INTRODUZIONE AI PROBLEMI DELLA LAICITA’

(Relazione introduttiva tenuta al Convegno dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti su “Problemi pratici della laicità agli inizi del secolo XXI” – 26-27 settembre 2007)

Leopoldo Elia

 

Questo tema è stato finora trattato soprattutto dagli studiosi di diritto ecclesiastico che, insieme ad alcuni civilisti (diritto di famiglia), hanno fornito contributi di alto livello specialmente a proposito del rapporto tra lo Stato e le Chiese, con particolare riguardo alla Chiesa cattolica. Peraltro non sono mancati giovani costituzionalisti nelle Università di Napoli, di Torino, di Ferrara, di Milano e di Teramo' che hanno affrontato questioni di bioetica e di biopolitica: ma questo convegno è anche l'occasione per sollecitare costituzionalisti di altre Università (e di più lunga esperienza) ad instaurare un dibattito di cui si sente l'urgente necessità. Infatti presto o tardi la Corte costituzionale dovrà affrontare questioni nuove in queste materie e non solo in sede di giudizi di ammissibilità di referendum abrogativi. C'è dunque bisogno di sviluppi dottrinali che costruiscano linee di argomentazione direttamente riferibili a principi e a norme costituzionali: non certamente per sostituirsi all'opera interpretativa della Corte, ma soprattutto per adeguare alle discussioni svoltesi in altri paesi, e particolarmente in Germania, le condizioni del nostro dialogo scientifico su questo arduo terreno.

Inoltre non deve ingannare la modestia del titolo di questo convegno che richiama, a proposito della laicità, quello di un noto lavoro di A. C. Jemolo, pubblicato quarantasei anni addietro: Problemi pratici della libertà. Ebbene, fin dalle prime pagine l'illustre autore era indotto a chiarire le nozioni di società civile e di Stato e dei loro reciproci rapporti; così, anche stavolta, alla trattazione dei temi di settore vanno premesse alcune impostazioni di carattere generale per inquadrare gli attuali problemi pratici, tanto più che è doveroso andare oltre i tradizionali rapporti tra Stato e Chiese per toccare anche questioni che riguardano aspetti fondamentali della vita umana.

Per laicità intendiamo, grosso modo, una situazione in cui lo Stato si atteggia come "neutrale" e imparziale rispetto alle Chiese, dalle quali prende, per così dire, le stesse distanze, con una separazione che può presentarsi come indifferente, ostile o cooperativa, ma che tutela comunque la libertà religiosa. Di laicità in questo senso, secondo lo storico Jean Baubérot°, si è incominciato a discorrere per iniziativa del Buisson, collaboratore stretto di Jules Ferry, creatore, com'è noto, della scuola pubblica laica nella terza repubblica (intorno al 1880). Non che prima del nome non ci fosse la cosa; ma è pure significativo che la definizione di Repubblica laica entrasse poi nella Costituzione francese del 1946 con il consenso dei leaders del Movimento Repubblica Popolare, rassicurati dalla intesa con i socialisti e i comunisti che la laicità si risolvesse in un atteggiamento della Repubblica "neutrale" ed imparziale verso tutte le confessioni religiose; la stessa definizione di "laica" è poi ripresa nell'art. 1 della Costituzione gollista del 1958.

A questo punto, prima di passare ai problemi pratici della laicità in Italia, si rende necessaria una breve premessa storica.

Nel nostro Paese, se si considerano gli ultimi due secoli, si realizza una condizione di base favorevole ad una laicità pacifica o pacificata: in quel lungo periodo l'Italia ha evitato le stragi del clero verificatesi in Francia durante la grande rivoluzione di fine settecento ed in Spagna durante la guerra civile del 1936-1938. Tuttavia il personale politico risorgimentale, dopo il fallimento delle idee giobertiane nel 1848, assunse (per iniziativa del Cavour) orientamenti liberali nella legislazione e nella amministrazione, in senso ostile agli interessi ed ai principi cattolici; dall'istituzione del matrimonio civile alla espropriazione dei beni ecclesiastici e, successivamente, alla laicizzazione della scuola. Ciò malgrado, pur dopo l'apertura della questione romana con la perdita del potere temporale dei papi, la legge delle guarentigie fu molto riguardosa nella conservazione di tutto quello che potesse giovare all'esercizio indipendente dei poteri del Pontefice; e siccome il non expedit non si estendeva alle elezioni amministrative, anche l'insegnamento religioso nelle elementari, poi reso non obbligatorio, era svolto, come l'intera istruzione, sotto il controllo delle amministrazioni comunali, non di rado guidate da notabili cattolici; né si poteva pretendere che lo Stato favorisse l'istruzione confessionale privata, in un periodo in cui i docenti avrebbero ispirato il loro insegnamento alla condanna delle idee liberali contenute nel Sillabo di Pio IX. Chi vuole avere un'idea non convenzionale di chi fosse un laico laicista del post-risorgimento può leggere le pagine assai colorite e godibili che Jemolo scrisse per un convegno sulla laicità tenuto a Marsiglia, con cenni molto penetranti sul costume e sulla mentalità della borghesia di quell'epoca; costume e mentalità destinati a non sopravvivere alla prima guerra mondiale.

Le vicende che portarono ai Patti Lateranensi, pochi anni dopo l'avvento del fascismo, sono troppo note perché valga la pena di soffermarcisi, essendo sufficiente dire che Mussolini, soprattutto nel Concordato, cancellò idee ed istituti dello Stato liberal-democratico; con un ritorno ad un confessionismo che, per la verità, era rimasto sepolto fin dal 1848 nel primo articolo dello Statuto del Regno, in cui la religione cattolica era definita come la sola religione dello Stato. Mussolini lo risuscitò, ridandogli vita specialmente nel codice penale, nel diritto matrimoniale e nella normativa sulla scuola. Federico Chabod, in un suo corso parigino di storia contemporanea, ha spiegato assai bene i motivi per cui la Chiesa italiana poté affrancarsi dalle compromissioni col fascismo e rinvio a quelle pagine ancora attuali. Nella Assemblea Costituente il Vaticano ottenne certamente molto con il riconoscimento della natura originaria dell'ordinamento ecclesiastico, originarietà che fino allora era nota solo ai giuristi lettori dell'opera fondamentale di Santi Romano. Da questo riconoscimento vennero fatti discendere l'applicazione del principio di bilateralità nella disciplina dei rapporti tra Stato e Chiesa, che restavano regolati dal Concordato del 1929, il quale veniva considerato da molti come una disciplina provvisoria da adeguare alla futura Costituzione. In cambio la Repubblica ottenne, tra l'altro, che la Chiesa non appoggiasse un movimento legittimista monarchico in effetti mai decollato. L'art. 8 della nuova Costituzione estese, in forma attenuata, il principio della bilateralità e delle intese anche alle altre confessioni religiose, garantite come "egualmente libere davanti alla legge". La Democrazia Cristiana si oppose alle proposte che avrebbero voluto pure l'eguaglianza di trattamento tra tutte le confessioni: ma essa sarebbe, in effetti, risultata incoerente con la sopravvivenza del Concordato del '29 e con l'art. 1 del Trattato lateranense nel quale era riprodotto il primo articolo dello Statuto sulla religione di Stato. È vero che, secondo il relatore, on. Dossetti, il contenuto dei Patti del '29 non veniva propriamente costituzionalizzato; ma è altrettanto vero, come poi affermerà la Corte costituzionale, che le norme pattizie potevano derogare alle norme della nuova Carta eccettuato il caso di contrasto con i suoi principi supremi. La provvisorietà della disciplina del concordato lateranense ebbe a prolungarsi fino al 1984 quando sopravvennero la revisione del vecchio patto per l'adeguamento alla Costituzione nonché, in un protocollo addizionale, la dichiarazione che l'art. 1 del Trattato sulla religione di Stato non era considerato più in vigore. Il procedimento di revisione era cominciato fin dal 1967 con il terzo governo Moro: ma l'introduzione del divorzio (ritenuta dalle autorità ecclesiastiche in violazione dell'art. 34 del Concordato) e poi la legge sulla interruzione della gravidanza (entrambe le normative vennero confermate da referendum) ritardarono la conclusione del lunghissimo negoziato, che mise capo ad una serie di atti normativi° nei quali poteva ravvisarsi pure una specie di superamento delle controversie suscitate soprattutto dalla introduzione del divorzio anche per i matrimoni concordatari: la giurisprudenza della Corte costituzionale, che in un caso riconobbe il contrasto di una norma del vecchio Concordato con uno dei principi supremi, accelerò probabilmente la chiusura dell'annosa vicenda. Certo si poteva fare di più, superando quelle che, pudicamente, sono state considerate "eccedenze confessioniste" rimaste nel nuovo Concordato, con particolare riferimento - è da presumere - all'efficacia civile delle pronunce dei tribunali ecclesiastici in materia matrimoniale, ormai assente dai concordati pattuiti in gran numero dopo la caduta del muro di Berlino, perfino in quelli conclusi con i piccoli Stati baltici. Lo dico perché questa sopravvivenza ci ha procurato, tra l'altro, nel 2001 una pronuncia della Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo'°, che censura la corrività conformista di una nostra Corte d'appello e della Cassazione nel dichiarare l'esecutività di una sentenza ecclesiastica in un caso davvero conturbante: con quale onore per la Chiesa e per lo Stato italiano lascio a voi di giudicare.

Nel suo discorso all'Archiginnasio di Bologna, Dossetti fu forse troppo ottimista nel ritenere avviato un itinerario che sarebbe pervenuto presto a una sorta di diritto comune tra tutte le confessioni: con uno slittamento sostanziale del secondo comma dell'art. 7 nell'area delle intese previste dall'art. 8". II cammino è probabilmente meno agevole di quanto egli si augurasse. Ma, comunque, non va sottovalutata la carica "programmatica" del principio di laicità che non a caso viene proclamato dalla Corte nel 1989, con la famosa sent. n. 203" e cioè dopo il nuovo Concordato e il superamento della "religione di Stato": questa carica programmatica si esprime soprattutto nella tendenza a trasformare progressivamente l'eguale libertà dell'art. 8 nell'eguale trattamento di tutte le confessioni. A parte la conclusione di numerose intese con le confessioni acattoliche approvate dal Parlamento dopo il nuovo accordo, quell'itinerario di progressiva equalizzazione include due tappe molto significative: la giurisprudenza della Corte che eguaglia tutti i cittadini e di riflesso tutte le confessioni nella tutela penale del sentimento religioso e l'ammissione di alcune Chiese nel sistema di finanziamento dell'otto per mille. Questi risultati sanciscono non solo nel rapporto Stato-Chiese, ma soprattutto, nella società civile, una situazione di pace religiosa molto positiva, che Cesare Mirabelli definisce giustamente con una formula che potrebbe sembrare un ossimoro, ma tale non è, di "separatismo cooperativo": la separazione-neutralità tra la politica e la religione è scolpita nel primo comma dell'art. 7 mentre la cooperazione si sviluppa a molti livelli di fonti normative e di intese amministrative con la CEI, previste dal nuovo Concordato e dagli accordi con le altre confessioni. Effettivamente all'inizio del nuovo secolo la nostra laicità è molto vicina a quella media europea, con un di più di colla­borazione tra Stato, regioni e Chiesa cattolica. Del resto anche la laicité de combat della Francia, sviluppatasi soprattutto nell'ot­tocento durante la terza repubblica, è venuta come addolcendosi: se l'Italia ha l'otto per mille, la Francia ha il finanziamento delle scuole private in prevalenza cattoliche, senza dire degli aiuti alle associazioni cultuali per la cura degli edifici religiosi".

Insomma la definizione di laicità, come è espressa nella motiva­zione della sentenza n. 203 del 1989, corrispondeva anche ad una realtà in movimento, in cui si valorizzava il pluralismo confes­sionale e culturale delle Chiese e delle opinioni e si favoriva un clima nel quale il dialogo tra credenti e non credenti prometteva reciproca comprensione dopo la fine delle ideologie totalitarie.

Oggi è necessario constatare che negli ultimi anni si è rea­lizzato un "riposizionamento" della Chiesa, consistente in un interventismo anche politico di carattere identitario, che ha origini molteplici e complesse, comprendenti in primo luogo la scomparsa della Democrazia Cristiana, distintasi per aver mediato, quasi sempre con coraggio e dignità, tra pretese ecclesiastiche e ragioni della politica. In effetti la dissoluzione della Democrazia Cristiana non solo ha provocato un vuoto che si è voluto riempire con iniziative proprie di un grande gruppo di pressione (il maggiore del Paese), ma soprattutto ha aperto 1a strada alla formazione di un partito a destra delle tradizionali posizioni della DC, un partito che costituisce di per se stesso una tentazione continua ad utilizzare i suoi voti. Ha scritto Pietro Scoppola - alla sua memoria va un commosso pensiero-: "Questa linea di fatto ha sempre avuto e ha due costi simmetrici: da un lato la Chiesa deve inevitabilmente pagare in termini di legittimazione del potere i benefici che dal potere le vengono concessi; dall'altro il potere usa la religione per i suoi obbiettivi, piega o tenta di piegare la Chiesa ai suoi disegni in un uso politico che è sempre nocivo alla immagine della Chiesa. In ogni caso la laicità della politica e dello Stato risulta compromessa. Secondo lo storico Francesco Traniello'S la sentenza n. 203 del 1989 rappresentava il punto di equilibrio, o se si vuole, il compromesso possibile tra diverse idee o concezioni della laicità dello Stato, presenti sul campo, nella storia e nella Costituzione repubblicana consentendo, "entro certi limiti, la convivenza di sue diverse rappresentazioni e giustificazioni, pur sulla base del principio imprescindibile della libertà di religione". È allora da chiedersi se il compromesso della separazione cooperativa non si fondasse su una doppia rinuncia già individuata da Traniello: quella della Chiesa ad ogni forma di subordinazione dei fini della comunità politica ai propri fini religiosi; e l'altra rinuncia dello Stato a porsi come puro garante della libertà di coscienza, di religione e di culto nel quadro del diritto comune (a favore invece di una di­mensione collaborativa). Solo l'avvenire ci dirà se potrà reggere l'intesa sottostante come sostrato politico di quella sentenza-simbolo. Certo le avvisaglie di questi anni (dal 2004 ad oggi) non sono positive: per il referendum sulla procreazione assistita si poteva pensare ad una valorizzazione del dissenso sul piano antropologico, ma certo l'organizzazione dell'astensionismo ha turbato anche studiosi di solito molto equilibrati come il Margiotta Broglio, il quale non tanto ha evocato il fantasma del non expedit quanto ha insistito sulla "ondata neoconfessionista”. Ma il caso più serio riguarda lo scontro sul disegno di legge per interventi di carattere assistenziale a favore delle unioni di fatto, o meglio, in molti casi, del soggetto debole di queste unioni. A mio avviso manca la materia prima per considerare contrarie all'art. 29 della Costituzione regole che si pongono non contro, ma proeter o fuori della disciplina della famiglia fondata sul matrimonio: non vale l'accusa per i componenti l'unione di fatto di volere i diritti propri della famiglia secondo il modello costituzionale rifiutandone i doveri, perché qui la differenza riguarda lo status e soprattutto le garanzie, incompara­bili, relative alla fine dell'unione. Comunque il carattere assisten­ziale del disegno di legge governativo, che ha ricevuto il nome non fortunato di DICO, è stato posto in luce da una vicenda dolorosa sulla quale tutti siamo rimasti in commosso silenzio quando essa si è conclusa. Ma ormai, a distanza di tempo, dobbiamo trarre qualche insegnamento da ciò che è avvenuto; si tratta del caso D'Auria, dipendente del Sismi ferito in Afgha­nistan; trasferito a Roma nell'ospedale del Celio, si è potuto celebrare un anomalo matrimonio concordatario con tutti gli effetti civili conseguenti. Quando quel cappellano si è assunto la responsabilità di celebrare quel matrimonio ho provato per lui profonda solidarietà perché egli è corso in aiuto di una madre di tre bambini come il buon samaritano della parabola evan­gelica. Ma perché si deve caricare sopra un sacerdote il peso di una decisione tanto singolare? Evidentemente, in mancanza di una legislazione od hoc in tema di coppie di fatto, si è dovuto rimediare con un intervento extra ordinem. Tralascio il carattere di casualità del rimedio: e che accade per chi non può tornare in Italia perché è morto a Nassirya? Ma il punto più grave è un altro: gli interventi protettivi per i componenti delle coppie di fatto non comportano per nulla quella "composizione di assoluti", forse incomponibili, di cui hanno parlato il vescovo Paglia e Giuliano Amato, soprattutto a proposito di bioetica e di eu­tanasia. Ma dove sono qui i principi e i valori non negoziabili? Perché da parte della CEI non si è proporzionata la reazione ai DICO misurandola su quella della Chiesa francese ai PACS? Gli ultimi segnali negativi vengono dalle difficoltà che incontra alla Camera il disegno di legge sulla libertà religiosa: qualche anno fa, nel tempo del primo governo Prodi, sembrava che l'approvazione fosse possibile. Oggi gli ostacoli appaiono più elevati e si è manifestato durante l'audizione del Segretario Generale della CEI il timore per un eccesso di omologazione alle altre confessioni di quella cattolica. Veramente non si capisce come una confessione così forte in fatto e in diritto come quella cattolica, almeno in Italia, possa nutrire di queste preoccupazioni. È sperabile che l'iter del testo, iniziato dieci anni fa, venga a conclusione prima della fine della XV Legislatura.

Più recentemente Scoppola, nella introduzione alla raccolta dei suoi articoli pubblicati su Repubblica, ha sottolineato in termini ancora più netti la capacità della CEI di condizionare gli equilibri politici e gli sviluppi legislativi: rinvio dunque a quelle due pagine introduttive. Ma da Scoppola, che critica anche gli errori della sinistra, colgo l'invito a una comprensio­ne critica della nuova realtà.

Indubbiamente il protagonismo della Chiesa italiana è un fenomeno che ha molte cause e qui posso solo indicarne alcune di carattere più evidente e, forse, meno profonde. La prima e più determinante è la lunga crisi delle istituzioni democratiche nel nostro Paese: questa debolezza si rivela appieno nella mancanza di una politica ecclesiastica coerente ed attenta. In secondo luogo è facile verificare la minore decristianizzazione dell'Italia rispetto, ad esempio, alla Francia con danni meno gravi derivati dal processo di secolarizzazione ritenuto ormai concluso. È vero che la nuova linea dell'episcopato italiano potrebbe trovare entro l'esperienza francese un buon precedente nella grandi manifestazioni di piazza a Parigi che nel 1984 indussero il Presidente Mitterrand a far ritirare il progetto di legge del Ministro Savary sulla riforma della scuola privata. Ma in questa vicenda si notano due aspetti: da una parte la puntualità di quella iniziativa, dall'altra l'importanza straordinaria per la laicità francese della questione scolastica. Da noi invece della puntualità, si minaccia una sistematicità di interventi, una nuova "faculté d'empécher" esercitata in tutte le sedi pos­sibili, facendo differire, ritardare, con palese tattica ostruzionistica, le decisioni sulle proposte legislative sgradite, sostituendo i politici nel giudizio su che cosa è più urgente per gli italiani e che cosa lo è meno: insomma, incidendo sull'agenda dell'ese­cutivo e del Parlamento nelle materie ritenute sensibili. È vero che gli italiani, secondo l'indagine Demos-Eurisko del 2007, in grande maggioranza, compresi i fedeli praticanti, esprime aperta ostilità a che la Chiesa prescriva ai rappresentanti par­lamentari cattolici i comportamenti da tenere in Parlamento, obbligandoli in coscienza. Probabilmente questi nostri concittadini desidererebbero una CEI che si occupasse più dei comportamenti delle persone nella vita privata e pubblica e meno degli articoli dei disegni di legge. Ma c'è una linea di lungo corso per far valere la specificità italiana, che risale ai primi anni del pontificato di Giovanni Paolo Il, con l'indicazione, espressa nel 1986, che il popolo italiano è "destinatario e custode pri­vilegiato dell'eredità degli apostoli Pietro e Paolo". Mi scuso per essermi soffermato troppo a lungo su questa tematica, ma, come costituzionalista, e come cittadino cattolico, avverto la grave preoccupazione per un evento che non domani, ma dopodomani, potrebbe prodursi: la divisione del nostro Paese nelle due Italie come già nell'ottocento si realizzò oltr'Alpe la divisione tra le due Francie. Questo ulteriore cleavage deve essere evitato in una comunità statale che soffre già per l'eccesso di linee di frattura, le quali contribuiscono alla sua frammen­tazione. Inoltre, come già notava lo storico René Rémond, du­rante i lavori della Commissione Stasi di cui era componente, i fondamentalisti erano presenti in entrambi i campi in cui si dividevano le Commissioni. Ma, appunto, non bisogna com­mettere errori che possano favorire il duplice fondamentalismo. Né le prospettive migliorano con la tendenza a considerare il cattolicesimo come "religione civile", tendenza, del resto, respinta dalla stessa CEI.

 

Naturalmente il pericolo di tensioni cresce in relazione alla necessità di fare i conti con le grandi questioni antropologiche, con particolare riguardo alla bioetica e alla biopolitica nonché ai rapporti tra ricerca scientifica e discipline di tutela dei diritti delle persone.

Bisogna premettere che non ci si può illudere di mediare tra posizioni chiaramente dilemmatiche: per fare un esempio quasi banale, tratto da una vicenda trascorsa, è chiaro che il matrimonio o è indissolubile o può essere sciolto; non ci sono vie di mezzo per conseguire esiti meno conflittuali. Si può tuttavia pensare, come è più volte avvenuto in passato, a leggi che consentano di ricorrere a taluni istituti in via del tutto facoltativa; sicché, in base a convincimenti religiosi o morali di diverso orientamento, le Chiese possano dissuadere i loro fedeli dal fare ricorso a rimedi predisposti da leggi permissive in senso proprio e cioè non ispirate da lassismo morale. Intendo nel senso autentico del giurista Modestino secondo la formula riportata nel Digesto: "Legis virtus est imperare, vetare, permittere, punire”. Qui si utilizzerebbe quella che Esposito, nei suoi Linea-menti, valorizzava come una funzione permissiva del diritto: e come in fatto è accaduto, per rimanere all'esempio richiamato, con l'introduzione del divorzio.

In altri casi si potrà fare ricorso all'obbiezione di coscienza per determinate categorie di soggetti a somiglianza di quanto è avvenuto con le previsioni contenute nella legge sulla interruzione della gravidanza. Ma in questioni più difficili e più impegnative (inizio e fine della vita) è chiaro che a dirimere le controversie non sarà sufficiente il richiamo al diritto naturale, giudicato dallo stesso Cardinal Ratzinger "uno strumento purtroppo diventato inefficace" in una società laica e pluralistica, analogamente all'idea di natura in cui natura e ragione si compenetrano: pertanto, "come ultimo elemento del diritto naturale, che vuole essere il più profondamente possibile un diritto razionale - almeno nell'età moderna - sono rimasti i diritti umani".

Peraltro questo ripiegamento sui diritti umani non può escludere secondo l'esperienza degli stati costituzionali contemporanei, che si discuta su quali di questi diritti si sottraggano a bilanciamenti o siano invece sottoposti al balancing test; e a quale tipo di bilanciamento.

Così si ravvisa la necessità di ricorrere a quegli approfondimenti che investono il principio della dignità della persona umana e il criterio di ragionevolezza. Non si obbietti che in questo modo, chiamando in causa la dignità, si procede con un obscurum per obscurius; la giurisprudenza delle Corti costituzionali e la letteratura, in particolare quella tedesca, che si occupano di questi problemi, pur con giustificabili oscillazioni, hanno conseguito notevoli chiarimenti. Come è ovvio, oltre i responsi giurisprudenziali, bisogna prendere cognizioni delle legislazioni. Sempre a titolo di esempio richiamo l'attenzione sulla contestata Legge francese c.d. Leonetti del 22 aprile 2005 che ha voluto fornire soluzioni concrete alla paura di morire in condizioni degradanti e di particolare sofferenza. Attualmente il dibattito in Francia vede contrapposti i sostenitori di questa legge, ritenuta sufficiente, e i sostenitori di una riforma che legalizzerebbe l'eutanasia: proprio mentre in Olanda pazienti e medici si dichia­rano più favorevoli alle cure palliative. Senza giungere a questi estremi è evidente che il costituzionalista avrà la sua parola da dire circa l'interpretazione dell'art. 32 della nostra Costituzione sul diritto alla salute: in particolare è sul secondo comma che si appunta la necessità di ulteriori approfondimenti. La prima proposizione di questo comma suona: "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge". Quale portata attribuire a questa norma così strutturalmente facoltizzante? Al limite, una interpretazione potrebbe sostenere che, partendo da questo precetto, si può arrivare in certe condizioni al diritto di morire o, rectius, alla libertà di morire. Ma, per risolvere la questione della esistenza nell'ordi­namento di questa libertà, si deve chiamare in causa l'art. 2 della Costituzione dedicato ai diritti inviolabili (da cui si ricava il principio della dignità della persona) e dei doveri inderogabili. Del resto già nel secondo comma dell'art. 32 si trova un'altra proposizione, che rappresenta proprio un ponte verso l'art.2:

"la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal ri­spetto della persona umana". Anche se nelle intenzioni dei proponenti si voleva evitare la sterilizzazione, mi pare che la norma abbia un significato più ampio di apertura al rispetto della dignità della persona umana.

Problemi di grande rilievo si pongono anche a proposito della tutela di situazioni connesse alla nascita dell'uomo. Due brevi notazioni: sconsiglierei dall'usare la formula "il soggetto futuro" perché per altri l'embrione è un soggetto che già c'è. Insomma l'espressione "soggetto futuro" dà per pacifica una qualificazione fondamentale che andrebbe invece dimostrata. In secondo luogo si dovrebbe trovare una proporzione tra la tutela dell'embrione, del feto e della madre in modo da evitare soluzioni sproporzionate che oggi non mancano nella nostra legislazione. Infine va considerata la questione della simultaneità tra due diritti entrambi riferibili all'embrione: diritto alla vita e diritto alla salute. Se c'è questa simultaneità è possibile negare interventi che evitino malattie ereditarie o meno?

In realtà i pochi interrogativi che ho proposto, a titolo, ripeto, di mero esempio, riconducono alla domanda di fondo che si deve affrontare talvolta col metodo del caso per caso, tal'altra con quello di interpretazioni di carattere generale: che esten­sione ha la pretesa all'autodeterminazione umana per essere compatibile con la dignità della persona? In altre parole, in che limiti l'uomo ha potere su sé stesso, sul proprio corpo e sulla propria vita?

È evidente che per dare risposte all'altezza di queste domande anche il ricorso al principio di maggioranza, che pure è fondamentale nel governo democratico, può rivelarsi insoddisfacente o per lo meno è da usare con grande cautela, come già a suo tempo suggeriva Aldo Moro. Se necessarie, però, le votazioni parlamentari in queste materie sensibili dovrebbero essere slegate dalla disciplina di voto richiesta dai capigruppo: non dimenticando che le leggi vanno fatte per i credenti e per i non credenti e che le leggi facoltizzanti, nel senso che ho chiarito prima, sono di norma le più adatte ad una società pluralista e multiculturale.

 

Leopoldo Elia