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La margherita, la federazione, l’unione negli scenari della politica italiana

Seminario estivo Passo della Mendola 2005

Passo della Mendola 2005

Alberto Monticone

            Il sistema politico italiano registra oggi un profondo mutamento della natura dei soggetti politici: pur persistendo la presenza di partiti, e persino in numero maggiore rispetto alla stagione da essi caratterizzata (cfr. Scoppola, La Repubblica dei partiti), prevale la forzata invenzione di nuove rappresentanze della volontà popolare.

Non sono però gli elettori a determinare con la loro voglia di futuro la nascita di poli, federazioni e altre aggregazioni politiche; essi assistono piuttosto, quasi da spettatori, a ciò che va elaborando il ceto politico e sono poi chiamati ad approvare al modo del coro della tragedia greca. È vero che sono sempre le élites a guidare il cambiamento in democrazia, tuttavia pare difficile ritenere che l’attuale classe politica dirigente sia l’interprete autentica delle aspirazioni popolari delle quali vorrebbe (e dovrebbe) essere l’avanguardia. Nel centrosinistra si nota un chiaro allontanamento dalla sua capacità di porsi in ascolto dei cittadini e di agire con loro, che aveva segnato positivamente la nascita dell’Ulivo dieci anni or sono. La crisi del ’98 e la successiva sconfitta elettorale del 2001 hanno segnato la rottura dell’intesa con la sua base, rottura che invano le forze del centrosinistra – quelle che si erano unite nell’Ulivo – hanno cercato di superare con formule organizzative che talora hanno avuto effetti del tutto diversi da quelli sperati. Dal 2001 ad oggi la maggiore preoccupazione del centrosinistra è stata quella di contrastare la frammentazione, sia in vista di una più efficace opposizione al governo di centrodestra sia per costruire una solida alternativa per il bene del Paese. Se questa finalità è certamente necessaria e positiva, resta comunque ampiamente trascuratoli nodo centrale della politica italiana, ossia il recupero di una concreta, vitale alleanza tra classe politica e cittadini, che è qualcosa di più e di ben diverso dal mero contrasto dell’astensionismo. Il centrosinistra si è troppo speso nella ricerca del consenso elettorale e troppo poco nell’interpretare l’evoluzione della società e nel farsi carico delle istanze diffuse dei cittadini. Va osservato un altro aspetto ingannevole, nella pur generosa tensione del centrosinistra degli ultimi anni: la propensione a ripetere, o forse a conservare, il metodo dell’Ulivo, che oggi non ha più efficacia sia perché lo si richiama più nella forma che nella sostanza, sia soprattutto perché l’Italia del 2005 si trova in una situazione radicalmente diversa – nel contesto europeo e mondiale – rispetto al ’95. La storia del nostro Paese ha subito una cesura, nel decennio, non dissimile dal ’68 o dall’89, e non solo per il terrorismo internazionale. Quando allora nel dibattito politico di area si attribuisce a questa o quella componente del centrosinistra la responsabilità di aver indebolito o portato alla crisi l’Ulivo, si compie una distorsione della realtà e rischia di imboccare una strada sbagliata per l’avvenire. La formula dell’Ulivo appartiene al passato: può esserne ripreso lo spirito, non la struttura. Dichiararsi «ulivisti» ha un senso solo se si intende rinnovare una esperienza felice.

            Sulla scena politica del centrosinistra sono comparse tre nuove forme di aggregazione: in ordine di tempo la Margherita, la Federazione (dell’Ulivo), l’Unione. La Margherita, come è noto, è sorta dall’incontro di popolari, democratici e laici di ispirazione liberaldemocratica. Le ragioni della sua nascita sono principalmente da ricondurre a due aspirazioni: contribuire ad unire le forze democratiche e rendere più coesa la componente del riformismo gradualista del centrosinistra. Essa dunque si configurava come crogiuolo di una forza plurale, capace – proprio in virtù del suo pluralismo – di convergere su grandi linee programmatiche con l’intera area del centrosinistra. Questa potenzialità è stata però frenata e ristretta dalla rigida veste di partito, che, invece di valorizzare l’incontro delle diversità, le ha volute mescolare in una tendenziale uniformità. Per i primi tre anni di vita del nuovo partito la condizione di forza di opposizione ha consentito una buona affermazione della Margherita, la raccolta di un ampio consenso e una non difficile convivenza delle culture di origine delle componenti. Ma profilandosi la possibilità di passare dall’opposizione al governo del Paese si sono risvegliate le identità interne: non per volgari motivi di spartizione del potere, ma per la naturale e profonda ragione che il passaggio alla attuazione del riformismo implica l’affiorare delle sottaciute varietà di metodo e, per certi aspetti, di sostanza. La fragilità della pretesa contaminazione delle culture si è rivelata in due fenomeni apparentemente distinti, ma tra loro correlati: da un lato la formalizzazione di una maggioranza di circa l’80%, abbastanza variegata essa stessa al suo interno, e di una minoranza di circa il 20%; dall’altro la raccolta di altre componenti di assai varia provenienza e persino in contrasto con lo spirito originario della Margherita. La pluralità delle culture nella Margherita ha assunto ormai un carattere contrattualistico, per taluni aspetti più pericoloso del vecchio sistema delle correnti. Si deve allora dedurre che questo partito ha perduto ogni validità? Credo di no, al contrario potrebbe crescere di valore nel panorama politico italiano, ma  a due condizioni: che ricominci da una fase costituente sulla base di un aperto confronto fra culture e progetti, alla ricerca di un comune denominatore; che si impegni a raccogliere le istanze dei cittadini, abbandonando il recupero di vecchio o interessato ceto politico.

            Il secondo fenomeno di trasformazione del centrosinistra è il progetto di Federazione, avviato con intese elettorali nel corso del 2004 tra DS, Margherita, SDI e repubblicani europei, e poi ripreso senza successo a livello di aggregazione nelle rappresentanze elette. Tre sono i passaggi della costituenda FED: il primo fu quello della lista unitaria per le elezioni europee del 2004, il secondo gli accordi per le regionali del 2005, il terzo il progetto di fusione dei gruppi parlamentari alla Camera e al Senato. Nella tornata elettorale per il Parlamento europeo si profilò un disegno interessante nella linea politica dei quattro partiti, perché ci si proponeva di superare in Europa il contrasto/accordo tra PPE e PSE e in Italia si voleva prefigurare uno schieramento potenzialmente maggioritario rispetto al polo di centro-destra. Ma il ventilato gruppo parlamentare unitario a Bruxelles non venne costituito, mentre in Italia l’asserito successo della Federazione non raggiunse la misura desiderata, anche se comunque rispetto al polo avversario ebbe inizio una apprezzabile rimonta. Nella competizione elettorale della primavera del 2005 il centrosinistra ottenne un ottimo risultato, a conferma di quello già verificatosi nelle elezioni amministrative; e tuttavia la FED non funzionò quale motore della rimonta, anzi il dibattito apertosi al suo interno e la parziale unità di liste con alcune eccezioni resero evidente il fatto che quel tipo di alleanza non aveva ancora trovato la sua strada. «Uniti per l’Ulivo» era la formula adottata, ma proprio essa mostrava la debolezza del progetto, sia perché non si scorgeva il nesso con lo spirito dell’Ulivo del ’95, sia per la non partecipazione di alcune componenti di quella originaria alleanza, come i Verdi. In realtà i 4 partiti della FED restavano profondamente diversi nella loro visione del futuro e andava manifestandosi una sempre più palese concorrenza tra i maggiori; DS e Margherita, in misura direttamente proporzionale al crescere dei successi elettorali e alle speranza di strappare al centrodestra il governo del Paese. Vi fu infine il tentativo di federare i rispettivi gruppi parlamentari, tentativo più sviluppato al Senato e meno alla Camera, rimasto però sulla carta. Il vero nodo politico della FED è stato ed è il problema di una forte alleanza di tutto il centrosinistra, intorno ad un programma costruito insieme e ad un leader che ne sia l’espressione e la guida. Tale programma non esiste ancora, mentre Romano Prodi, che indubbiamente ha le qualità per essere il punto di riferimento del centrosinistra, è indotto a ricercare attraverso formule un consenso che invece è ottenibile solo intorno ad essenziali scelte politiche. Così la FED non ha futuro, anche perché le ricorrenti affermazioni di taluni suoi esponenti circa la stabilizzazione di «Uniti per l’Ulivo» o addirittura la sua evoluzione in partito democratico contraddicono la ricchezza di una convergenza plurale e inducono molti a temere la omologazione alla componente più forte.

            Il più recente stadio di coesione del centrosinistra è l’Unione, che, senza pretesa di eliminare le diversità delle posizioni da Rifondazione all’Udeur, si propone quale alleanza progressista alternativa al Polo delle Libertà. È evidente che si tratta di un ritorno dei partiti con un netto stacco rispetto all’Ulivo e alla FED, specialmente se si pensa che per quest’ultima si era a lungo parlato di cessione di sovranità da parte appunto dei partiti. A controbilanciare questa ripresa di protagonismo delle singole forze politiche (anche di quelle minori, se non addirittura di politici «free lance»), si propone una direzione forte affidata a Prodi, al quale si riservano prerogative super partes e poteri decisionali di grande rilievo. È difficile dire se questa sorta di diarchia (Prodi e partiti) sia una svolta di grande momento nel centrosinistra: oggi si può sperare che sia un effettivo passo in avanti nell’offrire alla politica italiana un sicuro riferimento alla composita volontà dei cittadini e al tempo stesso una guida politica coesa e forte, necessaria in una fase di gravissima condizione economica e sociale e di pesanti preoccupazioni per la sicurezza. L’Unione ha il grande vantaggio di essere aperta sia ai partiti sia ad istanze culturali e sociali diversamente espresse e soprattutto di essere una sorta di patto democratico, non meramente elettorale. Non sarà facile mettere insieme sul piano programmatico le tesi della sinistra radicale con quelle di tipo liberaldemocratico o persino moderate del centro, ma, se nel clima del dopoguerra riuscirono ad accordarsi DC e PCI nel formulare la costituzione del ’48, non dovrebbe essere impossibile ritrovare oggi nei suoi tratti essenziali uno spirito costituente. Si sta però compiendo un grave errore di metodo, quello cioè di mettere a fondamento dell’Unione la guida di Prodi attraverso una conferma popolare con le primarie. Oltre i rischi di inutili squilibri tra la sinistra e il resto dell’Unione le primarie sono in contrasto con lo spirito di un patto costituente, non garantiscono la tenuta dell’Unione e isolano maggiormente la figura di Prodi. C’è da augurarsi che o si rinunci alle primarie o si trasformino in una sorta do assemblea di delegati di partiti e di movimenti, a tutto vantaggio di una comunanza di progetto e della stessa leadership di Prodi.

            Margherita, FED e Unione non debbono essere dunque scenari rigidi nei quali ciascuna cultura possa giocare il suo ruolo senza però discuterne i contorni. I cattolici democratici non devono decidere se accettare o rifiutare tali scenari, ovvero non devono soppesare le opportunità di avere in essi spazio. Essi sono piuttosto provocati a valutare innanzitutto se e come le tre strutture corrispondano alla loro idea di comunità nazionale e di rappresentanza democratica e quale eventuale contributo essi possano darvi e, infine, quali miglioramenti siano ad essi consentiti. Per quanto sopra detto l’Unione offre la maggiore opportunità per una ripresa dal basso del cattolicesimo democratico italiano per due principali motivi: il suo carattere di patto democratico intorno ad obiettivi essenziali per questa specifica stagione; il pluralismo delle componenti non limitato ai partiti strutturati. Si tratta tuttavia di un patto che, rispondendo ai principi fondamentali di democrazia, si limita a individuare un itinerario di massima e ad affrontare di questo la prima tappa: la rinascita del nostro Paese sotto il profilo sociale, economico, internazionale. Per il cattolicesimo democratico, come per ogni altra cultura politica all’interno dell’Unione, rimane aperta la sfida del suo radicamento popolare, della sua identità e della sua laicità politica. Proprio la natura di patto dell’Unione solleva con maggiore incisività l’interrogativo intorno alla diaspora dei cattolici democratici, stimolati a rendere unitariamente il loro contributo di idee, di valori, di servizio democratico. Non è qui evidentemente questione di opzioni partitiche, ma di un ben più grande dilemma: quello del senso, della vitalità e della incidenza del cattolicesimo democratico nella società italiana. Si delinea pertanto la necessità di una fondazione, non meramente culturale, di una nuova fase del cattolicesimo democratico in Italia con una speciale attenzione alla dimensione europea del problema.

            Si potrebbe osservare che cattolici democratici sono presenti in diverse forze politiche di centrosinistra (Margherita, DS, Udeur e altre), che anzi nel partito di Rutelli e di Parisi essi sono componente assai rilevante e che in quello di Mastella sono largamente prevalenti. Eppure oggi è assolutamente urgente guardare oltre la classe politica, che apprezzabilmente intende rappresentare la cultura e gli ideali cattolici democratici, e porsi in ascolto di quella parte del Paese che, benché minoritaria, s riferisce alla tradizione cristiana. Non è questione di identità da far valere nei partiti di appartenenza, è piuttosto questione di radicamento e di reinvenzione. La collocazione partitica è un secondo momento, prima bisogna esistere nella consapevolezza, nella cultura e nell’esperienza di vita sociale.

            I recenti dibattiti estivi sul centro appartengono ad una sintassi politica (o forse  a un gergo) che non si addice ai cattolici democratici solleciti di un rinnovamento della politica, soprattutto se per Centro si intende una sorta di casa dei moderati. Il tema del Centro, così come è in questi giorno affrontato, è tutto interno alla rappresentanza parlamentare e ai rapporti tra i partiti, mentre trascura la realtà della società italiana, nella quale, se mai, Centro è sinonimo di condizione diffusa, di speranze condivise, di attese che vanno oltre interessi settoriali, di buon senso popolare. Una politica di centro è allora di per sé progressista, popolare, aliena da tendenze reazionarie come da fughe in avanti precipitose, ma decisamente democratica e capace di anche ardite novità. In altre parole è movimento, pluralismo, sviluppo con la gente: non si identifica necessariamente in un partito e può rendere più efficace un sistema bipolare nel quale non si demonizzi l’avverso fronte, ma lo si combatte con scelte concrete. Oggi una seria politica di centro si colloca, a mio parere, quasi naturalmente nel centrosinistra, in alternativa al preteso moderatismo che prevale nel centro-destra. Paiono allora fuori luogo le preoccupazioni che taluni esponenti dell’Unione hanno manifestato, affermando che una politica di centro è in contrasto con il centrosinistra e con la sua battaglia democratica.

 


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