli con rigore.

L’evidente disastro organizzativo del partito di maggioranza relativa inevitabilmente acuisce i problemi politici di cui è insieme effetto e causa. Un partito che così com’è non piace ai suoi stessi fondatori, come ha detto esplicitamente Gianfranco Fini e fa capire fin troppo chiaramente Silvio Berlusconi, che infatti ha annunciato al creazione di una rete di "promotori della libertà" che ha l’aspetto di un’organizzazione correntizia di maggioranza da opporre a una che punta a nuovi equilibri interni.

È sempre un guaio quando in una struttura complessa non si riesce a unirsi nella definizione delle forme per la decisione e la selezione del personale politico, poi dividendosi com’è fisiologico su scelte e orientamenti politici che riguardano temi specifici. L’incrocio opaco tra tensioni politiche e aggregazioni personali ha creato uno stato di marasma nel quale anche gli aderenti e i simpatizzanti non riescono a raccapezzarsi. Il fatto che i problemi più clamorosi siano esplosi proprio in situazioni nelle quali esiste – o almeno esisteva – una forte rete organizzativa, com’è dimostrato dall’ampiezza del consenso elettorale ricevuto anche in recentissime consultazioni, dimostra che non c’è un deficit di partecipazione o come si diceva una volta di militanza, ma un’incapacità di dare a queste energie una espressione organizzata coerente e sufficientemente unitaria.

Comunque vada a finire si è scoperchiata una pentola e si è visto che la più forte formazione politica italiana è attraversata da crepe e fratture che ne rendono l’azione sul territorio confusa e l’orientamento generale incerto. È più di un campanello d’allarme, ma non è ancora una campana a morto: tutti i problemi si possono affrontare se li si guarda con l’attenzione e la preoccupazione che meritano, senza cercare la facile via di fuga della denuncia del solito «complotto» altrui.

 Da “Avvenire”  4 Marzo 2010