Mirafiori: un accordo a tre stadi e il suo tallone d’Achille


Luigi Mariucci

28 dicembre 2010

L’accordo di Mirafiori va osservato a tre livelli.

Il primo riguarda la disciplina delle condizioni di lavoro. Si tratta di una regolazione dura, tutta centrata sulla esigenza della massima utilizzazione degli impianti: le turnazioni mobili, la riduzione delle pause, lo straordinario comandato ecc. Qui la critica può essere più di tipo sostanziale che formale: c’è una idea della produttività tutta fondata sull’utilizzo intensivo della prestazione di lavoro. In tema si può segnalare un solo profilo di legittimità: l’ipotizzata estensione delle clausole anti-assenteismo, dirette a ridurre l’indennità economica di malattia, anche agli impiegati a cui una antica legge (la legge sull’impiego privato del 1924) assicura invece la retribuzione integrale a carico del datore di lavoro.

Il secondo livello riguarda il tema del diritto di sciopero. Qui sarebbe necessario che i contraenti chiarissero se la clausola sulla “responsabilità individuale” riguarda l’inadempimento di specifici obblighi previsti dal contratto (quale la prestazione di lavoro straordinario) o lo sciopero tout court. In questo secondo caso la clausola sarebbe illegittima, per violazione dell’art. 40 cost, dato che lo sciopero è considerato dalla migliore dottrina un “diritto individuale ad esercizio collettivo”, formula definita da Gino Giugni “un dogma fondato sulla ragione”, un diritto quindi che in alcun modo può essere monopolizzato da singole organizzazioni.

Il terzo livello riguarda il sistema delle relazioni industriali. Questa mi pare la parte più claudicante dell’ambizioso disegno. Infatti l’accordo Mirafiori  si presenta per un verso come un accordo aziendale, proponendosi quindi come modello di una aziendalizzazione dei rapporti contrattuali. “All’americana”, si dice. Trascurando il fatto che negli USA  il sistema è da sempre aziendalistico, fondato sul monopolio del sindacato aziendale che ottiene con referendum il riconoscimento di esclusivo agente negoziale, mentre in Italia e in Europa i sistemi contrattuali prevedono  sempre, in forme diverse, una cornice negoziale di tipo nazionale. Altre volte invece si invoca, altrettanto a sproposito, il modello tedesco dove la contrattazione aziendale non è mai esistita, i contratti collettivi sono regionali ma negoziati sotto la direzione di un unico sindacato nazionale, e i recenti accordi aziendali di tipo adattivo sono negoziati all’interno di un sistema di relazioni industriali  coeso sul piano nazionale e nell’ambito di una disciplina della cogestione introdotta mezzo secolo fa. Per la quale nelle società per azioni i sindacati hanno una rappresentanza paritaria nei consigli di sorveglianza e nelle aziende i lavoratori eleggono consigli aziendali investiti di molteplici compiti, tra cui si segnala quello di autorizzare i licenziamenti individuali. Al tempo stesso l’accordo Mirafiori ipotizza la stipula di un futuro “contratto dell’auto”, da applicarsi a tutte le imprese dell’indotto: questo sarebbe allora un nuovo contratto nazionale di settore. Si tratta evidentemente di due prospettive diverse.

Infine la questione più rilevante dal punto di vista sistemico riguarda la rappresentanza sindacale e i diritti sindacali. Secondo l’accordo Mirafiori non esiste più una rappresentanza sindacale unitaria elettiva. I diritti sindacali vengono usufruiti dai sindacati firmatari in termini paritari, a prescindere dalla rappresentatività effettiva. Questo è l’aspetto più inquietante dell’accordo. A Mirafiori non ci saranno più rappresentanze elette dai lavoratori ma cinque r.s.a. di Fim, Uilm, Fismac, Ugl e associazione dei quadri Fiat, nominate dagli stessi sindacati firmatari dell’accordo, le quali godranno paritariamente dei diritti sindacali in termini di permessi, agibilità in azienda ecc. La Fiom resterà fuori e diventerà una organizzazione sindacale extra legem, non riconosciuta e non titolare di alcun diritto sindacale. Tutto questo è  legittimo rispetto alla dizione letterale dell’art.19 dello Statuto dei lavoratori, come modificato da un demenziale referendum promosso nel 1994, naturalmente “da sinistra”, con l’idea di allargare il campo di applicazione dei diritti sindacali. Si realizza la classica eterogenesi dei fini, segnalata a suo tempo tra gli altri da chi scrive. L’esito consiste in uno straordinario paradosso: in base all’art.19 dello Statuto hanno diritto a costituire proprie rappresentanze i sindacati firmatari di contratti collettivi applicati nei luoghi di lavoro; poiché i contratti collettivi si firmano in due ne consegue che sono le imprese a decidere, ammettendoli alla contrattazione, chi sono i sindacati titolari del diritto a costituire proprie rappresentanze in azienda. Poiché la Fiom non ha sottoscritto il contratto ne consegue che la Fiom è esclusa dall’esercizio dei diritti sindacali in azienda. Mentre di tali diritti godono pienamente la UGL, erede della ex-Cisnal sindacato a suo tempo collegato al nostalgismo fascista, e la Fismic  derivazione dell’ex sindacato aziendale “giallo” del Sida. C’è di che rievocare la disposizione di cui all’art.17 dello Statuto dei lavoratori, dove si dice che “è fatto divieto ai datori di lavoro di costituire o sostenere , con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori”. C’è soprattutto da chiedersi per quale conseguenza di errori la Fiom sia riuscita a farsi incastrare in questo modo e a mettersi in un angolo dal quale non potrà uscire se non impegnandosi in uno sforzo propositivo e rinunciando all’idea che la proclamazione di un ennesimo “sciopero generale” sia la formula risolutiva, specie considerando il dubbio successo del  ricorso ai rapporti di forza nelle condizioni date.

Ciò non toglie che l’esito appena descritto sia non solo paradossale ma in sé irrazionale, e al fondo illegittimo, per il contrasto con i principi di fondo sanciti dalla costituzione, all’art. 39,  in riferimento sia al primo comma, relativo alla garanzia della libertà e del pluralismo sindacale, sia al secondo comma, che sancisce un meccanismo comunque proporzionale di verifica della rappresentatività sindacale. Perciò l’operazione Mirafiori non funzionerà. Per molti motivi, ma specialmente perché il suo effetto sistemico sarebbe devastante: l’anarchia delle relazioni contrattuali, la riduzione dei rapporti di lavoro a puri rapporti di forza. Qui vedo il vero tallone d’Achille dell’accordo Mirafiori. Anche perchè in quell’accordo c’è una clausola secondo cui i lavoratori verranno trasferiti alla nuova joint venture mediante licenziamenti e riassunzione, escludendo la disciplina dell’art. 2112 del codice civile sul trasferimento d’azienda. Ma chi ha mai detto che quella disciplina, per di più di derivazione comunitaria, sia derogabile a piacimento?