Giovani disoccupati, ma il Pd che propone?

Dal Seminario a Bose promosso da “Argomenti 2000” su «La crescita felice»

 

Alessandro Rosina

Professore dl demografia alla Cattolica di Milano

 3 Luglio 2011

da il Fatto Quotidiano


 

La rivolta dei figli contro i padri

Esiste una questione generazionale, da affrontare in Italia? A questa domanda la politica continua a rispondere in modo vago e ondivago. Per esempio, secondo il Pd la questione del lavoro deve diventare centrale, ma non quella generazionale. Questo è almeno quanto si deduce leggendo il documento “Persone, lavoro, democrazia” che ha dettato la linea della “Conferenza per il lavoro” recentemente tenuto a Genova. Vi si legge testualmente: “Dobbiamo archiviare il paradigma sbagliato e subalterno del ‘meno ai padri, più ai figli’. E un’impostazione efficace ad allontanare dal centrosinistra i padri, senza riuscire ad avvicinare i figli. Non ha senso economico, prima che politico (...) il conflitto reale, infatti non è generazionale. È sociale. Un’affermazione quantomeno discutibile, visto che negli ultimi decenni si è invece —generazionalmente parlando — tolto ai figli per dare ai padri. Su queste pagine abbiamo recentemente ricordato un passaggio di Edmondo Berselli che definiva il debito pubblico una rapina generazionale. Ma questo è solo l’esempio più evidente di un patto generazionale tradito. E un dato di fatto, ad esempio, che con le trasformazioni del mercato del lavoro e del sistema pensionistico si sia lasciato alle vecchie generazioni ciò che avevano mentre quello che mancava sia stato assegnato in eredità alle nuove. Come se nella nota parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci, Gesù avesse detto a chi ha già di tenersi il suo e agli altri di fare di necessità virtù.

Affinché, invece, il miracolo della crescita e della coesione sociale si compia serve il coraggio di rimettere in circolo tutte le risorse disponibili, In Italia l’arrocco difensivo delle generazioni prominenti ha impedito le riforme o le ha rese monche, facendo in modo che producessero effetti ma senza troppo intaccare propri diritti e risorse. Con conseguente aumento della vulnerabilità della generazione dei figli dato che la coperta era comunque stretta.

Rispetto ai coetanei degli altri paesi europei ora i nostri under 30 presentano tassi di attività notevolmente più bassi, a parità di titolo di studio. Ma più bassa tende a essere anche la qualità del lavoro e mediamente meno generose le remunerazioni rispetto ai lavoratori delle età centrali. Un aspetto, quest’ultimo, minimizzato nel documento di Genova. Gli studi della Banca d’Italia hanno messo in evidenza come il gap tra remunerazioni dei nuovi entranti e quello degli adulti si sia ampliato notevolmente negli ultimi vent’anni. Ma anche come il rischio di povertà si sia spostato dalle fasce più anziane a quelle più giovani della popolazione. La crisi, poi, ha inasprito, non ridotto come sembra far credere il documento, gli squilibri generazionali.

Secondo i dati Ocse, nei primi due anni della recessione la riduzione dell’occupazione è stata più accentuata per i giovani e meno per i lavoratori adulti rispetto a quanto si osserva in media negli altri paesi avanzati. Quello che hanno in comune la gran parte dei lavoratori precari e degli inoccupati è di essere schiacciati nella condizione di figli e di dipendere a lungo dalla famiglia di origine. La metà dei giovani italiani tra i 16 e i 30 anni vive a carico dei genitori, è il dato più elevato in Europa. I dati Istat ci dicono che la lunga permanenza nella casa paterna è sempre meno legata a fattori culturali e sempre di più a quelli economici. Le ridotte opportunità dei figli e la carenza di welfare pubblico producono costi particolarmente elevati per le famiglie di status sociale medio-basso, accentuando quindi anche le disuguaglianze sociali. Ne risulta compressa, inoltre, la mobilità sociale, forzando così i figli a non volare più in alto dei padri.

Il sistema va quindi scardinato, non aggiustato con singole misure più o meno condivisibili. Va smontato e rimontato con metodo, applicando l’equazione meno difesa dei padri e più promozione dei figli (e delle madri) ovunque serva per potenziare il ruolo delle nuove generazioni. Ma per farlo serve una politica che abbia coraggio e che non inseguo invece il consenso del crescente peso dell’elettorato più anziano, come avvenuto sinora. Un timore presente nel documento di Genova, ove si paventa il rischio di mettere in campo azioni che fanno allontanare i padri senza riuscire a far avvicinare i figli. E come porsi, per meri calcoli elettoralistici, un problema di massimo vincolato: prima tuteliamo padri e nonni e poi vediamo cosa si può fare per i giovani. Mentre le priorità dovrebbero essere invertite per un Paese che vuole crescere e rimanere competitivo sullo scenario globale. Continuando così il rischio del Pd è quello di non avvicinare i figli senza riuscire a tenersi i padri. Che il voto delle nuove generazioni possa fare la differenza è emerso in modo chiaro nelle recenti elezioni amministrative e nelle consultazioni referendarie. Il vento sta cambiando, ma attenzione a mettere le vele nella direzione giusta.