Oltre le ragioni del mercato:

un altro modello di sviluppo

 

Pier Paolo Baretta

26 Maggio 2012

intervento presentato all'Assemblea nazionale congressuale di Agire Politicamente - Roma

"Il mendicante privo di speranze, il bracciante precario, la massaia oppressa dal marito, il disoccupato incattivito o l'esausto facchino possono tutti trovare piacere in piccole cose e riuscire a sopprimere un'intensa sofferenza per la necessità di continuare a sopravvivere, ma sarebbe profondamente errato dal punto di vista etico assegnare per via di questa strategia di sopravvivenza un valore corrispondentemente piccolo alla perdita del loro benessere. 

(A. Sen - Etica ed economia) 

 

Questa intensa frase di A. Sen ben rappresenta il significato profondo del nostro ragionamento. La contraddizione è palese: la povertà assoluta esiste (e non è solo materiale: “la massaia oppressa dal marito”); come esiste quella relativa, ma la loro relazione è opinabile, come lo è stabilire graduatorie, che pretendono di essere obiettive, tra malessere e benessere.

Il problema irrisolto della economia, del mercato, delle istituzioni, ma, in primis, della politica, consiste nella difficoltà di definire, in maniera condivisa e più “giusta” possibile, il bene comune e di adottare, nelle scelte che compiamo, una visione dei processi economici e sociali, degli strumenti da adottare, dei compromessi necessari, decisamente orientati al suo raggiungimento.

In che misura una esplicita opzione etica in economia è controcorrente rispetto ad una idea, che ci appare ancora prevalente, che vede la libertà di mercato come indipendenza da regole? O, al contrario, un approccio etico all’economia si sta affermando come il solo che ci consente di uscire decentemente da questa drammatica crisi? La risposta a questa domanda non è scontata perché entrambe le opzioni sono in campo e si contendono il primato.

Dopo la caduta del muro di Berlino ed il suicidio del modello socialista è sembrato a molti che stessimo assistendo alla completa vittoria del liberismo. Per anni molti lo hanno teorizzato. Perfino autorevoli istituzioni quali la Banca mondiale ed il Fondo monetario, hanno imposto ricette liberiste alle nascenti economie lasciate in balia della nuova globalizzazione dalla fine del blocco comunista.

È stata una illusione ottica, durata ben poco. Le crepe del modello capitalistico sono emerse in tutta la loro profondità e la crisi che stiamo attraversando le ha acutizzate. Al tempo stesso, la globalizzazione ci apre scenari inediti. I modelli emergenti rappresentati dai paesi del Brics ci consegnano non un capitalismo, ma più capitalismi, taluni con forti accenti populisti (il Brasile, che, però, è il solo paese al mondo nel quale in questi ultimi anni si sono ridotte le disuguaglianze), altri (come la Cina e la Russia) addirittura non democratici, contravvenendo al paradigma che teorizza un legame indissolubile tra il capitalismo e la libertà.

Nel frattempo, l’Occidente - il ricco, opulento, stanco, caro (sotto entrambe le accezioni del termine: affettiva e quantitativa!) Occidente - invecchia e fatica a garantire ai propri cittadini i livelli di benessere e di welfare raggiunti.

E, l’Europa, mentre è chiamata a fare i conti, probabilmente, con la fine di un ciclo storico, resta abbarbicata a piccole, grandi gelosie territoriali, non riesce a fare gli Stati Uniti d’Europa, mentre i suoi Stati Nazionali sono schiacciati dai debiti sovrani, cioè dalla loro insolvenza e, potrebbero, addirittura, fallire come una qualsiasi società per azioni.

E’, dunque, uno scenario totalmente aperto quello che abbiamo di fronte a noi. Un mondo nuovo che non può essere retto da schemi vecchi.

Anche il mercato è al centro di questa riflessione. Considerato il principale colpevole dei nostri guai, soprattutto il mercato finanziario ha preso in mano le redini del gioco. Il predominio della finanza ha cambiato la natura stessa del mercato e dell’imprenditore, del capitalista e del risparmiatore. E, se, ha, positivamente, introdotto il concetto di “valore”, ampliando la visuale rispetto a quello ristretto di profitto, ha messo nell'angolo il ruolo regolatore della politica, delegandogli, al più - attraverso il copioso e reiterato salvataggio delle banche - quello di finanziatore dei... finanziatori.

Ma in fin dei conti, cos’è questo mercato? Percepito e trattato, in generale, come una entità astratta e quasi metafisica, misteriosa ed impalpabile, altro non è che la somma di tanti comportamenti individuali e collettivi. Per cui ho l’impressione che più che parlare del “mercato” dovremo, innanzi tutto, parlare di noi. Dei banchieri, più che delle banche, degli investitori più che delle transazioni, dei risparmiatori più che dei depositi.

Certo non tutti i poteri sono uguali: il singolo pensionato che investe i suoi risparmi non ha la stessa responsabilità del grande finanziere, ma il punto è che il mercato non vive ed opera in una sorta di limbo democratico, ma agisce in nome e per conto degli input che gli diamo noi…

Se il mercato appare spesso come un sicario, i mandanti siamo noi.

Anche il mercato, quindi, ha le sue ragioni! Certo, sono ragioni che…il cuore non conosce, ma sono pur sempre ragioni, motivazioni, alibi, scuse (chiamatele come meglio vi pare). Per quanto opinabili, controverse, scomode, è opportuno comprenderle. Tanto più se vogliamo…andare oltre!

Che fa il mercato finanziario? Beh, quando non fa il cattivo, crea valore; cioè accresce le disponibilità finanziarie ed economiche complessive, finanzia investimenti, favorisce la loro redistribuzione. Insomma sostiene l’altro mercato: quello delle merci, dei capitali e delle risorse umane. In tal modo, fa crescere l’economia ed il benessere. Che questa crescita poi sia a vantaggio di pochi o “pro multis” è un aspetto che dovrebbe interessare più alla politica che al mercato.

Cominciamo col dire che questo è il vero ruolo che spetta alla finanza. E che, in quest’ottica, ce ne vorrebbe di più di finanza, non di meno.

Quando Mohamed Yunus la incontrò, Sufia Begum si procurava le materie prime per produrre sgabelli con un prestito di 20 centesimi ottenuto dagli stessi che poi si comperavano gli sgabelli a 22 cent. Yunus si rese conto che l’assenza di credito rendeva quella donna una schiava ed avviò il microcredito. In un decreto di qualche settimana fa lo abbiamo, finalmente, legittimato anche in Italia.

Un mercato virtuoso è dunque possibile. I fondi previdenziali e sanitari dei lavoratori; il commercio equo e solidale, i gas o Km zero o le cooperative di produzione e di consumo, le Banche etiche o di credito cooperativo, il no profit, sono tutte tessere di un mosaico importante. E’ un errore viverle con un approccio minoritario o di nicchia, come talvolta capita agli stessi promotori.

Per secoli, dai templari ai francescani, dai benedettini alla rivoluzione industriale, i soldi servivano a finanziare imprese e lavoro. Anche guerre, in verità, ma sempre attività e cose. E’ con i primi del ‘900 e, soprattutto con la prima guerra mondiale che avviene la inversione dei ruoli. La finanza si rende autonoma dallo scopo per il quale è nata e si gioca la partita in proprio e si apre un’epoca nella quale si consolida l’idea che oltre che col lavoro, i soldi si fanno con i soldi.

La tentazione si fa forte ed ecco che, quando il mercato deborda, diventa cattivo e, come tutti i cattivi che si rispettino... specula! Approfitta, cioè, degli errori e delle debolezze altrui per guadagnarci. Questa devianza è il volto che il mercato finanziario ha mostrato ai nostri occhi, soprattutto in questi ultimi anni di crisi drammatica.

Si tratta, come ho detto, di una devianza, ma non di una eccezione; bensì di una componente strutturale, fisiologica della natura del mercato. Come, nella natura umana, lo sono il bene ed il male, la salute e la malattia.

Ci sono momenti nella Storia (e, ahimè, nemmeno tanto rari) e nella vita delle persone, nei quali un concentrato di condizioni culturali, sociali, economiche, politiche, ambientali e fisiche, si aggroviglia, fa corto circuito, e le energie negative prevalgono. Basta pensare alle guerre, alle dittature, alle epidemie.

Una volta si pensava che fossero fenomeni di origine sovrannaturale, un castigo divino. Poi si è capito che le dipendevano dal disordine economico o politico, dalla bramosia o dalla sete di potere, dalla debolezza delle strutture di rappresentanza degli interessi e delle opinioni (la Democrazia!), dalle condizioni ambientali.

Sicché, per prevenire, arginare o concludere i conflitti si è, sempre, ricorso ai trattati o agli scambi commerciali (o matrimoniali) o alle elezioni; mentre per debellare le malattie o contenerne i disastri, talvolta bastavano nuove e buone pratiche igieniche e più rispetto per l’ambiente.

E’ così anche per il mercato. Ci sono situazioni, come quelle descritte, nelle quali le energie negative prevalgono e producono (come è elegantemente scritto nelle scatole di medicinali) degli “effetti indesiderati”.

La crisi dei tulipani nell’Olanda del XVII secolo (la prima bolla del sistema finanziario moderno), quella del 1929, e, più di recente, la Thailandia, l’Argentina, ora la Grecia… sono tutti effetti indesiderati, ma ricorrenti.

Soffermiamoci un momenti sui tulipani. Introdotti in Olanda dalla Turchia nella seconda metà del ‘500, furono ben presto considerati dei beni di piacere e di lusso. In una società che si arricchiva (non dimentichiamo che l’Olanda era una delle più importanti potenze coloniali!) crebbe una specie di…tulipano mania. E, i prezzi salirono. Le coltivazioni si diversificarono e venivano proposti al mercato sempre nuovi prodotti, dai colori sempre più sgargianti e dai nomi sempre più esotici (vengono in mente i telefonini o i tablet…). Attorno al 1630 un bulbo poteva valere 7 volte di più del reddito medio annuo, Furono quotati in borsa, scambiati con case e terreni, Si impegnavano i raccolti prima ancora della semina (una specie di futures ante litteram!). Ma, all’improvviso, senza un motivo apparente, se non la saturazione generale, nel febbraio del 1637 il prezzo smise di salire. I commercianti, allora, cominciarono a vendere ed il prezzo scese. Fu il panico ed il prezzo crollo, In poco tempo molte persone, famiglie, società possedevano quantità di tulipani che valevano molto meno del prezzo al quale li avevano acquistati, o perché avevano impegnato cifre enormi per acquistare tulipani che ormai non valevano quasi niente. In molti furono rovinati. E, come se non bastasse, ci fu una specie di beffa, o se volete, di morale finale, perché tutti i tentativi di far rispettare i contratti di acquisto o di vendita definiti prima della bolla, ai prezzi regolarmente contrattati, furono respinti dai giudici, i quali considerarono tutte le transazioni speculative come assimilabili al gioco d’azzardo, e dichiararono i contratti inesigibili.

Insomma, il mercato finanziario, quando si incarta, si comporta , più o meno, come… la calunnia, nella impagabile descrizione che ne viene fatta nella famosa aria del barbiere di Siviglia di Rossini: “si introduce lestamente nelle orecchie della gente… e le teste ed i cervelli fa stordire, fa ronzar… dalla bocca fuoriuscendo lo schiamazzo va crescendo,… si propaga e si raddoppia e, alla fin, trabocca e scoppia e diventa un’esplosione… un tremuoto, un temporale, un tumulto generale che fa l’aria rimbombar”.

E che succede la nostro risparmiatore? La conclusione è nota: “e il meschino calunniato (noi potremo dire gabbato, derubato, complice, …), avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte va a crepar”.

Ecco che, si fa fatica a distinguere tra verità e calunnia. Tra il mercato creatore di valore e il mercato distruttore di valore. Molto dipende dalla confusione tra banche di investimento e banche di affari (che ha cambiato la natura del banchiere), e dell’intreccio tra finanza e produzione (che ha cambiato la natura stessa del capitalista e dell’imprenditore).

Ma, distinguere è necessario, perché è molto probabile che una bolla speculativa, cioè una anomalia rispetto ad un normale comportamento economico, si gonfi perché trova un ambiente favorevole, l’ossigeno giusto che la alimenta. Questo “brodo di coltura” (per richiamare una espressione che fu utilizzata in Italia, molti anni fa, proprio per descrivere le condizioni ambientali che consentivano e favorivano il formarsi di un fenomeno del tutto anomalo quale il terrorismo…) è, come abbiamo detto, rappresentato dai comportamenti individuali e collettivi dei risparmiatori, degli investitori e dei decisori.

Se i comportamenti dei primi sono irrazionali, troppo opportunistici o, addirittura fideistici o ingenui e quelli dei decisori (cioè gli Stati, le Istituzioni a tutti i livelli - non dimentichiamo che, ormai, una elezione nel Nord Westfalia ha una valenza europea! - i governi, i Parlamenti, le banche centrali, i sindacati, le imprese e… alla via così) sono lenti, incerti, subalterni, o addirittura complici, gli speculatori sguazzano, ma anche gli operatori finanziari onesti, che sono tanti, vanno in tilt.

Il nostro problema, perciò, potrebbe non essere tanto quello di andare oltre il mercato, in sé, ma di favorire il mercato quando produce liberi e utili scambi e di stopparlo quando produce virus.

La prima questione che si pone, dunque, è la governance, cioè la inadeguatezza del sistema di regole che definisce gli ambiti per i comportamenti dei soggetti e degli attori economici e sociali.

Il punto, infatti, su cui bisogna davvero avanzare nel pensiero (e nell’azione) sta nel ridefinire il logorato rapporto tra democrazia politica e democrazia economica. La democrazia politica che impariamo nei testi e troviamo scritta ed organizzata nelle nostre carte fondative e pratichiamo (il diritto al voto, i diritti civili e sociali) non basta più per governare, non soltanto le turbolenze dei mercati, o i conflitti sociali, ma la stessa quotidianità economica.

La questione, più in generale, della governance democratica è, per una nuova politica liberale e riformista una delle grandi priorità da affrontare, che non si risolve nel controllo redistributivo, nella famosa “tosatura della pecora”, nella “giusta mercede”, ma in un protagonismo non subalterno che mette al centro il progetto partecipativo. Democrazia economica e partecipazione sono, dunque, il terreno su cui ripensare allo sviluppo capitalistico futuro.

Quando all’inizio di questa straordinaria crisi, nel 2007, ci siamo guardati attorno sbigottiti e preoccupati, abbiamo ascoltato le voci più autorevoli, anche quelle di chi una grande responsabilità l’aveva avuta nel provocarla la crisi, levarsi e dire, con sicurezza che da questa crisi ne saremo usciti tutti diverse, che ci voleva una nuova governance mondiale… Ebbene, siamo sinceri, cosa è successo in questi 5 anni? Il sistema bancario sembra più pentito di averci pensato che di quanto è successo, tant’è che molti prodotti continuano a essere collocati con la stessa logica di prima, cioè disancorati dalle dinamiche della cosi detta economia reale (dunque, esiste una economia irreale!).

I vari G8 e G20 se ne sono occupati e Draghi ha presieduto un gruppo di lavoro che ha prodotto delle proposte, ma in pratica si è fatto poco o niente.

Il Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace ha titolato il suo ultimo documento in maniera significativa: “Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale”. Obiettivo necessario ed urgente perche: “è in gioco il bene comune dell’umanità ed il futuro stesso”.

Ne consegue che va approntata una nuova teoria della Autorità pubblica. Stato amico e “facilitatore”, versus i due eccessi di Stato minimo, cioè di fatto assente, che lascia i cittadini senza protezioni e difese, o Stato totalizzante, che pensa di dover impedire ai cittadini anche di… sbagliare.

Anche perché, quando parliamo di welfare, dobbiamo tenere presente che, con le nuove tendenze demografiche, la “mano pubblica” da sola non ce la farà ad assolvere la crescente domanda di servizi sociali. Sicché la sussidiarietà è un valore decisivo per affermare una efficace strategia post crisi.

Facciamo due esempi, uno di un comportamento individuale, l’altro di un comportamento collettivo o istituzionale. Quando un singolo cittadino, un pensionato o un impiegato, che ha a disposizione qualche migliaia di euro risparmiati, o un imprenditore o alto funzionario, che dispongano di qualche risparmio in più, vanno in banca per far fruttare i loro soldi tendono (ancora oggi, nonostante le scottanti recenti esperienze) ad affidarsi a quanto gli viene offerto. E siccome il mondo è fatto di santi e di peccatori, la tentazione, come si è visto nel formarsi di questa lunga crisi, è forte… Solo un solido sistema di regole e controlli consente di impedire l’abuso.

In ogni caso, quand’anche ci trovassimo di fronte un interlocutore responsabile, ciò che gli chiediamo è quanto ci rende quell’investimento, quanto ci guadagniamo, non dove vengono investiti i nostri soldi. Poco imposta se, nella lunga catena delle transazioni, i propri soldi vadano a finanziare delle dittature o dei progetti umanitari, delle fabbriche tossiche (nel vero senso del termine!) o delle ricerche sul cancro, e così via, non è oggetto dell’investimento.

Si è così formata la figura di quello che io definisco il “capitalista anonimo”; nel duplice senso di non sapere di esserlo (pensarsi come un risparmiatore che non ha responsabilità, ma è solo vittima di un mercato di cui è, invece, involontario protagonista) e di essere, come l’alcolista, fagocitato nei suoi comportamenti e prigioniero di un sistema… malato.

E’ interessante notare, perché più pertinente come esempio rispetto al nostro argomento, che la stessa condizione di schiavitù si sta avendo nella perversa diffusione di massa del gioco d’azzardo, quello on line, ma, soprattutto, in quello delle macchinette presenti, ormai, in tutti i bar di periferia; un fenomeno che provoca gravi dipendenze ed impoverimento.

Eppure, in questi giochi non c’è niente di illegale, anzi è lo Stato che incentiva.

Il secondo esempio. Una grande azienda, o perché gli amministratori sono dei ladri o perché è in crisi di liquidità fa delle operazioni illegali: usa i fondi pensione dei propri dipendenti (tutto cominciò più o meno così, ricordate la Enron?), o falsifica i bilanci (la Parmalat), o si muove su un terreno del tutto legale, inventandosi delle fusioni e degli scorpori (le scatole cinesi), assume tutto il personale con contratti precari, indipendentemente dalle mansioni svolte. Oppure, uno Stato che per sostenere una spesa pubblica senza controlli si indebita per anni e per sostenere il debito emette bot e cct, indebitandosi ancora di più.

Bene, ad un certo punto, oltre una certa misura, quando si viene a sapere tutto ciò, i lavoratori gabbati si arrabbiano, i giudici si attivano, i cittadini si preoccupano… cresce, cioè, la sfiducia.

E’ il momento in cui il mercato, questa astratta entità, che poi non è altro che l’insieme di tutti noi, con un gruppo di privilegiati in prima fila, col telecomando in mano, si agita, diventa… turbolento. Se ci va bene, si impaurisce, si ritira, attende; ha cioè un comportamento depressivo. Se ci va male decide di approfittare dei nostri guai; assume, cioè, un comportamento speculativo. E’ probabile che faccia entrambe le cose.

Perciò, possiamo dire che, sia nella versione positiva (la creazione di valore), sia in quella negativa (la distruzione di valore), la principale caratteristica del mercato finanziario è che reagisce a degli input, come un sonar.

Chi ha visto quel gran film che è “Caccia ad Ottobre rosso” ricorda la frase che Bart Mancuso, il Comandante del sommergibile americano Dallas, a caccia dell’Ottobre rosso, rivolge al suo addetto alle comunicazioni: “Mi stai dicendo che un radar modernissimo e super tecnologico, che costa tutti questi dollari, non distingue tra un fenomeno naturale ed una balena?”.

Così, anche il sofisticatissimo mercato non distingue tra una spesa pubblica eccessiva causata da spreco o mala gestione da quella derivata dalla erogazione di pensioni e sussidi. Reagisce al debito.

Non distingue se riduci i tuoi consumi perché sei in difficoltà e bisognoso di aiuto perché hai perso il lavoro, ti è capitata una disgrazia, hai una pensione troppo bassa, o perché sei irresponsabile e ti sei mangiato il patrimonio. Reagisce al rischio di insolvenza. E così via.

Può darsi, dunque, che, come il computer di bordo del sommergibile Dallas di Mancuso, il mercato sia, contemporaneamente, abilissimo e stupido (non è vero!). Fatto sta che sono decisivi gli input che gli diamo. Da questa riflessione i comportamenti del mercato non ne escono assolti, ma si fa strada una tesi più complessa che toglie a noi i nostri alibi.

Per dirla grossolanamente: le ragioni del mercato sono i nostri torti.

Ecco che la seconda questione che si pone è che un sistema di regole non basta se non è accompagnato da una nuova mentalità economica.

Una parte del mondo vive da anni al di sopra delle proprie possibilità di produzione, di spesa e di consumi, mentre un’altra parte stenta a campare. La debolezza di chi governa (destra e sinistra), ma non solo, anche dei sindacati, delle imprese, è stata quella di non capire per tempo che la globalizzazione, indotta soprattutto dalla possibilità di comunicare in tempo reale e dalla relativa facilità di trasportare ovunque merci e persone, ha allargato la famiglia umana, mettendola tutta seduta allo stesso tavolo.

Si racconta nelle nostre campagne che, solo qualche decennio fa, nelle famiglie povere, quando veniva versata in mezzo al tavolo la polenta fumante, poiché le bocche da sfamare erano di più del cibo disponibile, la funzione della breve preghiera di ringraziamento fosse non solo religiosa, ma anche, come per molti precetti, sociale; far sì, cioè, che l’assalto fosse regolato, tutti fermi come ai blocchi di partenza di una gara e l’Amen era… il colpo di pistola. Un po’ come la famosa scena della pastasciutta in “Miseria e nobiltà”.

Ebbene, mano a mano che al tavolo globale si presentano sempre più popoli che, per giunta, crescono di numero (abbiamo ormai superato da qualche mese i 7 miliardi di viventi), la questione alimentare (così come quella dell’acqua, dell’energia, della sanità) ha assunto proporzioni drammatiche e sta diventando una principale questione politica.

Al contempo, bisogna interrogarsi sulla natura e la portata delle crescenti disuguaglianze. Viviamo in un mondo contraddittorio: da un lato si riduce, in termini assoluti, la povertà. Ma, al tempo stesso si allarga la distanza tra i poveri e i ricchi. Il 10% della popolazione mondiale possiede il 90% della ricchezza; l’Italia è a metà strada: il 10% possiede il 40%!

Però, la disuguaglianza, oggi, non è solo una questione di giustizia redistributiva, ma anche una componente fondamentale di una nuova teoria della crescita. Nel mondo globale, dove tutti siamo interattivi con gli altri, quanto costa mantenere pesanti sacche di disuguaglianza?

Quanto, dunque - dobbiamo chiederci - la disuguaglianza è un limite alla crescita e non, come si poteva pensare, un suo moltiplicatore, sia pure iniquo? La questione della riduzione della disuguaglianza, dunque, non è solo un problema etico, ma economico, che diventa tanto più importante se consideriamo che non avremo, almeno in occidente, davanti a noi una crescita continua e progressiva.

Pensiamo davvero di poter tener fuori dal gioco milioni di poveri? Di lasciar crescere impunemente le disuguaglianze? Di tutelare, rinchiudendoci in casa, i nostri territori ed il nostro benessere? C’è ancora chi pensa che il problema sia evitare la società multietnica, anziché gestire il traffico.

Ci si pongono, allora, domande inedite, che trasformano cruciali questioni etiche in vere categorie economiche. Noi sappiamo che è più giusto essere generosi che egoisti. Ma la questione, ormai, non è più soltanto se è giusto (aspetto etico che emoziona una minoranza), ma se è più produttivo, conveniente, efficace essere egoisti o solidali? Se, non sia, addirittura, necessario, pena la sopravvivenza.

Questo approccio economico stabilisce nuove graduatorie e imposta un nuovo modello di sviluppo. Forse, adottandolo, non diventeremo più buoni, non dipende da ciò, ma staremo meglio un poco tutti, il che è molto utile se vogliamo ridurre i rischi di conflitti che più per i confini saranno per i beni naturali.

Rileggiamo da questo versante ed in questa ottica la questione greca. Pensiamo davvero che lasciando fuori la Grecia dall’Europa, avremo risolto il loro ed il nostro problema? O non avremo, semplicemente, allargato l’infezione? Le colpe della Grecia sono chiare: bilanci truccati, incapacità di piani di austerità condivisi; ma le ricette richieste sono dei salassi che uccidono. E chi le ha proposte le ricette se non la Comunità europea?

Una domanda: se vostro Padre, o vostro nonno, fossero in difficoltà, quand’anche responsabili di aver dissipato il patrimonio di famiglia, li abbandonereste ad un destino di fame e di stenti? Non credo! Ecco, vediamola da questo punto di osservazione, non economico, ma etico, la vicenda greca.

L’Occidente e gli Stati Sovrani democratici, come quelli Europei, che lasciano crepare lo Stato che ha inventato la Democrazia, che, di fatto, è ancora “padre”, o…” nonno”.

Tutte le colpe dei mercati non valgono, talvolta, la miopia della politica.

Ma una prospettiva di questo tipo può essere fondata su un meccanismo economico di crescita continua, come fino ad un certo punto è sembrato possibile, o non pone anche un vero problema redistributivo? Personalmente sono molto prudente quando sento parlare di decrescita, perché, fino a che c’è una persona da sfamare (e, purtroppo, ce ne saranno per un bel po’ ancora!) penso che bisogna crescere. Ma quale crescita? Per quali modelli, consumi, relazioni?

Si pensi soltanto alla questione dello spreco. Cito solo tre esempi clamorosi del nostro vivere quotidiano. Lo spreco alimentare, quello energetico e quello idrico.

Tutto ciò induce ad una considerazione solo apparentemente tecnica: ma i nostri strumenti di misurazione della realtà economica sono adeguati a questa complessità? No. Una revisione del principale strumento di misura, il Pil, è, ormai, oggetto di una serissima discussione scientifica che ha trovato nella commissione voluta da Sarkozy e composta da Fitoussi, Strigliz e Sen un punto di eccellenza. In Italia vi stanno lavorando la Camera dei Deputati, con una indagine conoscitiva, il Cnel, l’intergruppo parlamentare per la crescita e la finanza sostenibile ed l’Istat, con il suo Presidente, Giovannini.

Eccoci, dunque, alla conclusione, che è, poi, il cuore del problema che volevo proporvi. E, cioè che - da quanto detto finora risulta, mi pare, abbastanza evidente - il mercato è, oggettivamente, meno importante delle persone, delle Istituzioni, degli Stati, delle associazioni collettive di rappresentanza degli interessi, della politica. E, a ben vedere, tanto più se ci fosse una coalizione tra tutti, anche meno potente.

Eppure la percezione generale è un'altra e si fa fatica a ristabilire le graduatorie. Questo è il problema che abbiamo e che dobbiamo risolvere. Alla sua soluzione dobbiamo dedicarci tutti: singoli, comunità, Istituzioni.

Noi ne abbiamo indicato alcune: nuova mentalità e nuove regole. Cioè, più democrazia e più partecipazione; più trasparenza e più controlli; più libertà e più solidarietà; più sobrietà e più sussidiarietà; più crescita e più redistribuzione. L’elenco può allungarsi, ma il senso è chiaro: più etica e più responsabilità.

La mia opinione è che, diversamente dal passato, come ho cercato di dire, tutto ciò non appartenga solo alla sfera morale, ma, visti gli snodi che la globalizzazione ci presenta, sia una scelta economica e politica obbligata. Essere, almeno un po’, migliori non è una opzione, ma una necessità, se vogliamo assicurare un futuro ai nostri figli.

Ce la faremo? Si, perché, come dice Keynes, presto o tardi, ad essere davvero pericolose, nel bene e nel male: “sono le idee e non gli interessi costituiti”.